Cujo
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Beethoven Gone Wrong
Ultimamente mi sono imbattuta in una serie di letture mediocri e non all'altezza delle aspettative che le sinossi stesse creavano. Per ritrovare un po' di piacere nella lettura, ho ripiegato quindi su uno dei miei autori preferiti, andando a pescare tra i suoi primi lavori "Cujo", un titolo che mi sembra rientri tra i più apprezzati dai fan del caro Stephen. E oltre a potermi felicemente accodare alla fila dei suoi estimatori, sono anche contenta sia riuscito a tenermi compagnia in un periodo parecchio impegnativo e stressante.
Il romanzo ci riporta a Castle Rock, località kinghiana già al centro di una delle sottotrame de "La zona morta" (il cui epilogo qui viene spoilerato, tra l'altro), nell'estate del 1980; il Cujo del titolo è il mastodontico San Bernardo del giovane Brett Camber, il figlio del meccanico locale. Mentre insegue un coniglio selvatico, il cane viene morso da un pipistrello e contrae una forma particolarmente violenta di rabbia, che lo trasformerà in una sorta di mostro idrofobo pronto ad attaccare chiunque abbia la sventura di trovarsi sul suo cammino. Questo evento unisce le vicende della famiglia Camber con quelle dei Trenton, da pochi anni trasferitisi nell'immaginaria cittadina del Maine.
Questo spunto di trama temo non renda al meglio il contenuto del romanzo, anche perché la vicenda al cuore della narrazione impiega parecchie pagine prima di acquisire concretezza: il primo terzo del volume risulta così un po' lento e macchinoso. Si tratta di un difetto sul quale però soprassiedo tranquillamente; per contro mi ha un po' infastidito non fosse presente una divisione in capitoli, ma questo è dato dal mio essere una pedante completista.
L'unico altro (serio!) punto debole del romanzo penso sia nella sottotrama legata alla Adworx -la società pubblicitaria avviata da Victor "Vic" Trenton con il suo amico Roger-, perché per quanto utile a dare il via alla trama, da un certo punto in poi perde gran parte della sua rilevanza e risulta perfino una fastidiosa aggiunta in alcuni momenti nei quali la tensione è al massimo.
Passando invece ai punti di forza, posso includere proprio la tensione che il caro Stephen riesce a creare, in particolare nel crescendo finale che porta il lettore a correre quasi da una pagina all'altra, in angoscia per la sorte dei personaggi. Ho trovato molto ben gestito anche l'elemento horror: dosato con giudizio e decisamente inquietante, con qualche accenno anche alla possibilità che ci sia di mezzo qualcosa di sovrannaturale nella furia del gigantesco San Bernardo.
Sul piano della prosa, ho apprezzato molto come siano stati descritti i pensieri di Cujo, mantenendoli abbastanza semplici da essere verosimili ma per nulla scontati o banali; li ho trovati particolarmente toccanti nella scena in cui vede Brett prima della sua partenza. Altro aspetto interessante è la sensazione di storie diverse che confluiscono in una narrazione più complessa: anche se in un primo momento potrebbe risultare poco chiaro leggere di tanti personaggi senza legami netti tra loro, pian piano ogni evento prende il suo posto nel disegno tragico e grottesco di King.
Ciò che ho personalmente apprezzato di più è però la buona rappresentazione fatta di problematiche ancora attualissime, come la violenza domestica e il revenge porn. Mi ha colpito scoprire come Cujo stesso diventi nel corso della storia l'allegoria di un uomo all'apparenza innocuo e amichevole che, posto in una condizione di difficoltà come l'umiliazione, reagisce con modo crudele nei confronti di una donna cercando di limitare la sua libertà e facendo leva sull'affetto che prova per i figli, con la conseguenza di innescare una catena di reazioni altrettanto brutali.
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i morsi della paura
Siamo nel Maine di King, in quella Castle Rock dove tutto può succedere. Fine degli anni '70, quando è stato scritto questo volume. Una famiglia di giovani rampanti, marito pubblicitario, moglie casalinga e figlio di quattro anni si sono trasferiti in campagna da New York. Come da copione la moglie annoiata si trova un amante, il marito è distratto dalla nuova attività ed il figlo piccolo ha paura del babau. Attorno a loro gravita una discreta rappresentanza di varia umanità. Tutti con le loro particolarità e con i loro difetti, che ci vengono descritti con la maestria di King. Una serie di circostanze sfavorevoli portano mamma e figlioletto ad essere ostaggi di un enorme San Bernardo affetto da rabbia. Il buon Cujo, che altro non desiderava che accondiscendere ai desideri del suo bambino diventa uno spietato assassino, ma almeno io, fino alla fine ne ho avuto compassione.
Bel libro. del King degli inizi, quando non si era ancora addentrato nel fantasy ed era capace con poco di creare una storia appassionante, commovente, paurosa. Quelle storie ce ti fanno distogliere gli occhi perchè non vuoi sapere, ma che subito te li attirano con forza sulla pagina perchè invece sì che ti vuoi spaventare. quelle storie che finiscono troppo presto, nonostante lo spessore dl volume.
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Il cane di famiglia
Sorprende solo chi non lo conosce sapere che Stephen King, superficialmente etichettato da molti tra lettori e critica come il “re dell’horror”, annoveri tra la sua primissima produzione romanzi in cui l’horror “sensu strictu”, inteso come presenza e protagonismo di mostri, streghe, zombi, vampiri, sia completamente assente: è il caso di “Carrie”, di “La zona morta”, di “Stagioni diverse”, giusto per fare qualche titolo, e appunto di “Cujo”.
In realtà King non è uno scrittore “dell’horror”.
Innanzi tutto egli “è” uno scrittore, con tutti i crismi dell’ufficialità, avendo le basi, la sapienza e la maestria per fregiarsi a buon merito di tale titolo.
Non gli occorre alcun’altra etichetta, in qualche modo riduttiva e, in certi casi, con chiari intenti dispregiativi, derivanti indubbiamente dal fatto che, oltre a saper scrivere, e inventare buone storie, a saperle confezionare ed esternare, doti che, sembra strano, non tutti gli scrittori hanno, King sa anche venderle a un numero sempre crescente d’appassionati: lo stesso King ammette di avere, per sua fortuna, una “ossessione” di scrivere che, in più, si vende bene.
Pertanto King può dirsi, al più, uno scrittore “con l’horror”, in altre parole che utilizza, quando è presente, l’horror classico, e quindi mostri, fantasmi, vampiri, ecc., come uno strumento, un mezzo, per enfatizzare gli orrori reali, questo sì, che non sfuggono al suo acuto spirito d’osservazione.
Perché questo è Stephen King: un acuto osservatore di una realtà che, per vissuto ed esperienza, egli conosce bene. Questa realtà è la piccola provincia americana; costituisce il tessuto e il nerbo di tutta la società americana, un microcosmo nel quale si rispecchiano e risplendono vizi e virtù dell’americano medio, di quel “borghese piccolo piccolo” che può facilmente, nel mito tutto americano, e spesso fasullo del self made man, assurgere all’olimpo degli eroi. Questo perché il microcosmo provinciale agisce come un’enorme cassa di risonanza, e perciò quando s’incappa nella normale malvagità dell’animo umano, questa si trasforma in un vero e proprio mostro.
La maestria di King è tutta qui, nel trasportare l’horror nella quotidianità del vivere, e i suoi autentici mostri si chiamano indifferenza, ipocrisia, cattiveria gratuita, egoismo, e i mostri classici, volutamente confrontati con quelli reali, ne escono sminuiti, quasi assurdamente redenti, purificati.
In estrema sintesi, per Stephen King è più terrificante un pedofilo, che non un licantropo, questo al confronto con il primo appare al più come un lupacchiotto un po’ nervoso.
Gli autentici protagonisti dei romanzi di King sono gli innocenti, quelli ancora non contaminati dai guasti della maturità, i puri di cuore, i bambini o meglio ancora i primissimi pre-adolescenti.
Per una serie di ragioni, non ultima per una malinconica nostalgia che King prova, ricordando i tempi in cui egli stesso era un bambino, viveva in una cittadina di provincia, leggeva libri di Poe e andava al cinema a vedere B-movie come “Il mostro della laguna nera”.
Questi film e queste letture gli forniranno, in età adulta, il mezzo con il quale egli si esprimerà: ma il mezzo, non il contenuto.
Perché il contenuto sarà ciò che egli conosce, la provincia e la media borghesia, e la maestria invece gliela forniranno la poesia e la magia del suo sapersi ancora conservare bambino.
Sotto quest’ottica consideriamo “Cujo”, la storia un po’ banale di una famiglia che sta sfaldandosi, priva di valori morali o in ogni caso d’idee, pensieri, emozioni di pura umanità per cui valga davvero la pena vivere.
Il padre Vic completamente preso dal lavoro di pubblicitario che sta andando a rotoli e dai suoi nevrotici problemi di carriera; la madre Donna, frustata e inconcludente, che non trova di meglio che finire a letto con il rubacuori del paese, e il piccolo Tadder, spaventato dai mostri della solitudine, dell’indifferenza, della sordità alle sue richieste di conforto e attenzioni, autentici mostri questi, assai più reali e dolorosi di quelli ipotetici che si nascondono furtivamente nel ripostiglio delle coperte...
E altri personaggi, e altri mostri, popolano la cittadina, sotto una patina d’apparente rispettabilità borghese: il cattivo e alcolizzato Jo Chambers, sua moglie che trova in una piccola vincita alla lotteria, il coraggio di allontanare il figlio dalla nefasta influenza paterna…Che cosa manca ancora in questo scenario? C’è il paese, il mitico Castle Rock, il bar ritrovo dei pettegoli e perdigiorno, il Mellow Tiger, c’è Evvie, la vecchia del paese, c’è la famiglia con il padre, la madre, il bambino…
Manca qualcuno? Ma il cane, naturalmente!
Il buon vecchio cane di famiglia!
Quel tenero amico di bambini: e non può essere un Lassie o un Rintintin, troppo aggraziati, deve avere un che di contadino, o provinciale, deve all’occorrenza trasformarsi in un mostro, per nascondere ben altre mostruosità.
Ecco Cujo, un S. Bernardo di oltre cento chili, che contrae la rabbia per il morso di un pipistrello.
Cujo rappresenta il pretesto con il quale possiamo ammirare tutta la maestria di King: innanzi tutto nella descrizione precisa e particolareggiata della patologia e dell’incalzare della sintomatologia con l’aggravarsi dell’infezione.
Una competenza medica che, poiché King medico non è, rappresenta il risultato di un certosino e laborioso e scrupoloso lavoro d’accurata ricerca che ci prova, semmai ne avevamo bisogno, come King prenda maledettamente sul serio il suo lavoro, prendendosi la briga di informarsi particolareggiatamente come dovrebbe fare ogni scrittore degno di questo nome.
La scrittura non è solo piacere, è anche fatica, e King non si tira indietro, non bara, non si concede ”licenze poetiche”, egli scrive solo di ciò che sa, e se non lo sa si informa.
Ciò che suscita sentimenti d’autentica ammirazione, ciò che lascia stupefatti per tanta abilità, è l’immedesimarsi nel personaggio, quell’essere tutt’uno con la propria creatura, quel parlare e pensare ed essere effettivamente come lui.
King letteralmente si “trasforma” in Cujo, avvalendosi dell’artifizio di scrivere in maiuscolo i pensieri del cane, pensa come il cane, ci fa vedere letteralmente i pensieri e la logica di Cujo come se fossimo dentro il cervello dell’animale e ne vedessimo scorrere i ragionamenti, le idee, la sofferenza, come su uno schermo luminoso.
Questa particolare abilità di King, questo suo riuscire a “sentire oltre” i suoi personaggi, lo ritroveremo tante altre volte: il suo “essere” perfettamente il personaggio è uno dei motivi che ne fa uno scrittore, un grande scrittore.
Cujo non è un mostro, l’assenza di sentimenti, il vuoto di valori, questi sono i veri mostri, e faranno la loro vittima. E questa è il piccolo Tadder, naturalmente, che finisce vittima non della rabbia di Cujo, ma muore tragicamente “asciugato”, disidratato dall’assenza di sentimento.
La morte del bambino non è un caso, non è mai una banale coincidenza, la morte di nessun bambino: e su questa morte Vic e Donna potrebbero trovare la forza per rimettere insieme i cocci della loro vita; ma ciò non ha alcuna importanza ormai per Tadder, che galoppa nei cieli mitici dell’infanzia a cavallo di…lasciatemi vedere bene…sì, di Cujo.
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Ancora una volta, deluso
Purtroppo, nonostante io sia un grande fan del Re, in questo periodo di lettura e recupero delle sue opere "marginali" sto sperimentando una profonda delusione e devo dar ragione a chi dice che King non sia in grado di scrivere opere di qualità media, ma soltanto eccellenti capolavori (IT, Il Miglio Verde, Misery, Shining e un'altra lunga lista dove il suo impegno è palese) o mediocri operette (la serie della Torre Nera, Pet Sematary, Cujo ecc.).
Partiamo subito col dire che Cujo e Pet Sematary, nonostante la distanza temporale, sono un plagio palese e noioso: in entrambi c'è l'animale malato/maledetto, entrambi hanno la famiglia nevrotica trasferitasi per lavoro al centro delle vicende, in entrambi c'è il bambino/bambina piccola che causerà il trauma, in entrambi c'è bisogno di lunghi viaggi di lavoro guarda caso nel momento del bisogno, in entrambi c'è la figura del vecchio/a saggio/a che conosce tutte le storie della citta, in entrambi c'è l'aggiustatutto inevitabilmente coinvolto e così via. Come potrete capire da queste parole, leggere entrambi i romanzi è a dir poco allucinante.
Per il resto lo stile di King è il solito, poco astruso e completamente confidenziale. Quel che gli imputo, però, è la lentezza esasperante del romanzo: non si parla di quotidianeità MISTA al fattore thriller/horror/mistico, ma praticamente di un enciclopedia della cittadina che deviano completamente dalla trama principale. A volte, devo ammetterlo, ho dimenticato perfino del cane e dell'intreccio fondamentale, ritrovandomi a pensare "ah è vero, sto leggendo Cujo". CAPITOLI INTERI dove avrete l'elenco preciso delle pubblicità viste dal protagonista, con tanto di nomi, descrizioni e date...storie di decine di pagine per descrivere elementi completamente inutili della serie "perchè quel bimbo si è iscritto a scuola" o "perchè ho comprato questo pupazzo", ed elenchi pedissequi di oggetti e situazioni che non avranno neanche uno scopo emotivo lontanamente confacente alle vicende degli autori.
L'unica cosa divertente è la descrizione di alcuni passaggi dal punto di vista del cane stesso, che si perdono però in un finale che dire "scontato" è un complimento.
Ancora una volta, aihmé, devo ripetere questa frase: "è uno di quei libri di King che avrebbe potuto scrivere un bambino con un pò di fantasia".
E la differenza con Pet Sematary o altre "operette" simili, è che qui di morale, significato o elementi intrinsechi, non ce ne sono neanche per sbaglio. L'intera opera, a mio dire, non ha un significato di fondo ! E' buttata là, come un racconto, nascondendo una quotidianeità che smorza la lettura ad un livello che, passatemi il termine, definirei "palloso".
Non parlo di dati astratti, ma di elementi concreti: 20 pagine consecutive descrivono il nome dei cereali e della ditta a cui il protagonista sta correndo dietro, per poi sfumare con un "Vic tornò alla realtà", e finire nel dimenticatoio, buttando via righe su righe di inadeguata inutilità in un romanzo che di per se sfiora le 300 pagine.
Forse King si perde troppo a "prepararsi il terreno" per la componente horror, o forse sfrutta semplicemente il suo nome a dovere per scrivere quello che gli passi per la testa: in Cujo come in Pet Sematary, se ci fosse stato un significato di fondo così forte da accantonare la componente suspance, non avrebbero messo in copertina gatti indemoniati e cani sbavanti.
Va a finire poi che quel lato "magico" e "mistico" nel romanzo è talmente marginale che sembra buttato lì, giusto per ricordarci "non è tutto normale", in un elenco insostenibile di situazioni inutili e vagiti infantili.
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Un bel romanzo horror
Ha proprio ragione Stephen King: il vero orrore è nel quotidiano, bisogna solo cercarlo bene.
In questo romanzo un avvenimento in apparenza banale (un cane che contrae la rabbia in un tranquillo paesino del Maine) scatena un terrore ben al di fuori dall'ordinario, rivelando la grande capacità di S.King di giocare con le nostre paure: del resto si sa che le persone sono più vulnerabili quando si sentono al sicuro, e chi si aspetterebbe che una bestia amabile e innocua diventi all'improvviso un'assassina?
Personaggi caratterizzati molto bene, stile impeccabile e una incredibile fantasia: tutti gli ingredienti per un ottimo romanzo.
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Can che abbaia... Uccide!
Forse tra i romanzi più "brevi" di Stephen King, "Cujo" è un ottimo horror narrato alla grande, come soltanto King sa fare. Perché è questo che sa fare King: prendere una normale giornata quotidiana, di una famiglia - o personaggio - qualunque e stravolgerlo con terrificanti avvenimenti, resi incredibilmente reali. È il caso di Cujo, un docile cane San Bernardo, che un giorno... Be', vedrete!
Romanzo assolutamente consigliato (vabbè, basti dire che è di Stephen King, perciò non può non essere consigliato), ne vale davvero la pena leggerlo.
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Una serie di strane coincidenze..
King riprende la tematica già affrontata ne "L'Ombra dello Scorpione" del male che trova sempre una via per sembra pilotare gli eventi, per creare coincidenze e far combaciare le circostanze per manifestarsi nei modi più svariati.
E' quello che avviene a Castle Rock, la famosa cittadina nata dalla mente dello scrittore americano, dove nella torrida estate del 1980, dopo i cruenti delitti dello psicopatico Frank Dodd assassino di donne e bambini, una serie di fatti fanno sì che avvenga una macabra strage, questa volta a causa di un San Bernardo affetto da rabbia.
La genialità dell'autore sta nel concatenare gli eventi in modo tale da rendere terrificanti situazioni ordinarie, di vita quotidiana, all'apparenza normali ed innocue: una giornata qualunque con niente può trasformarsi in un incubo.
La tensione è alta per tutta la durata del libro e lo stile con cui si snoda la trama ha un taglio assai cinematografico, con passaggi dall'uno all'altro personaggio e alle sue vicende ottimamente intrecciati e interrotti al punto giusto per creare la giusta suspance.
Il finale l'ho trovato struggente e inaspettato.
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Horror...all'ultimo morso!
La trama e la copertina del libro, promettono una grande storia che si cala nell'horro che non ti fa dormire la notte, ma gia dalle prime pagine il racconto mostra un po di "fiacca" e il risultato non è proprio eccellente!
Solo alla fine prende quota e riesce a "spaventare" un pochetto il letore...insomma, poteva fare veramente di meglio con una storia simile!
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sempre Maestro
Pensate bene alla storia : un cane che blocca una madre ed il figlio all' interno di un' auto e poi confrontate l' apparente banalità del canovaccio con la potenza infinita delle sensazioni che questo libro trasmette...Capirete perchè il Maestro è ineguagliabile
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Un cucciolo per nemico
Il primo libro di S.King che ho letto, rammento la lettura spasmodica in treno mentre andavo a scuola e l'ansia provata era meravigliosa! L'idea base di trasformare il miglior amico dell'uomo in un nemico mortale mi era parsa subito buona e lo sviluppo allora non mi deluse. Le atmosfere sono opprimenti, il caldo di un'estate già calda amplificato dalla costrizione di un'auto toglie il fiato e gli occhi corrono veloci sulle pagine. E' un romanzo al cardiopalma che tiene il lettore sospeso sino alla fine e proprio la fine riscatta la tendenza dello scrittore ad essere troppo dettagliato all'inizio. Il finale è incalzante, ma non a sorpresa purtroppo, ma tutto viene equilibrato dall'interesse che riesce a suscitare con la suspance che solo il Re sa creare con i suoi scritti sempre velati con una sorta di psicosi che non lo abbandonerà mai.