Narrativa straniera Fantascienza La guerra invernale nel Tibet
 

La guerra invernale nel Tibet La guerra invernale nel Tibet

La guerra invernale nel Tibet

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«Sono un mercenario, e sono fiero di esserlo». A parlare è il colonnello FD 256323: questo il numero che gli hanno assegnato quando si è arruolato al servizio dell'«amministrazione», venti o trent'anni prima – non ricorda bene, e del resto chi lo conta più il tempo? Allora la terza guerra mondiale con le sue devastazioni nucleari aveva decimato l'umanità e reso inabitabile gran parte del pianeta, e i combattimenti si erano concentrati nel Tibet, «ad altitudini fantastiche, su ghiacciai, morene, dirupi, nei crepacci e sotto pareti a strapiombo», oltre che nello sterminato dedalo di gallerie scavate all'interno di poderosi massicci, dove feroci fazioni avversarie a sorpresa si incontrano e si massacrano. L'unica cosa che conta, come il colonnello sa bene, è non mettere mai in dubbio l'esistenza del nemico, altrimenti come si spiegherebbero il dolore e la sofferenza? Ma ora che è rimasto solo nell'oscurità silenziosa di una caverna, privo di gambe e con delle protesi al posto delle mani – a sinistra un mitra innestato sul braccio, a destra un assortimento di attrezzi polivalenti –, ha tutto il tempo per riflettere. E per incidere con il punteruolo, sulle pareti rocciose nelle viscere della montagna, l'incubo senza fine che ha vissuto – e il suo senso segreto.



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La guerra invernale nel Tibet 2020-02-26 08:37:45 DanySanny
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    26 Febbraio, 2020
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Combattere, fino alla fine

In un mondo postumo a un violento conflitto nucleare, che ha devastato ogni città, inabissato l’Europa, eliminato grossa parte della popolazione mondiale, un mondo illuminato perennemente dalla luce innaturale e livida di un fungo atomico che pervicacemente resiste all’orizzonte, la guerra dei pochi superstiti si è spostata nelle montagne del Tibet, nei labirinti scavati nella roccia, unico luogo dove le radiazioni sembrano non essere letali, dove la vita può perpetuarsi ancora e ancora indefessa, nella sua logica di violenza e sopraffazione. Mercenari assoldati dal’”Amministrazione”, misteriosa e vaga entità che vegeta là dove i governi hanno smesso di legiferare e che per sostenere il peso di una guerra in cui tutti sono sconfitti, ha creato nemici immaginari, o forse amici, colpi di mitragliatrice destinati ai propri amici o ai propri avversari, non c’è differenza. Perché un nemico deve pur sempre esserci, per mantenere l’ordine, per far evaporare gli istinti centrifughi e distruttivi in una società fatta di odio e frustrazione. E così il protagonista, prima soldato fedele al governo e ora deluso da chi, invece di proteggere la popolazione, si è rifugiato sottoterra per preservare i propri interessi, vive il resto della sua esistenza, mutilato nelle gambe, una mitragliatrice saldata al braccio sinistro, un punteruolo fuso sul braccio destro. È con questo punteruolo che incide sulla roccia la sua storia, la storia del mondo, come un uomo primitivo che ha dimenticato altra forma di linguaggio e il lettore lo segue in quello che è forse il delirio di un uomo solo, che non esce da anni dal ventre della montagna, o forse il delirio di due uomini che non sanno l’uno dell’altro, che scrivono e si sovrappongono. Nulla è certo in questo racconto, se non che la scrittura è una forma di memoria, se non che il potere, in ogni forma, vuole solo perpetuare se stesso.

Molti, al solito, i temi che Dürrenmatt condensa in poche pagine: una critica feroce della guerra, il peso della minaccia nucleare all’alba degli anni ’80 del Novecento, le logiche che regolano non solo il potere, ma anche la società (molto ben riuscito, per quanto non semplice da seguire, il paragone tra i processi di fusione nucleare nelle stesse e le dinamiche della società, che sa trovare un ordine e una simmetria tra le leggi della fisica e le leggi umane), la forza della scrittura, l’indispensabile presenza di un nemico da affrontare, senza chiedersi il perché, l’egoismo di chi governa e su tutto la fatale, finale ironia di un mondo che oramai si scopre archeologico, di incisioni che scopriamo solo alla fine essere il testamento dell’uomo nella caverna. In questa regressione allo stato primitivo si innesta, meravigliosamente, il mito platonico della caverna a rimarcare ancora una volta che ognuno, osservando le ombre, potrebbe scambiarle per la verità stessa, ma anche la paura di scoprire che quello che vediamo è solo una finzione. Perché a volte è meglio non sapere. Certo l’ambientazione è meno riuscita di altre volte, la storia meno appassionante, ma l’acume è sempre lo stesso e “La guerra invernale nel Tibet” ricorda, già nell’assurdità del titolo, l’assurdità della guerra.

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