Le acque torbide di Javel
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Il mio nome è Burma, Nestor Burma
Piacevole scoperta questo noir dell’autore francese Léo Malet, creatore di romanzi seriali con protagonista il detective privato Nestor Burma, personaggio gradevole anche se caratterizzato con i tratti spesso un po’ troppo abusati nel cinema e nella letteratura “di genere”: aria da (finto) duro, solitario, non insensibile al fascino femminile, ma allo stesso tempo abile investigatore. Burma in questo breve romanzo che si svolge ovviamente a Parigi, in gran parte attorno al XV arrondissement nella zona conosciuta come “Javel”, attraversata dalla Senna, deve risolvere il mistero di Demessy, un uomo che conosce da lungo tempo improvvisamente scomparso senza lasciare traccia, abbandonando (per codardia ?, per trarsi d’impiccio?) la sua attuale compagna rimasta incinta di diversi mesi e che si rivolge proprio all’investigatore privato per chiedere il suo aiuto a ritrovarlo. Gli elementi a disposizione di Burma sono scarsi per cui la sua indagine appare nebulosa e comincia necessariamente rivolgendosi a quelle poche persone che risultano avere avuto contatti con lo scomparso Demessy, vale a dire una sedicente veggente alla quale si era rivolto su indicazione dello stesso Burma, ex colleghi di lavoro ed una misteriosa ed affascinante ragazza che risiede nel medesimo condominio dell’uomo. Man mano che l’indagine prosegue il detective metterà a rischio la propria vita, facendo emergere loschi traffici che vedono coinvolti alcuni arabi e scoprendo altresì che la soluzione dell’enigma deve essere cercata nel passato di Demessy.
Per certi versi quest’opera di Malét ricorda Simenon -di cui è contemporaneo tra l’altro- e le indagini del Commissario Maigret, a partire dall’ambientazione che è piuttosto simile: Parigi, sullo sfondo la Senna che scorre attraversata da barche e chiatte, alcuni luoghi di periferia lontani dai fasti del centro storico e l’ambiguità di certi personaggi di contorno. Malét tuttavia non è Simenon e rispetto all’autore belga non approfondisce la dimensione psicologica dei personaggi, non si pone l’obiettivo di scandagliarne l’anima come fa Maigret attraverso le sue silenziose riflessioni e lo sguardo attento, il giallo non è un pretesto per parlare d’altro. Malét è molto più pragmatico: vuole scrivere un noir, concentrarsi esclusivamente sull’indagine e per fare questo ricorre spesso al discorso diretto tra personaggi, elimina qualsiasi fronzolo, non eccede nelle descrizioni ma si focalizza sullo svolgersi degli eventi nudi e crudi. Chi narra la vicenda è il suo protagonista, in prima persona, che pare quasi confessarsi, a posteriori, al lettore. Le acque torbide di Javel è pertanto un soddisfacente noir, sebbene alcune scelte dell’autore in cui il detective Burma conduce in porto l’indagine (e salva la propria pelle!) affidandosi alla fortuna e ad un intervento provvidenziale giunto dall'esterno al momento giusto, potrebbero non piacere a tutti. Ha inoltre l’indubbio pregio di presentare una Parigi degli anni cinquanta che, allo stesso tempo, sembra così attuale e simile a quella che conosciamo, in cui il tema della presenza straniera, ed in particolare islamica, araba, è assolutamente vivo, tanto da mettere in bocca al suo ispettore alcune riflessioni che paiono trarre spunto dalla cronaca quotidiana: “Da qualche tempo a questa parte, in effetti, siamo tutti inclini a riversare sui nordafricani un mucchio di colpe”.