Morte a Venice
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La morte è un affare solitario
A Venice, California, le gondole sono ormai scomparse. Le luci sono spente. I canali ricoperti d’olio. E gli ultimi pezzi del glorioso spettacolo che fu - il cinema, il molo, il luna park - vengono fatti a pezzi giorno dopo giorno per far spazio alle pompe petrolifere. In questo scenario spettrale, grigio di nebbia e pioggia, un giovane scrittore si ritrova a seguire una scia di morte che travolge, uno dopo l’altro, i suoi conoscenti. Creature strane e sole, che vivono fuori dalle regole, ai margini della società. Gli ultimi abitanti di una Venice in cui tutto odora di morte e solitudine.
Le atmosfere cupe e soffocanti sono quelle tipiche del noir ma, pur essendovi omicidi da investigare e persino uno stropicciato e stravagante detective ad affiancare l’indagine, si avverte che l’anima di questo libro è davvero lontana dal giallo.
Ray Bradbury, in questo romanzo della maturità datato fine Anni Ottanta, sembra voler evocare se stesso, giovane scrittore di racconti di fantascienza venduti per qualche dollaro, e ricreare l’ambientazione della California decadente in cui ha mosso i suoi primi passi. La sua prosa si fa musica. Le sue parole sono ricche, rigogliose di immagini, suggestioni, citazioni letterarie ed espliciti omaggi al mondo del cinema. La trama, che potrebbe sembrare esile se valutata secondo i canoni del genere poliziesco, diventa l’occasione per riflettere sul senso della vita e sulla forza salvifica rappresentata dall'immaginazione e dalla scrittura. Bradbury esorcizza la morte, esortando a non arrendersi alla disperazione, ai rimpianti, alla solitudine.
Un romanzo originale, profondamente evocativo e malinconico, che sfugge a qualsivoglia classificazione e che potrà essere apprezzato soltanto approcciandovi esenti da pregiudizi e aspettative, lasciandosi trasportare in modo incondizionato da quello che la narrazione può offrire.