Il gatto
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Il gioco dell'odio
Al calar della sera, nel vicolo Sébastien-Doise, tutto è ovattato, dolciastro, attutito. Il ticchettio della pioggia, il flebile zampillare della fontana, famiglie a tavola scorte attraverso la calda luce delle finestre. Ma c’è una casa, alla fine della strada, dove l’aria è tesa, gelida e irrespirabile. Perché quella che inscenano ogni giorno Marguerite ed Emile è una ferocissima guerra. Una guerra senza liti o urla, fatta di dialoghi muti, di impercettibili lampi nelle pupille, di epigrafici bigliettini lasciati sul pianoforte, di fremiti spiati di sottecchi. È il gioco dell’odio.
Marguerite ed Emile sono due settantenni, vedovi vicini di casa che hanno deciso qualche anno prima di sposarsi. Un matrimonio di convenienza, figlio della paura della solitudine, che fin dall’inizio ha mostrato incomunicabilità e inconciliabilità. Lui, uomo rozzo e volgare, con i suoi passi pesanti e i suoi sigari puzzolenti. Lei, donna fredda e superba, ancorata alle apparenze e agli antichi fasti della propria famiglia. Nessuno dei due ha fatto un passo verso l’altro, rendendo la loro vita insieme uno sterile allestimento, svuotato di parole, carezze, affetto.
Al calar della vita, i due anziani non possono far altro che tirare le somme, come tutti, e lasciarsi inconsapevolmente travolgere dai ricordi, dai rimpianti, dalla tenerezza di un passato lontano. Cosa rimane allora a cui aggrapparsi, se accanto a sé non è rimasto nemmeno un brandello d’amore ma solo una figura estranea e indifferente? È qui che Simenon ci stupisce con la sua lucida spietatezza, rovesciando schemi e aspettative: c’è ancora l’odio. L’odio, unica fiammella di vitalità in un’esistenza ormai priva di scopo e passione. L’odio, unica ancora di salvezza per dimenticare l’incipiente arrivo della morte.
“Nessuno dei due poteva deporre le armi, era diventata la loro vita”.
La pillola della realtà, come al solito, ci viene servita senza edulcoranti morali o stilistici, travolgendoci con la sua fluidità narrativa e obbligandoci a guardare dentro un male domestico, borghese, normale e, paradossalmente, quasi salvifico. Mai come in questo romanzo, il sapore che rimane sulle labbra è puro fiele.
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De senectute
Il romanzo, datato 1966, appartiene alla tarda produzione di un autore tra i più prolifici del ‘900 che smise di scrivere agli inizi degli anni ’70, un decennio prima di morire (1989).
Si sa che lo consegnò alle stampe siglandolo come uno dei romanzi più feroci che avesse mai scritto e , incuriosita, trovo conferma da brevi indagini in rete che la genesi fu quella che accompagnava tutti i suoi scritti: un metodo infallibile che gli permetteva dalla prima intuizione di chiudere un’opera in brevissimo tempo, circa una settimana più una manciata di altri giorni per la revisione. Trovo conferma inoltre della componente autobiografica presente in questo scritto: l’età anagrafica dell’autore coincide con l’inizio della vecchiaia, età vissuta e percepita con amarezza per il bagaglio di vissuti che trascina, carico forse eccessivamente della percezione dei propri fallimenti. I protagonisti del romanzo vivono il loro avvicinamento alla morte pateticamente investendo in nuove relazioni umane, salvo capire che per loro un nuovo incontro, una nuova unione sminuiscono il vissuto precedente falsandone l’origine, il ricordo, l’identità. Lo stesso Simenon, seppur molto attivo sessantenne, dovette ritrovarsi a fare un bilancio del proprio vissuto e delle relazioni che lo avevano caratterizzato a partire dall’infanzia: la coppia genitoriale, i suoi due matrimoni, la nuova relazione...
E così giunge l’intuizione di base, il pretesto per parlare delle unioni coniugali, della loro finitezza, della labilità delle relazioni uomo- donna, della vita e della morte ma soprattutto dell’ultimo segmento della vita e dell’essere anziani. Ne vien fuori uno sguardo impietoso e a, mio avviso, sottilmente misogino.
Due vedovi, ormai anziani, si conoscono e si sposano. La loro unione non si realizza mai: non consumano il loro matrimonio, non condividono il passato, il ricordo, l’appartenenza a mondi differenti e peggio che mai il presente. Una momentaneo malanno di Emile coincide con la sparizione del suo adorato gatto, unico retaggio del suo passato e della sua identità:viene ritrovato morto avvelenato, in cantina. Mai si avrà la certezza che la morte sia dovuta alla malvagità della moglie Marguerite come ritiene Emile, mentre inconfutabile sarà la sua colpevolezza rispetto alla morte del pappagallo di Marguerite. Lo vediamo Emile in azione spennarlo sadicamente, salvo pentirsi delle estreme conseguenze del suo gesto.
Il lettore viene posto fin da subito in situazione neutrale dal volere narrativo: Simenon lo fa accomodare per farlo assistere ad una guerra vera e propria. A tratti si ha l’impressione di subire le bassezze e le cattiverie dell’uno piuttosto che dell’altro, ma un semplice cambio di punto di vista fa abilmente ribaltare la situazione costringendo il lettore ad un ‘impossibilità di immedesimazione. Se si aggiunge a questa fumosità l’aggravante di appartenere al sesso femminile o maschile, di essere più o meno felicemente coniugati, di non esserlo affatto, di averci provato, di aver sperimentato talvolta qualche meschino atteggiamento rappresentato e non contemplato da alcun trattato sull’amore , beh allora la spirale vorticosamente attanaglia il lettore. Più volte il quadretto familiare psicopatologico rappresentato è stato così respingente da indurmi a non terminare la lettura. L’assenza di qualsiasi abbellimento stilistico, l’asciuttezza della prosa, la crudezza del quadro rappresentato mi hanno invece tenuta ancorata ad essa.
Sebbene entrambi i coniugi vengano rappresentati nella loro accezione più negativa, a parer mio, prevale una vena sottilmente misogina per cui la mela marcia in ogni coppia è comunque la donna mentre l’uomo è succube del potere femminino in attesa del momento opportuno per poter godere della propria libertà, così abilmente immolata, e per poter gioire infine dell’unica sua vera vittoria, salvo poi scoprire che ci si è ridotti ormai al niente .
Opera sicuramente da leggere.
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Piacevolissima sorpresa!
"Il gatto" è il primo (e finora unico) romanzo di Simenon che ho letto. Non avevo grandi aspettative nei confronti di questo libriccino, che ho comprato perché incuriosita dalla trama. E invece l'ho letto tutto d'un fiato, non solo perché il romanzo di per sé è abbastanza breve, ma perché lo stile della narrazione induce a continuare a leggere e a non fermarsi più.
La storia, apparentemente, è molto semplice. Due anziani coniugi entrambi in seconde nozze, Emile e Marguerite, non si parlano più e comunicano scrivendosi dei biglietti. La svolta arriva nel momento in cui Emile, di cui i lettori conoscono il punto di vista, sospetta della moglie che avrebbe ucciso il suo amatissimo gatto.
Simenon ci fa vedere in modo magistrale come due persone che fino a pochi anni prima si erano amate e avevano condiviso appieno la loro vita si ritrovano a covare rancori, a escogitare vendette, a compiere gesti moralmente condannabili.
La narrazione procede spedita, con uno stile sobrio, a tratti inquietante, a tratti ironico. Nel corso del romanzo il lettore si ritrova ad affrontare tutte le sfaccettature della mente umana quando questa non risponde più alle convenzioni sociali e alla quotidianità.
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Gelo tra le mura di casa
Il gatto è un romanzo che appartiene alla produzione cosiddetta “non Maigret”.
Simenon è stupefacente nella sua capacità di mettere in scena il dramma esistenziale che va a minare la vita di coppia di due attempati coniugi: lui, lei, un gatto e un pappagallo.
Questi sono gli ingredienti per sfornare un lavoro per palati fini.
Una vecchia coppia unita da un odio e da un rancore soffocante divide un appartamento solamente per convenienza e per salvare le apparenze; tra queste mura grigie e tetre, come a rispecchiare l'anima dei due, si combatte una guerra giornaliera.
Possono due esseri umani che in passato si sono scelti, raggiungere un livello di astiosità e disprezzo tale da meditare le peggiori nefandezze nei confronti del compagno?
Può l'animo umano abbassarsi a tal grado di bruttezza e bassezza morale, se esasperato o pentito delle proprie scelte?
Simenon fornisce la risposta con questo racconto a tratti triste a tratti quasi esilarante, capace di calare il lettore nel clima greve e irrespirabile di quella casa.
Claustrofobia, indignazione, sconcerto sono le sensazioni che emotivamente ti accompagnano lungo il percorso, obbligandoti a riflettere sull'uomo e sulla donna in questione; se al principio senti la necessità di analizzare le ragioni dell'uno o dell'altra, alla fine comprendi che lo scopo dell'autore è altro.
Per comprendere appieno il messaggio di Simenon, bisogna avere la forza di astrarre da queste immagini e seguirlo nella sua opera di “svestizione” dell'uomo; egli ci insegna a guardare dentro le persone per trovare istinti e sensazioni che esistono in ciascuno, pronti ad emergere all'occorrenza in base agli accadimenti della vita.
Quello rappresentato è il mondo degli istinti naturali e primari dell'uomo che emerge quando la maschera cade; è un'esplosione da cui scaturiscono le verità più crude e dolorose, insieme ad un estremo bisogno di libertà e di poter ritrovare se stessi.
Una girandola di odio, insoddisfazione, cattiveria, vendetta ma anche passione, perdono, solitudine.
Le pagine di Simenon si bevono come un bicchier d'acqua, grazie ad uno stile nitido e fluido come pochi, tuttavia riescono a lasciare un sapore amaro e graffiante all'ennesima potenza.
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Il gatto
Non c'è solo l'amore capace di legare due persone per sempre, indissolubilmente. Anche l'odio può arrivare a tanto. Può essere così forte da rimanere l'unica fonte di sostentamento, così familiare da averne bisogno per autoalimentarlo, così opprimente da riempire subito e chiudere i varchi lasciati dai quali potrebbe altrimenti uscire un barlume di pietà, di tenerezza, di pace. Ci vuole energia per odiare. L'odio prosciuga, invecchia e quando ti rendi conto che la vita sta passando, trascorrendo nell'odio, ti ci aggrappi di più perché è l'unica cosa che ti rimane. Georges Simenon, gran romanziere, rende tutto questo molto chiaro e lampante in un romanzo sicuramente da leggere, breve ma profondo, psicologico, che cattura, di una quiete irreale carica di tensioni.
Emile e Marguerite, entrambi vedovi, sposati in seconde nozze, non giovani, fanno un salto di qualità passando da una vita coniugale fatta di rispetto, ma di indifferenza, di profonde differenze caratteriali e sociali all'odio. Odio reciproco scatenato dalla morte per avvelenamento del gatto di lui, sempre malvisto da Marguerite, unica sospettata e dalla vendetta di Emile; l'uccisione del pappagallo di lei. Da quel giorno, i due non si sono più parlati, comunicano con bigliettini, mangiano, dormono, e fanno vita da soli pur essendo entrambi sotto lo stesso tetto.
Simenon ci propone il punto di vista di Emile e ci offre tutte le sfumature che attraversa la sua anima dall'uccisione del suo amato gatto, dallo choc alla rabbia, dalla determinazione alla vendetta al pentimento, dalla pietà al perdono, tutte però all'interno della passione più grande, quella che le racchiude tutte e le tiene sotto controllo; l'odio, che periodicamente fa sfornare un bigliettino rivolto a Marguerite a ricordarle il suo crimine con due sole semplici parole: “IL GATTO”.