La dea della vendetta
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Philo Vance e la Vendetta egizia
Le undici del mattino sono quasi l’alba per l’eccentrico investigatore per hobby Philo Vance, ma è proprio a quell’ora che Donald Scarlett, vecchio compagno di studi, si precipita a casa sua in stato di profonda agitazione. L’amico gli comunica di aver appena scoperto il cadavere del filantropo B. H. Kyle, la testa sfondata da una statuetta egizia, nel museo privato del suo datore di lavoro, l’egittologo Mindrum Bliss. Vance si premura di avvertire della cosa il procuratore distrettuale John Markham e, assieme a lui e al sergente Heath della polizia cittadina, si reca sul posto per investigare.
Gli indizi sembrano puntare tutti sul padrone di casa: vicino al cadavere è ritrovato un piccolo amuleto a forma di scarabeo, che Bliss usava come fermacravatte; nelle mani del morto c’è una relazione che l’egittologo aveva completato solo poche ore prima; la macchia di sangue del morto è sbavata da un’impronta di scarpe, guarda caso le stesse che usa Bliss normalmente; sulla statuetta che gli avrebbe sfondato il cranio, quella della dea Sakhmet (la dea della vendetta), sono rinvenute solo le impronte di Bliss, mentre nessun altro sembra essere entrato nel museo nella finestra temporale in cui Kyle è stato ucciso.
Agli occhi dell’investigatore, però, tutto è troppo congruente, troppo perfetto per essere credibile, soprattutto perché Bliss, all’arrivo di Vance, Markham e la polizia, era stato trovato apparentemente addormentato sulla scrivania dello studio privato comunicante con la sala del museo. Quale criminale, dopo aver commesso un delitto e aver lasciato tale messe di tracce a suo carico, si sarebbe comportato in un modo così sconsiderato?
Inizia così una complicata indagine che porterà Philo Vance e Markham a scoprire tutta una serie di imbarazzanti segreti che coinvolgono l’egittologo, la giovane, affascinante moglie e i suoi collaboratori e dipendenti: Silvester, il nipote di Kyle, Scarlett e Hani, egiziano copto, superstizioso e geloso delle tradizioni del suo Paese.
Solo le profonde conoscenze di Vance e il suo acuto intuito gli consentiranno di sbrogliare l’intricata matassa che, con l’andare delle ore, andrà a ulteriormente ingarbugliarsi.
La Dea della vendetta (il titolo originare era “Scarab Murder Case”) è il quinto romanzo che S.S. Van Dine, pseudonimo di Willard Huntington Wright, dedicò al frivolo investigatore che risolveva i più intricati enigmi polizieschi grazie alle sue indubbie doti, ma sempre con una punta di cinica ironia e snobismo.
Come negli altri libri della serie, viene offerto un vero e proprio rompicapo al lettore che può sbizzarrirsi a studiare i vari elementi via via illustrati, nella speranza di risolvere il mistero assieme o prima dei protagonisti. In questo caso la vicenda è volutamente intricata e gli indizi vengono forniti con il contagocce o, meglio, a ogni pochi capitoli, viene aggiunta una nuova conoscenza che sembra avere solo lo scopo di depistare le indagini. Lo schema del delitto, oltremodo arzigogolato, che pone eccessiva fiducia nel perfetto funzionamento di tutte le parti del meccanismo, sembra spogliare la vicenda di una reale credibilità, almeno sino alle rivelazioni finali. Tuttavia, visto che il nucleo delle storie di Philo Vance sta proprio nell’astruso marchingegno adottato dagli omicidi, anche in questo caso la trama va proprio vista come un gioco, un arguto congegno enigmistico offerto dall’A. ai suoi lettori; una specie di quiz letterario. Proprio per tal motivo la lettura resta gradevole per tutto il libro. Non posso dire che la soluzione dell’enigma giunga inaspettata, anzi, un lettore attento può, sin quasi dalle prime fasi dell’indagine, intuire dove si andrà a parare, e, in fondo, Van Dine non si smentisce nell’individuare il colpevole sempre nella persona meno da sospettare. Lo stile garbato ed elegante aiuta nella lettura che è scorrevole.
Come al solito sono arguti i dialoghi tra Vance e il procuratore Markham; divertenti le dotte citazioni, anche se, a distanza di poco meno di un secolo, non tutte le battute risultano comprensibili oggi; sin troppo sofisticati alcuni richiami a brani letterari o teatrali e gli intercalari in francese, tedesco e (questa volta) … arabo ed egizio, ma tutto sommato sono sopportabili. Purtroppo il carattere di Vance continua a perdere mordente e l’atteggiamento brusco e irridente dei primi libri si va ulteriormente levigando. Così si toglie parte di quel “pepe” che insaporiva le storie ed era fornito proprio dai caustici battibecchi e dalle frecciatine snob: in questo libro, a parte una stroncatura sullo stile di Arturo Toscanini, c’è veramente poco dell’acido dandy dei primi romanzi. Comunque si tratta di un buon romanzo, distensivo, da leggere per avere qualche ora di piacevole svago.