Neuromante
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Pungiglioni neri fritti
“Le ‘zaibatsu’, le multinazionali che plasmavano il corso della storia umana, avevano trasceso le antiche barriere. Dal punto di vista degli organismi, avevano raggiunto una specie di immortalità. Non si poteva uccidere una zaibatsu assassinando una dozzina di dirigenti che occupavano i posti chiave, ce n’erano altri che aspettavano di salire la scala, di occupare i posti rimasti liberi (...)”
Nel 1984 (anno evocativo per la letteratura fantastica), William Gibson scrive “Neuromante”, libro capostipite della letteratura cyberpunk e suo manifesto.
Protagonista: Case. Ventiquattrenne. Allucinato pirata del software. Ladro di dati punito con l’inoculazione di una microtossina che gli ha danneggiato il sistema nervoso… Condannato alla prigione della carne, lui, un talento delle fughe nell’incorporeo, un virtuoso della navigazione nel cyberspazio. Ora impaurito, frustrato, consumatore di droghe.
“Cowboy da console” lo definisce Armitage, il misterioso personaggio che gli offre un’altra possibilità: gli pagherà i necessari interventi di neurochirurgia purché Case si metta al suo servizio per un lavoro impegnativo. Dopo sarà più o meno libero.
A proteggere Case c’è Molly, una giovane combattente che ha nel fisico atletico e nella resistenza al dolore i suoi punti di forza. Anch’ella assoldata da Armitage.
La visionarietà di Gibson non è in discussione: anticipa di qualche decennio la potenza della rete e le esperienze virtuali, ispirando molte opere successive (“Matrix” su tutte). Evoca innesti corporei e potenziamenti mentali, multinazionali sulfuree e onnipresenti al tempo stesso, dolenti intelligenze artificiali, incubi e sogni che sgocciolano dai chip.
Pesca a sua volta da Philip K. Dick e ne costituisce, per certi versi, una prosecuzione.
Tutto questo, però, senza “offrirsi” al lettore: sin dalle prime battute, “Neuromante” parla un linguaggio proprio, fatto di termini che sembrano specialistici, ma in realtà sono codificati attraverso una chiave interpretativa nota solo a chi li usa. Si può dire che il libro è scritto in un gergo “pseudotecnico”.
Non è l’unica difficoltà: Gibson sceglie di astrarre i suoi personaggi dalla storia, e solo alla fine, quando il lettore ha abbandonato da parecchio l’idea di essere coinvolto in una trama, indica il capo del filo logico da tirare, perché la vicenda si sciolga e assuma una parvenza di senso.
Una lettura non facile, sconsigliatissima a chi non ama il genere. E non è detto che anche chi mastica science fantasy non la abbandoni comunque. A questi sia dato sapere che, al di là di una forma “ostica”, il contenuto non è poi così inconcludente: chi completerà la prima lettura sarà magari spronato ad una seconda, che permetta di riannodare il filo e ripercorrerlo quando in lontananza si vede già la maglia.