Maigret
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L'importante è finire
Doveva essere l’ultimo e lo fu, seppure solo per cinque anni. Per suggellare le avventure del suo ormai ingombrante personaggio, Simenon sceglie il titolo eponimo e immagina Maigret già in pensione e impegnato soprattutto ad andare a pesca in quel di Meung, sulle rive della Loira. Una notte, il tranquillo tran-tran viene sconvolto dal nipote: giovane poliziotto a Parigi, è accusato di aver ucciso il padrone (un prestanome, come si scoprirà ben presto) del locale che era incaricato di sorvegliare. Di malavoglia, lo zio ritorna in città e, sfruttando gli appoggi che ha ancora in polizia malgrado le inevitabili gelosie, riesce a ristabilire la verità. Le modalità sono le solite – molto spirito di osservazione, testardaggine al limite del masochismo (Maigret resta seduto allo stesso tavolo di un bistrot per un infinito numero di ore) e alcune brillanti intuizioni – ma l’indagine svolta nell’ambiente della piccola criminalità parigina che sfrutta prostituzione, spaccio e locali equivoci segue un percorso diverso dal solito: non c’è la caccia a un assassino misterioso bensì il lungo lavorio necessario per spingere alla confusione l’evidente colpevole. Il piccolo e non più giovanissimo boss Cageot, detto il Notaio, viene lavorato ai fianchi con le tecniche che utilizzerebbe un tenente Colombo e infine fatto cadere in trappola in un estenuante faccia a faccia giocato tutto in punta di dialettica in cui il commissario si fa aiutare da qualche astuto sotterfugio. Il ritorno al buen ritiro è il meritato premio che serve probabilmente anche a disintossicare il fegato provato dagli abbondanti sbevazza menti al termine di un’avventura interessante, ma che procede a strappi: le stasi nell’indagini si riflettono nel ritmo della scrittura e nel complesso, se lo fosse davvero stato, si sarebbe trattato di un addio in tono minore.