L'ultimo teorema
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Il teorema non dimostrato da Clarke e Pohl
Questo romanzo è sostanzialmente la storia della vita di Ranjit Subramanian.
Lo conosciamo giovane studente che affronta il primo anno di studi all'università di Colombo, nello Sri Lanka. Suo padre è il sacerdote capo dello storico tempio indù di Triconmalee, nel nord-est dell’isola, ma è anche un amante della scienza ed ha inculcato nel figlio il pallino della matematica facendogli leggere, da bambino, un libro sulla teoria dei numeri. Ranjit si annoia negli studi universitari, ma è ossessionato dal famoso ultimo teorema di Fermat. La soluzione trovata da Andrew Wiles nel 1995 non lo soddisfa: troppo complicata e astrusa. Per sfuggire alla noia del tran tran accademico, si concentra sul problema. Riuscirà a dimostrarlo solo grazie ad un doloroso contrattempo: per propria dabbenaggine sarà sequestrato da parte di una banda di pirati, e, poi, tenuto segregato da parte dei suoi pretesi “liberatori” che lo credono uno dei predoni. La forzata solitudine farà da incubatrice dei suoi ragionamenti.
Dopo la pubblicazione dei risultati dovrebbero attendere Ranjit solo successo, gloria e felicità coniugale. Tuttavia gli spazi cosmici non sono tranquilli: una super civiltà aliena (i Grandi Galattici) hanno scoperto che la civiltà terrestre è bellicosa ed instabile. Deve essere “sterilizzata”. L’ordine è già partito ed alcune delle razze clienti di questi signori dell’Universo sono in viaggio da anni per distruggere il pianeta. Il tempo per raddrizzare l’andamento delle cose sulla Terra ormai è pochissimo.
Questo è l'ultimo romanzo di Sir Arthur C. Clarke, pubblicato postumo. È stato scritto in collaborazione con un altro gigante della fantascienza, Frederik Pohl, che ha aiutato il vecchio e malato sir Arthur a completare l’opera uscita postuma nel 2008; Pohl morirà poco dopo.
Riunire due dei monumenti alla letteratura fantascientifica per un’opera comune parrebbe la formula perfetta per ottenere qualcosa di sensazionale, una garanzia sufficiente ad un successo garantito.
Purtroppo, evidentemente, non è stato così: la “chimica” della letteratura richiede anche qualche cosa in più. Il teorema della letteratura impone, per giungere alla sua dimostrazione, anche quel colpo di genio creativo che in questo caso è totalmente mancato. Quello che poteva essere lo spunto per un buon racconto di una cinquantina di pagine, al massimo, è stato annacquato e stiracchiato in un lunghissimo e tedioso romanzo.
I primi 25-30 capitoli sono noiosi in una maniera allucinante. Descrivono la vita, banale, del giovane Ranjit nel suo atteggiarsi giornaliero senza nessuno spunto d’interesse o picco di freschezza inventiva. Sembra quasi che Clarke sia stato costretto a scrivere queste pagine per omaggiare lo Sri Lanka, che per decenni lo ha ospitato, e che abbia fatto ciò solo con spirito deferente e riconoscente, facendo un diario di vita sull'isola, senza alcun estro o entusiasmo. Il rapimento da parte dei pirati e la successiva proditoria detenzione di Ranjit presso un non meglio identificato gruppo paragovernativo non aggiungono alcun interesse o pathos alla storia narrata.
I contrappunti inseriti, qua e là, sulla situazione internazionale in via di progressivo peggioramento (in effetti nulla di diverso da quanto accade quotidianamente da sempre sulla Terra), sono deprimenti, non nel senso voluto dall'autore, ma solo per la banalità del quotidiano a cui ormai, purtroppo, siamo assuefatti. Quindi, tutto sommato, risultano uggiosi. Le scarne notizie sul procedere delle manovre aliene, poi, sono giustapposte a casaccio e risultano quasi ridicole.
Nell'ultimo terzo di libro Clarke imprime una brusca svolta agli eventi con una improvvisa ed abbastanza illogica accelerazione dei tempi e dei progressi. In queste pagine tratteggia la nascita di uno di quei mondi utopici a cui ci ha abituato, un po’ sogni ad occhi aperti, un po’ cartoline di una società ideale, ma irreale. I tasselli di quella che veniva descritta, prima, come una società in dissoluzione, tasselli che neppure si incastravano, vanno tutti magicamente al loro posto. Anche nel prefigurato “nuovo corso”, comunque, quasi tutto scorre troppo liscio come in uno stanco rigagnolo, senza grossi sussulti o elementi di interesse che movimentino la storia; le uniche "deviazioni" dalla linearità del racconto buonista non sono funzionali alla trama, ma inserite quasi solo allo scopo di dire che non tutto può andare sempre per il verso giusto nella vita.
Anche l’incontro/scontro finale con gli alieni viene risolto in maniera sbrigativa e, pure, ingenua.
Uno dei principali difetti che ho sempre imputato ai romanzi di Clarke, per altri versi maestro della fantascienza, è quello che essi sono tutti, più o meno indistintamente, emozionanti come un documentario naturalistico. L’impegno narrativo dell’autore è sempre stato concentrato nello speculare e descrivere il futuro vagheggiato, più che nell'intessere una trama coinvolgente e ricca di accadimenti che avvincano il lettore. Clarke scrive per esporre fatti e per ammannire un ammaestramento etico-morale, non già per suscitare emozioni o eccitare sentimenti. Anche i personaggi sono per lo più personalità schematiche funzionali alla descrizione. Unica eccezione fu “2001, Odissea nello spazio”, ma soprattutto grazie all'apporto non secondario che Kubrik fornì anche alla stesura del romanzo.
Tuttavia, proprio come in un documentario, Clarke aveva sempre avuto il merito di mostrare, come in un fatasmagorico caleidoscopio o in una Disneyland tecnologica al massimo, una interessante visione del futuro, in alcuni casi con lungimiranza per cose poi realmente accadute. Ne “L’ultimo teorema”, forse collocato in un futuro troppo immediato (in teoria la storia parte proprio dai nostri giorni), questo apporto manca. Le anticipazioni sul futuro sono fiacche e talvolta scarsamente credibili, l’intento etico troppo marcato e opprimente: sembra quasi che l’autore, descrivendo tempi troppo vicini, da un lato abbia sofferto di una forma di presbiopia che gli ha mostrato sfocato ciò che voleva descrivere e, dall'altro, abbia voluto lanciare ammonimenti troppo pressanti solo contro tutto ciò che lo spaventava personalmente. Per rimediare, è stato costretto ad appiccicare, come in un collage, alcune delle visioni futuribili che gli erano care, ma senza una accurata amalgama degli elementi. In generale sono scarsi i temi fantascientifici se escludiamo il finale (ascensore spaziale, vecchio chiodo fisso di Clarke, vele solari, etc.) e gli alieni. Questi ultimi, peraltro, sono descritti inizialmente in modo volutamente fumoso perché considerati inconoscibili per una mente umana e, dopo, diventano mostriciattoli stile letteratura pulp anni ‘50.
In conclusione, quello che sarebbe potuto essere il degno canto del cigno di un grandissimo autore al quale la fantascienza e la letteratura in generale debbono molto, s’è trasformato in una malinconica stecca, un libro stanco e di difficoltosa lettura che solo nella parte finale si rialza un poco verso gli standard a cui Clarke ci aveva abituato. L’apporto di Pohl, anche lui lontano dal brio che lo ha reso famoso, è del tutto inavvertibile.
Una nota di chiusura: in Italia il volume è stato pubblicato nel 2012 per festeggiare i 60 anni della collana di Mondadori, Urania. Per commemorare l’importante il traguardo raggiunto sono stati scelti autori decisamente importanti ed adeguati, peccato solo che l’opera realizzata non sia all'altezza dei nomi che la firmano. Sono piuttosto interessanti, invece, i commenti di critica letteraria aggiunti nelle numerose postfazioni: vere e proprie summae della fantascienza in Italia.
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