Bad monkeys
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La sceneggiatura di un film a basso budget
Un incipit tarantiniano e un prologo a specchi riflessi che più che sorprendere stufa e infastidisce fanno da margine e contorno a una storia troppo bislacca e strampalata per essere appena vagamente credibile. Una storia che anche se all’inizio è accattivante presto perde la sua verve cedendo il passo ad una escalation d’azione degna di un Mission Impossible di quarta categoria con gli effetti speciali di un Matrix a basso budget.
I paralleli cinematografici non sono casuali, questo testo sembra davvero la sceneggiatura di un film, una sceneggiatura che scopiazza senza ritegno da diverse pellicole cult talmente famose e note da essere ormai entrate nell’immaginario collettivo persino di coloro che non hanno mai messo piede in una sala di proiezione; e conferma di ciò si trova anche in quelli che non sono gli aspetti più prettamente scenografici del romanzo, come l’introspezione psicologica dei protagonisti, qui relegata al rimorso Darth Vaderiano di una sorella “cattiva” nei confronti del fratello più piccolo, o come la presunta analisi sociale, che la critica vorrebbe trovare ad ogni costo nel lavoro di Ruff, ma che qui in realtà fa perno esclusivamente sulle manie paranoiche e complottistiche, ormai si spera fuori moda, di certi ambienti creduloni della società americana di inizio millennio. Assurdo, ridondante, eccessivo e tutto a scapito dello stile narrativo, a scapito di uno stile a cavallo tra il farsesco e il pulp che probabilmente rappresenta l’unico aspetto positivo dell’opera.
Si dice che l’autore sia il degno erede di Pynchon e Philip K. Dick, se così è, se Matt Ruff davvero è destinato a diventare l’erede dei due grandi scrittori, be allora ne deve fare ancora di strada: ci sono accenni, rimandi, omaggi alle sue fonti di ispirazione, sì ci sono, ma è tutto molto confuso, disordinato o al contrario, lampante, ovvio e dunque banale.
Forse Ruff, in questo romanzo, in realtà più Dickiano che Pynchoniano, può ricordare qua e la il genio incompreso della fantascienza, ma certo non per inventiva, o per acuità di sguardo nei confronti della società, tutt’al più per certe fumose associazioni mentali, e per i già citati “omaggi fin troppo evidenti” che l’autore rende ai suoi modelli ispiratori, vedasi per esempio Buster Friendly, il più semplice di tutti: il poliziotto che arresta la protagonista che porta lo stesso nome del anchor man di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche.”
Banali e fumose le prime, squilibrati e ridondanti i secondi, e il passo tra l’arguto, un po’ nostalgico, apprezzamento e la scopiazzatura diventa via via più breve: se l’omaggio è uno va bene, quando sono due o tre si incomincia a storcere il naso, quando sono tanti si chiama mancanza di inventiva.
Leggendo Bad Monkeys pare davvero di trovarsi di fronte a delle rivisitazioni di celebri scritti o produzioni cinematografiche, rivisitazioni di storie e pellicole che hanno reso celebre il noir, la fantascienza e l’action drama negli ultimi trent’anni, ma se all’inizio sono simpatiche, dopo qualche pagina diventano noiose e superflue. Vero, le rivisitazioni qui hanno un enviroment differente, delle circostanze diverse, qui sono create attorno ad una realtà urbana più allucinata e meno fantascientifica di quella da cui spesso attingono, ma proprio per questo anche meno concreta e senza dubbio meno incisiva.
A lasciarsi influenzare da illazioni che sorgono spontanee, a voler leggere tra le righe di un testo che promette profondità ma cela dietro stranianti prospettive tridimensionali nient’altro che piattume, si potrebbe evocare una sorta di assuefazione di Ruff a una certa tipologia di storie, film e scenografie, dalle quali poi non riesce a prescindere, dalla cui impressione non riesce a liberarsi se non sfogandola con frasi altrettanto impregnate di quella assurda realtà parallela. Ma se su pellicola le immagini crepuscolarmente fantascientifiche di un Matrix hanno un grande impatto visivo su chiunque sia disposto ad accettare un mondo alternativo, o una concezione della vita a scatole cinesi, sulla carta stampata le medesime immagini, non supportate da un elaborato intreccio narrativo, non hanno la stessa efficacia.
Se l’autore voleva creare un libro assurdo, cervellotico, onirico, alla Pynchon, doveva avere coraggio e andare fino in fondo, se voleva creare un noir reale e crudo doveva fare altrettanto, tentando invece, come fa lui, di mantenersi in bilico tra i due stili, ottiene soltanto un’ opaca rilettura di una realtà impossibile, quanto incredibile, quanto poco affascinante.
Certo l’ironia di fondo aiuta, ed è innegabile che, vuoi per l’oggettiva brevità del romanzo, vuoi per la, speriamo, ricercata leggerezza della prosa, la lettura sia molto scorrevole e il libro si legga in quattro e quattr’otto, ma da qui a definire l’autore come l’erede del post realismo americano, il figlio della grande scuola di romanzieri made in usa, come qualcuno sostiene,… be ce ne corre