La casa dei fiamminghi
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Non certo fra i migliori
Simenon ci abitua troppo bene, perché leggere i suoi romanzi costituisce sempre un’esperienza nuova e assai piacevole. Non è infrequente dire che si trova di fronte a degli autentici capolavori e quindi è evidente che quando ci si accinge alla lettura di un suo romanzo le aspettative sono molte. Capita, tuttavia, peraltro raramente, che queste aspettative vadano deluse e questo è accaduto con La casa dei fiamminghi, un poliziesco con protagonista l’inossidabile commissario Maigret, questa volta non in veste ufficiale, anzi addirittura chiamato come investigatore da una delle parti in causa. La vicenda di per sé è semplice e proprio per questo mi sarei aspettato che Simenon avesse lavorato maggiormente sui personaggi, che la sua analisi psicologica fosse più approfondita, e invece non è stato così tanto che gli attori di questa commedia della vita non riescono ad assumere un volto, restano sostanzialmente delle ombre, delle semplici comparse, quando invece dovrebbero essere dei protagonisti. E poi la conclusione, con Maigret che nulla mette in pratica per far arrestare il colpevole mi ha lasciato di stucco, perché non è che ci si trovi di fronte a una vittima che si ribella ad anni di angherie, ma a un personaggio che, con mente lucida, premedita un feroce omicidio. Insomma, se non fosse per la bellissima descrizione del fiume Mosa in piena, questo romanzo non sarebbe diverso da tanti insignificanti gialli di anonimi autori.
E sì, da Simenon ci si attende senz’altro di più.
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Nella media
Certo che, per essere un commissario parigino, Maigret se ne va parecchio in giro: come nel precedente ‘Il caso Saint-Fiacre’, eccolo in trasferta (convocato là da una lettera anonima, qui direttamente da un’appartenente alla cerchia dei sospettati) a seguire nel tempo libero una non-indagine nella quale, almeno all’inizio, manca persino una vittima accertata. In un paesino sulla Mosa vicino al confine franco-belga – un posto umido e piovosissimo, va da sé – una giovane donna del popolo è svanita nel nulla dopo aver dato alla luce un figlio il cui genitore è il rampollo dell’unica famiglia fiamminga del paese, assurta allo status piccolo-borghese perché i barcaioli loro compatrioti si rivolgono solo al modesto emporio che gestiscono in una zona periferica: i rimanenti abitanti sono convinti che proprio in quella casa sia da ricercare il motivo della scomparsa. Affiancato da un poliziotto locale meno stupido di quanto sembrerebbe, Maigret si dedica all’analisi delle circostanze e, soprattutto, degli accusati che vivono nel loro mondo chiuso: un padre instupidito dalla vecchiaia, una madre che tutto regola, due figlie di cui una prende ogni iniziativa e l’altra che non si vede mai, più il suddetto fratello portato in palmo di mano da chiunque e adorato dalla scialba fidanzata. Ennesima riproposizione del classico microcosmo autoreferenziale di Simenon, tanto a modino fuori, quanto minato da grosse magagne all’interno con l’aggravante della rigidità data dal perbenismo luterano come già in ‘Un delitto in Olanda”: il commissario dà l’impressione di divertirsi nella sua caccia al sepolcro imbiancato, facendosi al contempo rimpinzare nella dimora dei fiamminghi e tenendo d’occhio la povera abitazione della ragazza, il di lei fratello sbruffone (peraltro l’unica figura poco riuscita al punto da dar l’impressione del riempitivo) oltre a un marinaio ubriacone che pare sapere troppe cose. Una volta di più la soluzione, più che venir scoperta, finisce per venire a galla da sé senza però regalare soddisfazione a chicchessia, tanto meno al Maigret che percorre immusonito l’acido capitolo conclusivo. Il risultato è un romanzo diseguale e non annoverabile tra i migliori della serie, ma comunque capace di coinvolgere nella sua atmosfera fondamentalmente malsana.