Le Montagne della Follia
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Nel mondo… della morte senza tempo
H.P. Lovecraft immagina che “Le montagne della follia” si trovino in Antartide. Lì si dirige la spedizione (“Eravamo quattro professori dell’università – Pabodie, Lake del dipartimento di Biologia, Atwood di quello di Fisica, era anche un meteorologo, e io, del dipartimento di geologia e con il comando nominale – più sedici assistenti: sette dottorandi… e nove abili meccanici”) comandata dal narratore, Dyer, che non nasconde “l’importanza cruciale che quel viaggio riveste nella mia vita. Esso segnò per me la fine, all’età di cinquantaquattro anni, della pace e dell’equilibrio che le menti normali posseggono grazie alla loro abitudinaria concezione della Natura e delle leggi della Natura”.
L’avamposto che si dirige verso l’ovest del polo Sud comunica scoperte sorprendenti, ma poi non fornisce più notizie. I superstiti partono per verificare cosa sia successo e s’imbattono in un primo orrore.
La sete di conoscenza e la curiosità scientifica (“Sull’orlo delle vertiginose falesie senza sole sopra il grande abisso… vedere quel favoleggiato baratro dal vero era una tentazione alla quale… sembrò impossibile resistere”) spingono Dyer e l’assistente Danforth a sorvolare le montagne della follia (“Quella memorabile barriera, verso i segreti illibati di un mondo antico e del tutto alieno”) e i resti di un’antica civiltà (“Le incisioni rivelavano… che quella città terribile era vecchia di milioni di anni”) nella quale affonda il segreto dei primordi geologici (“Una regione di grotte, baratri e segreti ipogei che l’uomo mai avrebbe potuto raggiungere”) e antropologici dell’umanità (“La vita preterrestre delle creature dalla testa a stella su altri pianeti”).
I due scienziati atterrano, percorrono il labirinto (“La direzione suggerita dai versi dei pinguini…”), straniscono di fronte alla geografia del luogo (“Forse pensavamo alle rocce grottescamente erose dal tempo del giardino degli dei, in Colorado, o a quelle simmetriche e scavate in modo fantasioso dal ventre del deserto dell’Arizona”) e dinnanzi a poderose architetture, interpretano le opere d’arte di una civiltà antichissima e discendono nel baratro, disposti a tutto pur di penetrare orrori e misteri che lì si celano.
Così s’imbattono nelle tracce di antenati alieni, incontrano creature mostruose e lambiscono una verità che ha come contraltare la follia (“La scoperta dello stigio mare senza sole che si nasconde nelle viscere della Terra”).
Il romanzo è una pietra miliare della cosmogonia lovecraftiana, è un saggio della maestria descrittiva del solitario di Providence (“Un cielo ornato di vapori spiraleggianti e illuminato dal basso sole polare”), è un concentrato confuso e sconvolgente di intuizioni cosmiche che si alimentano nell’orrore.
Lo stile è martellante, oppressivo, affascinante.
Giudizio finale: escatologico, ridondante, vaneggiante.
Bruno Elpis
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L’orrore cosmico
“L’emozione più vecchia e più forte del genere umano è la paura, e la paura più vecchia e più forte è la paura dell’ignoto.”
In questa frase del tutto emblematica, che Lovecraft ebbe a scrivere in un suo saggio sull’orrore nella letteratura, si riassume quello che è il filo comune, la base logica di questo romanzo breve che a farlo rientrare nell’ambito del fantastico sarebbe troppo semplicistico e finirebbe con lo svilirne il contenuto, non esattamente classificabile in un genere, ma di più ampia, concreta e profonda portata.
Potrei dire che in Lovecraft la paura non è il fine, ma il mezzo, il modo con cui parlare dell’uomo e della componente più atavica del suo inconscio, l’uomo che brama di conoscere sempre di più, ma attratto e al tempo stesso atterrito dall’ignoto. Il viaggio avventuroso nell’Antartide finisce così con il diventare un percorso dentro il proprio “io”, alla scoperta di verità non tutte positive, scoperchiando quella patina di essere integro, tutto portato alla conoscenza, ma in realtà completamente fragile, eppure eternamente combattuto fra il desiderio e l’angoscia di sapere.
Le montagne della follia è scritto in prima persona, quasi che l’autore volesse esporre a sé e agli altri il frutto della sua autoanalisi, a tratti esaltante, altri e più spesso impietosa, in un tripudio di fantasia in cui le lontane terre del Polo Sud custodiscono un segreto terribile, tale da mettere sull’avviso qualsiasi spedizione voglia là avventurarsi, soprattutto nel caso decida di esplorare questa immane catena montuosa, dalle altezze stratosferiche, a cui il protagonista ha dato un nome, che nella sua apparente semplicità, ricorda allucinazioni, angosce, terrori.
Là si troveranno i resti, giganteschi, di una civiltà aliena, di altri esseri che raggiunsero la terra milioni di anni fa e che poi, come sempre accade nell’evolversi del tempo, finirono con lo scomparire, forse per le glaciazioni, o forse anche e soprattutto per il sopravvento di altre entità spaventose e orrende, un autentico pericolo per l’attuale umanità.
La descrizione di questi resti, dei reperti archeologici, è estremamente minuziosa, come se l’autore li avesse effettivamente davanti agli occhi, ma se questo è un espediente di sicuro effetto sfocia però in una caratteristica non certo positiva di Lovecraft, e cioè la leziosità, una mancanza di senso del limite, che rende sovente greve la lettura, rischiando anche di far scemare la notevole e palpabile tensione creata con particolare e indubbia capacità.
L’opera, inoltre, è un continuo omaggio a Edgard Allan Poe e in particolare a Storia di Arthur Gordon Pym, dichiarata fonte di ispirazione, con frequenti richiami come nel caso dell’incomprensibile verso Tekeli-li! Tekeli-li!, una sorta di messaggio non di amicizia, ma di pericolo certo e devastante.
Le scoperte che verranno fatte nel corso di questa avventura, l’inimmaginabile e sconvolgente orrore finale che si insinua nel lettore come un ago che penetra nel cervello attraverso il cranio, l’atmosfera gelida e irreale della terra antartica sono il meglio di questo romanzo e fanno dimenticare la grevità di certe descrizioni, di cui prima ho accennato.
Ma al di là dell’aspetto fantastico dell’opera rimane la convinzione che con l’approfondimento della conoscenza scientifica l’umanità non potrà che pervenire all’autentico dramma riveniente da un universo freddo, impietoso, del tutto impersonale e caotico, cioè finirà per approdare all’orrore cosmico. E questo è un messaggio su cui si può dissentire, come si può anche essere d’accordo, ma sul fatto che questo rischio potenziale possa essere poi sopportato da questo essere fragile che è l’uomo non dovrebbero esserci dubbi, perché sarebbe la fine di una specie, quale la nostra, sconvolta da quella follia propria delle montagne del titolo.
Da leggere, anche e soprattutto alla luce di questo lacerante monito.