La cresta dell'onda
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La cresta dell'onda
Vengano, signore e signori, al nuovo parco a tema del signor Pynchon: come in quello della volta scorsa – ‘Vizio di forma’ - sempre della fine di un mondo si racconta (là l’utopia hippie, qui ‘il mondo come lo conoscevamo’ prima dell’undici settembre) e sempre lo si fa utilizzando una struttura semplificata. Rispetto al Pynchon dei corposi tomi, i capitoli sono brevi, la figura centrale della narrazione è una sola, mancano i racconti che si staccano per molte pagine avulsi dal filone principale: le attrazioni però sono sempre affascinanti e si rincorrono fra le pagine tenendo viva l’attenzione. Se da una parte si azzera quasi l’utilizzo delle droghe, con relativa carenza di spunti surreali, dall’altra l’universo dei computer e della realtà virtuale consente allo scrittore si sbrigliare la fantasia allontanandosi dal mondo concreto: l’informatica è, del resto, uno dei motori del volume perché qui si fa una fotografia alla New York tra la scoppio della bolla hi-tech e l’attacco alle torri gemelle, con tutto un mondo di smanettoni e fissati della tastiera che perdono definitivamente l’innocenza (se mai ne hanno avuto una) al cospetto del dio denaro. Insomma, la consueta visione assai pessimistica degli esseri umani e dei loro rapporti raccontata utilizzando una trama gialla – o, se vogliamo, noir - seppur sempre sui generis: l’investigatrice antifrode (senza licenza) Maxine Tarnow si trova a cercare il colpevole di uno strano omicidio che sembra legato a un flusso di denaro verso il Medio Oriente e, allo stesso tempo, deve far andare avanti la sua famiglia con due figli ancor piccoli, un marito separato ma in via di riavvicinamento e un parentado ebreo a volte parecchio soffocante (per non parlare del controverso rapporto con il truce Windust). Siccome il defunto e i soldi sono legati alla società informatica di un eccentrico e poco raccomandabile miliardario, l’indagine si svolge nell’ambiente anche perché il riccastro pare voler mettere le mani su di un programma, Deeparcher, sviluppato da alcuni conoscenti di Maxine: da qui in avanti, la storia diventa allegramente irraccontabile, ma l’interesse del lettore per lo sviluppo e la conclusione finisce ben presto per ridursi ai minimi termini. Perché? Perché questo è un libro di Pynchon e mica si leggono i libri dell’autore di Glen Cove per la storia: si leggono per le invenzioni verbali e non (impagabile la serie di film biografici amati da Horst), per l’ironia spesso acre che si sprigiona dalle numerose situazioni comiche, per la capacità di inventarsi e ammucchiare personaggi disparati – mafiosi italiani e russi, doppiogiochisti canadesi, contrabbandieri a bordo di barche d’epoca, una pasionaria ferma agli anni Sessanta, un annusatore professionista con la fissa di Hitler e anche un fissato del sesso podalico – che, stranamente, non vengono abbandonati a se stessi. Il tutto senza contare le citazioni a pioggia che non si capisce mai se siano inventate o no e le lunghe chiacchierate a far flanella in qualche ristorante o caffetteria (roba snob da niuiorchesi, infatti Horst, che viene dal Midwest, è guardato dall’alto in basso): insomma, il ben conosciuto volteggio sul filo alla cui riuscita contribuisce la bella traduzione di Massimo Bocchiola (mentre meno convincente è il titolo rispetto all’originale ‘Bleeding edge’) in un intreccio su cui gravano le consuete forze oscure, qui rappresentate dai servizi segreti di vari Paesi, contro le quali i comuni esseri umani lottano con poche speranze di riuscita nell’ennesima variazione sulla ben nota paranoia pynchoniana che si trova a suo agio con il periodo narrato. Quanto detto fino a ora, che è comunque una pallida immagine delle quasi seicento pagine del romanzo, terrebbe alla larga chiunque non apprezzasse lo scrittore, ma coloro ai quali Pynchon piace, incluso il sottoscritto, come si ritrovano una volta girata l’ultima pagina? Soddisfatti ma non esaltati, direi, come un fan dei Rolling Stones che ascoltasse un nuovo, buon disco di Richards e soci in cui ogni particolare fosse al suo posto, gli ingranaggi girassero oliati, ma fosse anche ineludibile l’impressione di come i tempi di ‘Satisfaction’ o ‘Brown sugar’ siano definitivamente passati. Allo stesso modo, lo scrittore sciorina il campionario senza risparmiarsi, ma al lettore, che pur apprezza assai, il risultato finisce per apparire un po’ inferiore alle (altissime) aspettative, forse anche per colpa di un personaggio principale che, pur sfaccettato, rimane poco empatico (magari perché compie azioni o prende decisioni inesplicabili pur non essendo perennemente strafatta come Doc Sportello).