Luce virtuale
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Cupo futuro nel lontano 2005
“Tutt’intorno si sentiva il frastuono del commercio serale, il rumore di carte da gioco, la voce di una donna: il tramonto rosa come vino, attraverso teli di plastica che sbattevano come vele in un vento che odorava di cibi fritti, fumo di legna, l’aroma dolce ed oleoso della canapa indiana”: solo una frase, per rendere l’idea di un libro che è soprattutto opera visiva, sensoriale, dove la trama è portata avanti con un contorno sapido di odori, profumi, rumori, particolari.
Diciamo che è uno di quei libri che non piace di primo impatto. Ci vuole qualche capitolo per abituarsi all’atmosfera plumbea e desolata (ma neanche troppo, perché poi, leggendo bene tra le righe, appaiono continui guizzi di divertimento, e momenti di puro abbandono ai sogni).
In questo “lontano” 2005, c’è un mondo sopravvissuto alla distruzione, che si difende con le unghie e con i denti, e che ha spazio per più storie e più ambientazioni. C’è il Ponte, una grigia struttura di ferro, cartone e resti di antichi edifici, con un’umanità varia e disperata, ma anche libera e solidale. Ci sono le città, ultramoderne e pericolose, dove nessuno conosce il proprio vicino di casa. C’è il mondo dei messaggeri, ultimi cavalieri su quattro ruote che sfrecciano da un punto all’altro, recando pacchi e segreti. Ci sono le sette neocristiane, quelle che credono che Dio sia nel televisore e pregano, imparando a memoria i vecchi film; ci sono gli ariani; ci sono i seguaci dell’omosessuale Shapely, che con il suo sangue ha dato origine al vaccino che ha salvato l’umanità dall’Aids, per poi essere ucciso dai soliti fanatici e trasformarsi in un martire divino.
Sopra a tutte queste microsocietà si erge una sovrastruttura ancor più confusionaria: polizia corrotta, servizi di sicurezza privati molto più potenti della polizia, e gli hackers, pirati venali ed opportunisti.
E in questo caleidoscopio, due protagonisti che non si dimenticano: Chevette, la giovane corriere senza passato e senza sogni, disillusa ma anche capace di amare e di pensare al bene degli altri; Skinner, il vecchio che vive sul Ponte, l’unico che ricordi la differenza tra il primo e il secondo mondo, e che sopravvive vendendo i ricordi di quello che fu.
Come ho detto, non un libro facile, però visivamente ricco, confuso, ma con una confusione che ammalia. Dovrebbe essere considerato fantascienza, ma con spruzzi di poesia qua e là, come se Gibson ne fosse pieno, e si intestardisse a scrivere del futuro, non riuscendo, sull’onda della frase, a trattenersi…
Ma anche la poesia è la poesia di un mondo cupo e violento: “rimase ad aspettare il suo turno, nell’aria che sapeva di caffè appena macinato”. Alla fine, se ne esce quasi storditi, spossati, però NON DELUSI.