Verso il paradiso
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Un disegno troppo ambizioso
Hanya Yanagihara torna in libreria con un’opera che ha un grande intento purtroppo, solo in parte, riuscito e questo probabilmente anche a causa di una mole non semplice da gestire. E questo purtroppo ha influito sulla struttura di un’opera che sin dal principio fatica a decollare e al contempo a conquistare.
La Yanagihara ha una ambizione molto grande con il suo voler delineare una trama che attraversa tre secoli tra un presente, un passato e un futuro e tracce che si susseguono tra epoche che vengono accomunate da taluni denominatori comuni quali le voci narranti. Alla base la ricerca di un luogo, di un sogno da realizzare, di un mondo in cui essere amati, sentirsi desiderati, sentirsi liberi. Questo soprattutto in un mondo che sembra essere stretto, incapace di lasciare possibilità e donare realizzazione alle anime. Che sia l’Ottocento come un futuro prossimo. Ciò sembra essere una costante, quasi come se si volesse rimarcare il dato quale imprescindibile e improcrastinabile.
Ci spostiamo nell’Ottocento, siamo in America, una America divisa tra liberi e non liberi e dove l’omosessualità è perseguitata e chiaramente non accettata. David Bingham è un giovane di buona famiglia, eterno indeciso nel suo non decidere, se vogliamo, che decide – nel paradosso – di andarsene. Per trovare il coraggio di dare realizzazione ai suoi desideri. Alla base la convinzione che questi sono realizzabili se lontani dalle proprie radici e da una famiglia che spesso ostacola più che sostenere. Magari è proprio quell’altrove il luogo dove poter amare liberamente.
Manhattan, fine del ‘900. L’AIDS è la piega che domina nei luoghi e che non risparmia. È una condanna, un marchio. La rabbia, il desiderio di nascondersi, un amore per un uomo molto più grande, caratterizzano David. Colui che ha lasciato le sue origini, la sua casa, alla ricerca, ancora una volta, di riscatto e libertà. Legami con un padre, ancora, che non accetta e rema contro, sono alla base del suo vivere.
Ventunesimo secolo. Epidemie, pandemie, distruzione e morte. Un futuro – prossimo – che non sembra donare amore e che non è capace di offrire un avvenire alle nuove generazioni. Non vi è spazio per sentimenti, emozioni, altruismo, gratitudine. Le malattie devono essere controllate e non esiste più forma alcuna di umanità. Complottismo, frontiere chiuse, ostruzionismo, centri di contenimento e ricollocamento. Uno scenario angusto, tetro e dove non vi è spazio per qualsivoglia forma di attività perché tutto sarà legato in questo divenire dalla passività costrittiva dettata dalla paura. Paura per la malattia, per la fine, per il soffrire. E i sogni? Esisteranno ancora i sogni e i desideri in un siffatto scenario?
Una narrazione che si sussegue purtroppo in modo disarmonico nonostante gli intenti di farla ruotare, a prescindere dai molteplici salti temporali, su un unico filo conduttore. Una narrazione, ancora, che perde di pathos, di forza nel suo svilupparsi, che fatica a trattenere e questo probabilmente anche per la difficoltà di gestire una mole di pagine molto ampia in virtù di un altrettanto grande progetto. A far da cornice temi diversi che si susseguono quali la solitudine e il soffocamento della prima storia, la nostalgia di un tempo che è stato nella seconda, una richiesta di ritorno all’empatia nella terza. Temi e problematiche che si perdono in quel narrare scostante e distaccato, in quell’alternarsi temporale che finisce con lo stancare il lettore che ha come l’impressione che non si giunga mai a fine. Sorge quasi spontaneo chiedersi quale fosse il vero obiettivo della romanziera, il fine ultimo, lo scopo, l’obiettivo a cui voleva condurci nel suo disegno iniziale ma anche finale. La domanda e la perplessità che perpetra pagina dopo pagina purtroppo tende a nono trovare risposta. La lettura si presenta come farraginosa e incompleta, conquista solo in parte, disincanta nel suo non incantare.
Indicazioni utili
- sì
- no
no = se il genere non è di vostro gradimento e non avete apprezzato nemmeno le precedenti opere dell'autrice.
Destino già scritto
Un viaggio attraverso tre secoli, passato, presente e futuro, molteplici tracce in epoche accomunate da un luogo che ritorna ( la dimora di Washington Square Park ), da omonimie e da una sensazione condivisa, la definizione di se’, la ricerca di un posto dove stare, la realizzazione dei propri sogni, il bisogno di essere amati e di sentirsi liberi.
Quanto è difficile essere se stessi in un mondo dove tutto pare deciso e vigono matrimoni combinati, posti che ci posseggono dai quali non si può scappare.
E allora a cosa serve vivere in uno stato libero se non possiamo essere veramente liberi, si chiede David Bingham, il protagonista della prima storia, ambientata in una New York di fine ‘800, in un’ America divisa tra Stati liberi e non, dove l’ omosessualità è legalizzata o severamente perseguita, un giovane di buona famiglia che non ha mai deciso niente, sempre pacato e corretto, imprigionato in un destino che pare già scritto, tuttora ingabbiato nei propri desideri, con una scelta identitaria e di vita da compiere.
È possibile amare altrove, allontanarsi dalle proprie radici in fuga da un padre ripudiato che ci somiglia, all’ inseguimento di un amore diverso, ma è terribilmente complicato quando non si sa esattamente dove stare e il proprio dolore non è compreso ne’ condiviso.
Così è per il protagonista della seconda storia, ambientata a Manhattan alla fine del ‘900, in un luogo dominato dall’ AIDS, un altro David che ha scelto di fuggire la propria rabbia, di nascondersi per non essere trovato vivendo e amando un uomo facoltoso e molto più anziano di lui.
L’ abbandono della famiglia ( originaria delle Hawaii ) non lo porterà a niente, se non, anni dopo, a un senso di non libertà e alla certezza che conoscere e amare qualcuno significa ricordarlo in una vita inestricabile da quella degli altri.
David protrae il dialogo a distanza con un padre che a sua volta ha compiuto una scelta estrema in nome di un amore da preservare, egoisticamente, consegnando la propria vita e quella del figlio a qualcun altro.
Un futuro ci attende, nel cuore del ventunesimo secolo, un tempo di epidemie e di pandemie, dove sembra non esserci amore ne’ desiderio se non una lotta alienante e alienata, esautorati da un senso di libertà ignoto alle generazioni future.
In questo triste tempo, soggiogati dalla mostruosità di uno stato che ha violato tutte le libertà civili fondamentali, pagando un durissimo prezzo per controllare le malattie in atto, ogni concetto di umanità è venuto a mancare.
Centri di contenimento, di ricollocamento, frontiere chiuse, viaggi internazionali negati, teorie complottiste, gravi pandemie, lotta all’ omosessualità, nuove pandemie create ad arte.
È qui che una giovane donna ( Charlie ) si chiede se sappia veramente amare e se è mai stata amata, quando è stata l’ ultima volta che è stato pronunciato il suo nome con la voglia di conoscerla, quale sarà il destino del suo matrimonio, e uno scienziato ( il nonno di Charlie ) è affranto dall’Idea di come abbia potuto consegnare un mondo siffatto alle generazioni future, un posto dove sopravvivere nel presente e in cui il passato non conta più.
Nel futuro prossimo la gente sarà affetta da una passività legata alla paura della malattia, l’ istinto di conservazione della salute avrà eclissato desideri e valori precedenti insieme a verità inalienabili.
Rimangono legami e immagini flebili, stralci di un’ umanità perduta, il senso di colpa, il ricordo di un amore ad accomunare destini difformi e in parte segnati e congiunti quando ogni rimedio parrebbe impossibile.
“ Verso il paradiso “ è un testo corposo con una narrazione poco convincente, piuttosto scollata e prolissa, che suscita nel lettore un senso di distacco e scarso coinvolgimento, forse volutamente, un testo che si perde in un eccesso di se’, cercando di adeguare il linguaggio al fluire del tempo, rinforzando l’eco di un passato che ritorna anche quando pare non esservene più traccia.
Nel primo capitolo incombe un senso di solitudine emotiva e di soffocamento, nel secondo la nostalgia del passato e l’ idea di un sentimento negato, la terza parte è un grido disperato in un reale arido e asettico, dominato da luoghi non luoghi, imprigionati in un’ essenza di malattia totalizzante che ha rimosso qualsiasi sentire.
È in quel mentre che una voce sgorga dal profondo, quando la vita si è fatta estranea e ogni dialogo assente, in un’ atmosfera assai poco seducente da “ Il Racconto dell'’ ancella “, un senso di umanità disperante, un lumicino che pare accogliere altre storie e gli stessi significati, un sacrificio estremo per un amore da compiersi.
Per chi, come il sottoscritto, aveva apprezzato il precedente “ Una vita come tante “, la delusione è stata evidente insieme alla difficoltà di portare a termine la lettura. Nel mentre una domanda lecita incombe: dove l’ autrice voleva condurci?