Ritorno dall'universo
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Una profusione di dettagli
Stanislaw Lem è un autore che sta tornando alla ribalta: Sellerio sta lentamente pubblicando diversi dei suoi romanzi, e ho appena scoperto dell’imminente uscita di un grosso tomo Mondadori, in cui è raccolta la sua narrativa breve. Non potrei esserne più contento, perché lo reputo un autore degno di considerazione, capace di portare alta la bandiera della fantascienza letteraria. Tuttavia devo ammettere che “Ritorno dall’universo” non è all’altezza dei primi due romanzi pubblicati da Sellerio, “Solaris” e “L’invincibile”, e credo che il problema principale sia da ricondursi all’infinita profusione di dettagli descrittivi che l’autore ci pone dinanzi soprattutto nella prima metà del romanzo: sebbene il ritorno del protagonista da un viaggio interspaziale su una Terra che è andata avanti di oltre un secolo mentre lui è poco più che invecchiato sia probabilmente il punto centrale del romanzo, le descrizioni sono davvero troppe e finiscono addirittura per perdere di efficacia. In questo romanzo sono descritte talmente tante cose che sono riuscito, paradossalmente, a immaginare ben poco, e la terra descritta da Lem mi è sembrata poco più di un ambiente buio tempestato di neon. La seconda parte del romanzo è probabilmente quella che vede emergere il Lem che più ho imparato ad apprezzare: l’autore riflessivo, dagli spunti filosofeggianti, che riesce a coniugare intrattenimento e letteratura impegnata; ma per arrivarci il cammino si rivela troppo ostico e può portare il lettore meno paziente a lasciar perdere.
Come dicevo, il tutto è incentrato sul “ritorno” del nostro protagonista Hal dall’universo: egli era infatti pilota sull’astronave Prometeo, partita verso le stelle per raccogliere campioni su altri pianeti e, sebbene con poche speranze, incontrare altre forme di vita. Al suo rientro tutto è cambiato, la terra non ha più nulla di quel che aveva prima della sua partenza e lui e i suoi compagni, che erano partiti da eroi, tornano accolti dalla più completa indifferenza riguardo alla loro missione, e con stupore riguardo alla loro statura superiore alla media. Quando Hal cerca di capire quelli che sono stati i progressi dell’umanità durante la sua assenza, si accorge che è stata introdotta una pratica detta “betrizzazione”, che ha reso l’essere umano biologicamente incapace di uccidere. Loro, che non sono stati betrizzati, rappresentano per i terrestri una minaccia paradossalmente affascinante. Ma ciò che più turba Hal è la scoperta di come gli scienziati dell’epoca, mentre loro rischiavano la vita nella loro missione interplanetaria, abbiano finito per considerare i viaggi spaziali come un qualcosa di totalmente inutile. Per cos’erano partiti, dunque? La brama umana di perseguire le stelle è un correre dietro al vento, un qualcosa che non porta a nulla? Questo è il punto centrale sul quale Lem si focalizza soprattutto nell’ultima parte del romanzo, che secondo me è la più bella e interessante e senza la quale il voto sarebbe stato ben più basso di questo.
Lem resta comunque un autore dallo stile pregevole e dal pensiero acuto e profondo.
“Non avevo bisogno di stelle. Ero stato un pazzo, un folle, quando avevo lottato per prender parte alla spedizione, quando mi ero lasciato ridurre a un sacco che schizzava sangue nei gravirotor, a che mi era servito, perché, perché non sapevo che si deve essere uomini comuni, i più comuni possibile, perché altrimenti è impossibile vivere e neanche vale la pena.”