Cronaca nera
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Recensione della Redazione QLibri
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Il braccio brutale della legge
28 agosto 1963, mentre a Washington M.L. King pronuncia il suo celebre discorso “I have a dream”, a New York due ragazze vengono brutalmente assassinate nel loro appartamento in centro a Manhattan. La polizia si mette subito alla ricerca dell’assassino spiegando un numero crescente di uomini in indagini, interrogatori, perquisizioni e cacce all'uomo. Quando, dopo mesi di inutili ricerche, alcuni flebili indizi parrebbero indicare come colpevole per una serie di delitti a sfondo sessuale il nero George Whitmore Jr., gli inquirenti non ci pensano un attimo ad incastrarlo anche per l’omicidio delle due “ragazze in carriera” di New York. Tutto sembra ormai preordinato perché, pur sulla base di prove meramente indiziarie quando non artefatte, il ragazzo sia condannato alla pena di morte. Poi, per sua fortuna, qualcosa fa aprire gli occhi a tutti e indirizza i sospetti su un altro giovane nero, inizialmente scagionato da alibi poi rivelatisi estremamente fragili. L'unico lato positivo della vicenda è che lo Stato di New York, sull'onda emotiva di questi fatti, abolirà la pena di morte.
12 febbraio 1976 viene trovato cadavere in un vicolo di West Hollywood l’attore Sal Mineo, che era stato uno dei co-protagonisti del film “Gioventù bruciata” con James Dean. Lo scalpore mediatico dell’uccisione metterà alla frusta gli investigatori di Los Angeles che, inizialmente, indagheranno negli ambienti omosessuali frequentati dall'attore. Solo dopo anni e grazie ad una soffiata si arriverà alla conclusione che Mineo era stato ucciso per il solo motivo di essersi trovato nel luogo sbagliato al momento sbagliato, cioè quando un ladro d’appartamenti stava cercando di penetrare nel palazzo.
Questi due crimini di gran clamore e di portata storica ci vengono narrati da James Ellroy nel suo caratteristico “stile” sgangherato e sbilenco, con fasi acefale, suoni onomatopeici, volgarità assai poco politicamente corrette, espressioni grezze e crude, salti temporali e costruzioni da illetterato.
Proprio per tale ragione ho messo tra virgolette il termine stile: non so neppure se sia corretto definirlo come tale. Qual è il contrario di stile in questa accezione? Grossolanità? Approccio triviale? Il linguaggio di Ellroy è sgradevole, smozzicato e ansimante. È pure difficile seguire il filo narrativo che, pur appoggiandosi pedissequamente ai documenti d’indagine, spesso è frammentario e convulso, quando non diviene addirittura caotico. Eppure, spiace dirlo per rispetto degli scrittori che faticano per costruire un discorso elegante e gradevole, alla fine tutto è terribilmente efficace e incisivo. Quelle due storie, narrate in forma raffinata forse avrebbero perso la loro concreta brutalità e concretezza. Così, invece, l’A. riesce a condurci per mano in un mondo dove tutti sono brutti, sporchi e cattivi, anche coloro che dovrebbero rappresentare e far rispettare la legge. E ce lo fa toccare con mano.
Anche le conclusioni delle due indagini ci lasciano con l’amaro in bocca e tanti, troppi dubbi sulle loro risultanze. Ma è giusto così, poiché, a differenza dei gialli letterari in cui ogni pezzo del puzzle si incastra alla perfezione a formare un quadro assolutamente leggibile, nella realtà tutto è raffazzonato e opinabile e raramente ci è concessa la benedizione di una certezza inoppugnabile. Per usare l’approccio di Ellroy, si potrebbe sintetizzare il tutto con: “questa è la vita, baby: merda! TILT!”.
In conclusione un libro sgradevole e fastidioso, ma che ci racconta in un modo terribilmente efficace due cupi episodi di cronaca nera ove la giustizia umana mostra tutti i suoi limiti. Quindi, nonostante tutto, da leggere e meditare.