Cronache marziane
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Vieni su Marte
"E gli uomini della Terra vennero su Marte. Vennero perché avevano paura, o perché non l'avevano, perché felici, o infelici, perché erano come i Padri Pellegrini che avevano fondato le colonie americane, o perché non erano come i Padri Pellegrini. Ognuno aveva avuto le sue buone ragioni per venire su Marte. Cattive mogli da abbandonare, lavori ingrati, città inospiti; ed essi venivano su Marte per trovare qualcosa, o lasciare qualcosa, o ottenere qualcosa, per scavare qualcosa, o seppellire qualcosa, o lasciare una volta per tutte in pace qualcosa. Venivano con piccoli sogni, o sogni immensi, o niente sogni del tutto. Ma un dito governativo vi si appuntava contro, in molte città, da un cartellone stampato a quattro colori: C'È LAVORO PER TE NEL COSMO: VIENI SU MARTE!" Da sempre è insita nella natura umana l'ambizione a superare qualsiasi tipo di confine, a raggiungere vette inesplorate, ad ampliare sempre più il campo della conoscenza. Un sentimento certamente positivo, che tanto è servito, nel corso della storia, a portare progresso dal punto di vista scientifico e tecnologico, ad allargare gli orizzonti geografici, a migliorare la vita di ognuno di noi. L'animo umano, tuttavia, ha dimostrato di non riuscire ad evolversi di pari passo al progresso che lo circonda. Guerre, sopraffazione, differenze sociali, inquinamento, dimostrano che, dalla preistoria ad oggi, l'uomo non ha ancora imparato come comportarsi nei confronti dei suoi simili e del pianeta su cui vive. Cosa potrebbe succedere, un domani, se l'uomo riuscisse a raggiungere un pianeta inesplorato, abitato da una civiltà sconosciuta? Ray Bradbury si è posto la domanda nel non troppo lontano 1950, a pochi anni dall'orrore dei due conflitti mondiali, immaginando la conquista di Marte da parte dei terrestri. La risposta, prevedibilmente, non lascia tanto spazio all'ottimismo. L'autore non può fare a meno di ipotizzare una colonizzazione selvaggia, uno sterminio della razza marziana, un maltrattamento dell'ecosistema vigente, una lotta tra gli stessi terrestri per la conquista dei terreni, per la gestione delle risorse, per la detenzione del potere che appare tutt'altro che fantascientifica, tanto è avvalorata dal comportamento umano nella storia. Il disfattismo di fondo dell'opera, il pessimismo nei confronti di un progresso prettamente materiale, è stemperato dal brioso incedere del racconto, da una massiccia dose di caustica ironia che spesso sfiora la comicità, da una prosa curata che dà il meglio di sé nelle fantasiose e piacevoli descrizioni. Si parte dalla prima spedizione americana verso il pianeta rosso, nel 1999, finendo nel 2026 in un desolante scenario post bellico, in un susseguirsi di più o meno brevi racconti, ognuno dei quali sembra fare storia a sé, tanto poche risultano le interconnessioni tra un episodio e l'altro. Tuttavia il risultato non appare frammentato, il filo storico e quello logico sono legati insieme da un contesto che va al di là del singolo racconto. Non sono i personaggi ad essere protagonisti, ma è la società umana nel suo insieme. Non è la storia di una singola persona o di un ristretto gruppo di uomini, ma di una intera civiltà che, come un cane che si morde la coda, gira e rigira in un vorticoso circolo di errori e di orrori che non sembra avere fine. "La vita sulla Terra non s'è mai composta in qualcosa di veramente onesto e nobile. La scienza è corsa troppo innanzi agli uomini, e troppo presto, e gli uomini si sono smarriti in un deserto meccanizzato, come bambini che si passino di mano in mano congegni preziosi, che si balocchino con elicotteri e astronavi a razzo; dando rilievo agli aspetti meno degni, dando valore alle macchine anzi che al modo di servirsi delle macchine. Le guerre, sempre più gigantesche, hanno finito per assassinare la Terra. Ecco che cosa significa il silenzio della radio. Ecco perché noi siamo fuggiti."
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Cronache terrestri
Ho imparato a riconoscere i libri che mi rimangono nell'anima, quando li chiudo.
Quella stretta al cuore nel momento in cui volto ultima pagina, una sensazione strana che dura un secondo o poco più. La tacita riflessione che scaturisce automatica nei minuti seguenti.
"Cronache Marziane" è all'ultima pagina, la giro, ripongo il libro. Stretta al cuore. Silenzio.
Questo libro può essere preso come simbolo di come, anche nei generi spesso ingiustamente considerati "di serie B", si trovino perle di rara bellezza.
L'opera di Bradbury va messa lì, tra i più bei classici della letteratura contemporanea.
Soffermarsi sullo stile dell'autore sarebbe superfluo. Un maestro.
Pensiamo piuttosto agli innumerevoli messaggi che questo capolavoro ci offre, raccontandoci la colonizzazione di Marte da parte dei terrestri, tramite dei racconti legati da un unico filo conduttore e che alla fine comporranno il meraviglioso mosaico.
L'uomo ha sempre guardato il cielo con meraviglia, pervaso dal desiderio di poter, un giorno, esserne viaggiatore e abitante.
Allo stupore e alla voglia di scoprire, si unisce la consapevolezza di essere una razza fallimentare, che se dovesse persistere nei suoi errori non potrà che portare sé stessa e la sua casa planetaria alla distruzione.
Ma se c'è una cosa che la razza umana, nella sua Storia, ha sempre dimostrato, è quella di essere incorreggibile, imperfetta. Non impariamo dai nostri errori, mai del tutto.
Rifuggiamo la nostra imperfezione, ma i nostri sforzi non sono altro che un rimandare l'inevitabile.
È questo a spingere gli uomini su Marte: la fuga da sé stessi. Credono che sia la terra, quel pianeta ormai troppo corrotto per sopravvivere, il problema. In realtà, il problema è quell'ombra che non possiamo evitare di portarci dietro.
Siamo esseri che cercano disperatamente di salvarsi, disposti a tutto pur di sopravvivere, di continuare ad essere. Anche invadere un pianeta alieno, che non ci appartiene, mascherando la "conquista" con la voglia di confrontarsi con altre razze, di conoscere, nascondendoci in una falsa voglia di condivisione per poter più facilmente pugnalare il prossimo alle spalle e ottenere ciò che ci serve. Divorare tutto quello che ci capita, come un'orda di locuste.
In un unico grande racconto composto da pezzi differenti, compiremo un viaggio interplanetario nelle profondità dello spazio, e un altro non meno intenso nell'animo umano, scrutando le sue luci e le sue ombre.
Ray Bradbury ci regala un capolavoro unico, che in certi tratti sfocia nel poetico.
Leggete "... And the moon be still as bright" con attenzione, e poi mi direte se non ho ragione. Un tizio di nome Spender vi rimarrà nel cuore.
Da non perdere assolutamente.
"I marziani non hanno cercato troppo intensamente di essere ognuno tutto uomo e niente animale. L'errore che abbiamo commesso noi dopo le scoperte di Darwin. L'abbiamo abbracciato con Huxley e Freud, tutti sorrisi. Poi ci siamo accorti che Darwin e le nostre religioni non andavano d'accordo. Abbiamo cercato di smuovere Darwin, Huxley e Freud. Ma non era facile buttarli giù dai loro piedistalli. Allora, come idioti, abbiamo tentato di abbattere la religione. E abbiamo fatto un bell'affare. [...] la fede ci aveva sempre dato la risposta a tutte le cose. Ma tutto è andato a finire nella spazzatura con Freud e Darwin. Eravamo e siamo ancora una razza perduta."
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L'umano nel disumano, il disumano nell'umano.
Le suggestioni che Bradbury riesce a creare con le sue idee, con il suo stile, con il suo semplice narrare sono perle rare capaci di risvegliare il subconscio umano in tutte le sue imperfezioni e paure. Quando lessi per la prima volta le “Cronache”, poco dopo aver ultimato il mio amato ed ispiratore Fahrenheit 451, restai basita dal genio di questo autore, dall’idea di riflessione proposta, dalla poesia con cui riusciva a trasmettere con chiarezza lo specchio dell’umanità del tempo. Perché questo ha fatto Bradbury, da un lato nell'ipotizzare la conquista dell'uomo di altri ancestrali pianeti – e nonostante l'intrinseca possibilità di ricominciare tutto dal principio, di porre rimedio a quegli errori che tanto lo avevano caratterizzato sulla Terra – ha dimostrato l'incapacità del genere di appartenenza di far tesoro dei propri sbagli e dunque di imparare da essi; dall'altro ha offerto una panoramica completa della cultura del tempo; gli abitanti che popolano questo romanzo non sono altro che l'archetipo dell'americano medio degli anni '40/'50 razzista, falso perbenista, mentalmente stereotipato e totalmente rivestito di infiniti pregiudizi.
In antitesi ai terrestri vi sono poi i marziani, esseri diversi dai primi ma non tanto nell'aspetto – non attendetevi la descrizione di alieni dalle tre teste e le sette braccia – quanto nell'evoluzione della propria civiltà. In tal senso, un racconto mi ha particolarmente colpito, ed è quello del padre missionario che affascinato da queste “sfere” azzurrine cerca di instaurare un rapporto con predette creature sino alla consapevolezza di non dover far altro che limitarsi ad imparare dalla loro saggezza. Altro passaggio – dei tanti – che mi ha arricchito – e che considero una rarità – è quello dell'emigrazione dell'intera popolazione di colore sul pianeta Marte perché quando non hai niente da perdere non hai paura di lottare per ricominciare e cambiare le cose. Viceversa il bianco si rende conto della rilevanza che aveva il nero – che ha tanto maltrattato e deriso – soltanto quando lo ha perso e i fiocchi di cotone aleggiano tranquilli nelle distese coltivate. Ulteriore significativo spunto di riflessione l'ho riscontrato nel brano che ha quale protagonista l'eclettico Stendahl che nella sua brama di vendetta riscuote nel lettore quell’insegnamento che l'indimenticabile Fahrenheit 451 aveva trasmesso nella sua lettura.
Marte è sinonimo di perfezione; è la metafora della Terra prima dell'avvento del genere umano. Che avesse ragione Spender? Si, vien da affermare. Il giungere sul pianeta rosso del terrestre può tradursi nella bieca brama di potere, nella stupidità, nell'arroganza, nella corruzione perché ogni buon principio che, almeno inizialmente animava il cuore dei coloni, si è perso nell'oblio per dar adito a quelle caratteristiche stanziate nell'anima dell'uomo. Non stupisce dunque che chi crede di sapere imponga la sua dottrina, che le passioni si tramutino in mania, che il buono ed il rispetto diventino concetti astratti paragonabili tanto alla devozione quanto al miraggio. Perché accettare, perché non rispettare quel nuovo mondo ed imparare dai lasciti di una cultura evoluta? Perché l'uomo non riconosce minimamente quegli errori insiti nella propria natura e alla dipartita per Marte, prepotentemente e testardamente, se li porta dietro radicandoli in un pianeta che a sua volta diventerà immagine e somiglianza di quello appena abbandonato. E dunque, a cosa è servito andarsene?
Feste e proclamazioni si aspettava al suo arrivo su Marte il terrestre invasore. La sua conquista del pianeta è paragonata a quella che ha visto protagonisti gli indios d'America al giungere degli europei alla conquista del Nuovo Mondo. E si stupisce l'astronauta della Terra; perché le chiavi del Pianeta Rosso non gli vengono consegnate? Perché i marziani li prendono per pazzi o comunque non si mostrano entusiasti del loro arrivo? Ben quattro spedizioni prima di pervenire all'estinzione degli alieni. Inevitabile il passaggio di proprietà che, badate bene, non è una resa da parte dei marziani bensì una la metafora del padre che accontenta il figlio capriccioso sussurrandogli all'orecchio di non crogiolarsi sugli allori visto che da quel momento la battaglia da condurre è contro la sua stessa natura di rampollo.
Nel finale il dubbio, l'incertezza sul futuro narrata con grande maestria e con pillole di saggezza letteraria che si marchiano indelebili nella mente di chi legge.
Con ambientazioni quasi fiabesche, significati intrinseci e una scrittura esaustiva, chiara e magistrale; Bradbury dà vita ad un'opera che vale la pena di essere letta. Il suo significato viene colto in più riprese, alla conclusione del componimento, infatti, non è possibile comprenderne tutta la profondità, questa in parte sfugge, non perché il lettore non sia capace di percepirla bensì perché è necessaria una riflessione a posteriori, a freddo per assaporarla nella sua interezza. Come più volte asserito dallo stesso autore lo scritto è una rivendicazione della fantasia contro il realismo letterario dell'epoca, è intriso della visione del Mondo propria da sempre di Bradbury che, come altri autori del suo tempo (vedi Huxley o Orwell), tendeva il suo occhio scrutatore nella panoramica del “bianco e del nero” senza dar voce alle sfumature; ma è e resta un componimento degno di nota. Un romanzo che va gustato e letto poco alla volta.
Vi lascio con un breve incipit:
« I marziani scoprirono il segreto della vita tra gli animali. L'animale non cerca di capire la vita. La sua stessa ragione di vivere è la vita; esso gode e gusta la vita. Vede, tutta la scultura marziana, questi simboli animaleschi ripetuti all'infinito...»
«A me sembra una cosa pagana».
«Anzi! Quelli sono simboli divini, simboli di vita. L'uomo, anche su Marte, era divenuto troppo uomo e non abbastanza animale. E gli uomini di Marte si accorsero che per sopravvivere avrebbero dovuto dimenticare la solita domanda: Perché vivere? La vita era la risposta a se stessa. La vita era propagazione di maggior vita e di un vivere la miglior vita possibile. I marziani si accorsero che la domanda “Perché vivere” veniva fatta invariabilmente al culmine di un periodo di guerra e disperazione quando non c'era risposta. Ma poi la civiltà si placò, le guerre cessarono e la domanda perse ogni senso per altri motivi. La vita era bella, non c'era più bisogno di discussioni e di analisi».
« Si direbbe che i marziani fossero molto ingenui».
« Erano ingenui soltanto se conveniva esserlo. Smisero di cercare di distruggere tutto, di umiliare tutto. Fusero religione, arte e scienza, perché alla base, la scienza non è che la spiegazione di un miracolo che non riusciamo mai a spiegare e l'arte è un'interpretazione di quel miracolo. Non permisero alla scienza di stritolare l'estetica e la bellezza. E' sempre questione di gradazione. Un uomo della terra si dice:-” In quel quadro il colore non esiste realmente. Uno scienziato può dimostrare che il colore è soltanto il modo secondo cui le cellule sono disposte in una data sostanza per riflettere la luce. Pertanto, il colore non è una parte sostanziale delle cose che mi capita di vedere”. Il marziano, infinitamente più acuto, dirà: “Magnifico quadro. Lo dobbiamo alla mano e alla mente di un uomo ispirato. Alla sua idea, il suo colore vengono dalla vita. E' dunque cosa buona”. »
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Futuristico.
Piccola panoramica sul nostro Ray Bradbury: morto di recente (5 giugno 2012), è stato uno scrittore fantascientifico (e non solo) americano. Molti lo conosceranno per Fahrenheit 451 e per Cronache Marziane, io per ora ho letto solo quest'ultimo e credo che mi butterò anche tra le sue opere meno conosciute.
Detto questo, premetto che il fantascientifico mi piace e non mi piace. Questa raccolta di racconti mi è piaciuta e anche molto. Questo è un genere particolare perché a mio avviso è facile "uscire dal seminato" rendendo le cose un po' sdubbiose e prive di significato. Un po' come il fantasy, si corre il rischio di imbatterci in una storia tutta ricca di personaggi allucinanti, identificati da descrizioni chilometriche (e del tutto eccessive), posizionati in un ambiente pazzesco e analizzato in ogni minimo particolare, ma totalmente senza trama. Oppure con trame folli senza capo ne coda che al terzo capitolo ti obbligano a ricominciare a leggere da capo perché non ci capisci già più niente. Ho fatto tutto questo preambolo per arrivare ad ammettere che ero partita piuttosto prevenuta nonostante sapessi della fama di grande scrittore del buon caro Ray.
Ho avuto una piacevolissima sorpresa sin dalle prime pagine, belle parole, bella forma, bella presentazione della situazione iniziale. Favoloso anche il fatto che non ci sia un protagonista indiscusso, ogni capitolo ha i suoi personaggi con la loro psicologia e il loro piccolo ruolo in questa grande storia. Come trama si va sul semplice: la colonizzazione di Marte da parte dell'uomo. Vi ho detto tutto e nulla perché mi sono documentata e ho visto che ci sono anche diverse interpretazioni che riguardano questo libro.
Io posso fornire il mio punto di vista: l'uomo colonizza Marte come ha colonizzato il Mondo in passato. Arriva e si impossessa di tutto, portando alla distruzione un popolo evoluto come quello dei marziani.
Secondo me siamo paragonati ad una sorta di virus che si trasferisce da un posto all'altro quando ormai ha distrutto e preso tutto ciò che poteva. Una volta trasformata la Terra in un pianeta affogato dalle guerre, la scappatoia all'estinzione è stata proprio quella di impadronirsi di un altro pianeta, come se ci spettasse.
La cosa carina di questo libro è che c'è spazio anche per alcune "scene" grottesche e comiche ( ad esempio il capitolo intitolato -(Dicembre 2005) Le città silenti- ) che mi hanno fatto anche ridere come una deficiente.
Non vado oltre perché non voglio rischiare di anticipare troppo, è un libro che va letto e va assaporato con calma. Lo consiglio a tutti, scorre bene ed è di facile comprensione. Inoltre è piuttosto pratico perché essendo una raccolta ogni capitolo ha il suo titolo e, con poche eccezioni, sono generalmente brevi e adatti anche a letture "frettolose".
Buon divertimento. :)
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Biancaneve e le ceneri dell'umanità
Marte come redenzione, redenzione dell’uomo dai suoi peccati, dal suo egoismo, dalla sua stupidità. Marte come fuga, via di fuga dell’uomo dalle brutture da egli stesso create, dalla violenza, dalla guerra, dai mostri partoriti dalla sua mente
Marte come utopia del bello, del perfetto, del paradiso.
Bradbury fa osservare al lettore il miraggio della perfezione, di quello che potrebbe essere, di quello che era stato il pianeta prima dell’avvento del genere umano, glielo fa conoscere, capire, vivere con un prodigio di luce riflessa. Nel libro Marte non è più il quarto pianeta dal sole, ma il ricordo della Terra, quello che il nostro caro vecchio Mondo era prima che vi comparissimo, prima che potessimo definirlo “vecchio e caro.”
L’uomo dalla sua Terra, stupida, violenta, assassina osserva e brama l’incorruttibile perfezione del pianeta rosso, è naturale che egli aspiri a raggiungere quella perfezione, quell’equilibrio, che aspiri a raggiungere Marte. E quando finalmente grazie al progresso della tecnica riesce a mettervi piede, tutto inizia… tutto inizia a rovinarsi.
Già perché la stupidità, la brama di potere, la corruzione non sono prerogative della Terra, ma sono prerogative dell’uomo che ha stanziato il suo regno sul terzo pianeta creandolo a sua immagine e somiglianza. Il viaggio, la conquista della nuova terra, non servono a mondare i peccati della natura umana, anzi, caso mai a rinvigorirli, poiché sul pianeta di Bradbury sì può vivere, sì, ma in condizioni estreme e in tali condizioni l’uomo non migliora, si estremizza. Le passioni diventano manie, il rispetto diventa devozione, l’istintiva aspirazione al buono e al bene diventa prevaricante imposizione di una dottrina di vita, di chi pretende di essere nel giusto e costringe gli altri a seguirlo. E’ naturale che sia così, lo si è sempre fatto sulla terra, la storia ci insegna. E’ naturale nel vero senso del termine: è tipico della natura umana imporre invece che accettare, estremizzare la logica del sociale decontestualizzandola e trasformarla in legge da applicare rigorosamente e non più da interpretare con giudizio, o ancor peggio spostare il baricentro di ogni rapporto civile squilibrandolo in proprio favore, camuffando sistematicamente i termini dell’equazione del vivere civile sottraendo sistematicamente gli addendi al prossimo, agli altri uomini, per il successo e la vittoria personale. No, Marte è una chimera che affascina e illude, ma l’uomo di Bradbury (ahimè così simile al vero) è già spacciato poiché non impara dai propri errori, anzi con testardaggine e arroganza non li riconosce neppure portandoseli dietro ovunque metta piede. A nulla serve fuggire dalla Terra constatatene le brutture, a nulla serve ripudiare la propria Creatura: è la mente del dottor Frankenstein che bisognerebbe ripudiare, è da se stesso che l’uomo dovrebbe fuggire.
L’uomo secondo le Cronache di Bradbury arriva su Marte e da quel momento Marte, come prima la Terra, incomincia a morire. I nativi del pianeta, i marziani, dapprima non riconoscono neanche quella assurda forma che è l’uomo, poi imparano a riconoscerlo a conoscerne i semi della follia e così anche per loro, i marziani, sembra non esserci scampo, non tanto perché sono destinati ad estinguersi ma perché (ben peggio) sembrano destinati a diventare come l’uomo. Ma la genetica ha la meglio: loro sono pur sempre Marziani e all’ultimo, in un ultimo atto di inumano altruismo, si redimono e, dagli esseri superiori quali sono, consegnano all’uomo il giocattolo che gli piace tanto: Marte, la proprietà del pianeta.
L’infantilismo e l’ingenuo materialismo umano avevano fatto sì che appena gli astronauti avevano messo piede sul pianeta rosso pretendessero, cerimonie, fanfare e applausi, perfino le chiavi del pianeta e i marziani prima di estinguersi completamente gliele consegnano. Il momento è epico, non perché suona come una resa del marziano al potere terrestre, come una vittoria della specie terrestre, ma come il padre sfinito che accontenta il figlio capriccioso, o meglio ancora (o peggio, a seconda dei punti di vista) come il padrone stanco che consegna l’osso al cane maleducato che continuava ad abbaiare e sbavare per un premio che non merita. Questo sembra dirci Bradbury: noi avremo anche vinto, ma è una vittoria di Pirro, poiché la vera battaglia va combattuta contro noi stessi, contro la nostra stupidità.
Passano gli anni, i marziani “finalmente” si sono estinti ma anche l’uomo sulla Terra è prossimo all’estinzione, pochi, pochissimi riescono a fuggire, fuggire già ma per dove? Ancora verso quel pianeta, ormai abbandonato dal genere umano, che tanto in passato aveva promesso. Quei pochi, una famiglia, forse due, tornano di nuovo all’utopia, ad Utopia, su Marte. Il pianeta è disabitato, deserto sono solo in quattro (forse cinque), forse arriverà qualcun altro, ma son talmente pochi che non si daranno fastidio, che non riusciranno sottrarsi gli addendi dell’equazione del vivere civile in società, sono gli ultimi sopravvissuti di quella che era stata la Terra, gli ultimi uomini, gli ultimi terrestri, anzi ormai gli ultimi marziani.
E le cronache terminano con questa trasformazione finale che implicitamente porta con se l’incertezza del futuro, il dubbio. Gli uomini sono diventati marziani: significa che finalmente si sono evoluti? Che hanno compiuto il passo successivo verso quel cammino che li porta alla deificazione a cui tanto aspirano? O semplicemente significa che ora Marte è spacciato?
Leggendo le cronache non si coglie al volo tutto il significato del libro, è solo riflettendoci a posteriori che si riesce a comprenderne la sua profondità, ma questo è per via della genialità dell’autore o è l’ennesima riprova di quanto affermava Hermann Hesse quando sosteneva che i libri una volta scritti e pubblicati assumono molti più significati di quanti lo scrittore originariamente aveva concepito, uno diverso almeno per ogni lettore?
Forse entrambe le cose, forse ne l’una ne l’altra, tant’è vero che questo dubbio amletico (anzi Hessiano) non si concretizzerebbe neanche se non fosse per un particolare dettaglio che per certi aspetti, da alcuni, può essere considerato un pregio ma che assolutisticamente io sono propenso a considerare un difetto: lo stile.
Lo stile di Bradbury nelle Cronache, come lui stesso afferma in un dialogo del libro, è una personale rivendicazione di libertà della fantasia contro il realismo letterario imperante negli anni cinquanta, sulla Terra. Bradbury descrive Marte con toni favoleggianti, arricchendolo di paesaggi incantati, creature meravigliose, personaggi idilliaci. Forse il suo intento è quello di creare un forte contrasto con la rovina e la miseria della terra, ma se si forza troppo la mano, non solo si rischia di perdere credibilità, si rischia di perdere anche la misura: se due luoghi sono entrambi pittoreschi o entrambi grigi e asfittici uno può essere più bello dell’altro, uno può essere più brutto, ma se uno è un paradiso e l’altro è un immondezzaio il divario è troppo grande, non possono neppure essere paragonati, e chi vive nell’immondezzaio il più delle volte non aspira al paradiso perché non riesce neppure ad immaginarlo.
E’ questo il problema del romanzo, forse figlio della mentalità dell’epoca, è tutto troppo stereotipato: la Terra fa schifo, i prodotti dell’uomo sono delle aberrazioni che sopravvivono all’uomo stesso, la stupidità del genere umano non ha limiti, mentre Marte con la sua florida natura (prima dell’avvento umano appunto) è perfetto, i marziani sono simbionti con ciò che li circonda e vivono in armonia con il pianeta. Stupendo, ma come potrebbe (se così fosse) “un pover uomo” sepolto dalla sua stessa immondizia anche solo sognare un pianeta così, aspirare ad un livello di vita che rasenta la perfezione? O più pragmaticamente in una società in rovina dove trova i soldi per compiere una migrazione di massa verso un altro pianeta? D’accordo è una favola ma è priva di sfumature. Dove sono le mezze tinte del mondo? I toni di grigio della realtà?
Ah già Bradbury è contro il realismo, dunque deve essere tutto bianco o nero, bene o male.
Può essere che abbia ragione, ma se il libro vuole essere una critica alla società contemporanea deve trarre da essa, dalla sua cruda realtà, appunto dal suo realismo, altrimenti diventa una critica qualunquista, demagogica, come quella dell’uomo ben inserito che va dal barbone in strada e gli dice “datti da fare che così diventi ricco.” Possibile forse, ma alquanto improbabile, fondamentalmente corretto, ma alquanto discutibile.
Facile criticare senza mettersi sullo stesso piano. Nel medesimo modo Bradbury sembra che pontifichi sulle miserie dell’uomo senza mettersi sul suo stesso piano, quasi volesse stimolarci a rispondergli: “facile criticare gli uomini se sei Marziano.”
D’accordo poi l’anti – realismo ma Bradbury eccede in fantasia. Se si narra di un’umanità condannata all’estinzione nel prossimo futuro i toni non possono essere quelli di Biancaneve e i sette nani, i toni devono essere scuri, profeticamente lugubri altrimenti il messaggio perde di efficacia, Philip K. Dick lo sapeva bene quando scrisse “Ma gli androidi sognano pecore elettriche” (e molte altre opere).
Se si vuole criticare la società, e con essa dunque la realtà da lei creata, i toni devono essere realistici, non reali, altrimenti non sarebbe fantascienza, ma realistici; se si vuole parlare di Marte come la nuova frontiera, come il punto di riferimento per la società sofferente, occorre un realismo descrittivo che ne esponga il bene con termini passionali, profondi e il male con termini crudi, dolorosi, ma occorre anche che essi siano indissolubilmente legati l’uno all’altro altrimenti il termine di paragone con la nostra Terra non regge.
Bradbury fa nominare ad un suo personaggio delle Cronache Hemingway come esemplificazione di tutto quello a cui egli stesso si oppone: il realismo.
Per carità ognuno ha diritto alla propria fantasia nella misura che ritiene più opportuna, ognuno può creare la propria scrittura ad immagine di quello che ha dentro, vuoi che sia un meraviglioso ed equilibrato mondo incantato, vuoi un vivida, concreta, poco equilibrata realtà , ma Hemingway su una cosa aveva ragione, cito: “…gli scrittori si forgiano nell’ingiustizia come si forgiano le spade.” Nell’ingiustizia, nelle sofferenze, nel dolore e nell’odore della realtà. Senza un minimo di ingiustizia e di dolore il paradiso marziano è incredibile.
Parlare di realtà usando toni fantastici è un controsenso, sperare di convincere qualcuno di una realtà tanto profetica quanto fittizia usando toni irreali è un’assurda illusione.
No personalmente ritengo che se l’intento di Bradbury scrivendo le Cronache è il medesimo che ha mosso Orwell quando ha scritto 1984 o Huxley quando ha inventato il Coraggioso Nuovo Mondo (come suona male in italiano), se l’intento è il medesimo, ritengo avrebbe dovuto mantenere uno stile più equilibrato e comprensivo, se non di tutti, di almeno di alcuni dei molteplici aspetti della vita e al contempo più cupo e disincantato.
Sempre che questo fosse l’intento di Bradbury; se questo non era, se invece valesse completamente la teoria di Hesse, vero, tutta la mia interpretazione delle Cronache crollerebbe ma il romanzo verrebbe relegato a semplice favola della buona notte.
Dunque ben vengano anche le mie critiche poiché ancora una volta sono la dimostrazione che tutto non è bianco o nero, il libro come la realtà può assumere sfumature di grigio in ogni pagina, in ogni secondo della vita, vuoi appunto per le critiche di un signor nessuno, vuoi per quella scintilla di umana comprensione che lo scrittore, in quanto membro del genere umano, ogni tanto ha per i suoi simili. L’uomo che comprende i valori della vita marziana suona quasi come una redenzione, salvo poi impazzire e sterminare i suoi simili, così come l’uomo che rimasto solo sul pianeta crea automi ad immagine e somiglianza dei suoi cari. Sono redenzioni involontarie, sono le fiammelle tra le ceneri di un’umanità auto combusta, fiammelle sufficienti a illuminare un intero mondo, a redimere l’uomo per il motivo stesso di averle concepite, e redimendolo a contraddire quanto Bradbury afferma prima nel libro.
Lo scrittore che si contraddice, com’è umano, così umano da risollevare tutta la sorte della specie che lui critica, peccato non sembri rendersene conto.
Infine, come è vero che non tutto il male vien per nuocere, così tutto il libro non è da scartare, anzi certi passaggi, vedi gli ultimi due o tre capitoli, sono degni di rimanere per sempre nella storia della letteratura per epicità e involontaria umanità. E se dovessi dare un giudizio finale all’opera potrei solo dire che non è un capolavoro ma non è neppure un pessimo libro: è un buon libro con aspetti positivi e altri negativi, che creano uno sfumato e contradditorio insieme esemplificazione di quella che è la molteplicità di sfaccettature della mente umana… peccato solo che Bradbury non si accorga di contemplarla.
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Un pianeta di sogni
Se dico RAY BRADBURY, due titoli saltano subito alla mente: “Fahrenheit 451” e “Cronache marziane”. Questo scrittore statunitense, grande esploratore del fantastico, per molto tempo è stato a torto relegato nei ristretti confini dello scrittore di fantascienza. Niente di più errato. Non che Bradbury non abbia parlato di viaggi spaziali, alieni e pianeti da colonizzare…tutt’altro!
La differenza sta nel fatto che uno scrittore di fantascienza si divertirà a riempirci la testa di dettagli tecnici, nozioni scientifiche, curiosità antropologiche, biologiche e chimiche che diano credibilità a quanto narrato. Bradbury non è uno scrittore di questo tipo. C’è il razzo, ci sono gli astronauti, ci sono gli alieni: tanto basta. L’importante, per quest’uomo, è la storia in sé. E’ la fiaba che si nasconde dietro ogni cambiamento, ogni nuova scoperta.
Gran parte degli affezionati lettori di fantascienza (come di tutti gli altri “generi puri”) tende a essere molto fiscale nel catalogare cosa rientra nella categoria e cosa no. “Cronache marziane” è un capolavoro di fantasia e poesia, più che di fantascienza. La mancanza di sostrato scientifico nella prosa di Bradbury dimostra che creare futuri plausibili non era il suo scopo. Allo stesso tempo, la sua lucida analisi dell’atteggiamento colonialistico umano – soprattutto statunitense, in questo caso- non si discosta affatto dalla realtà, anzi la mette in luce con sconcertante preveggenza (ricordiamo che “Cronache marziane” ha visto la luce negli anni ’50).
Il romanzo, in verità una raccolta di racconti legati tra loro come perle di una collana, apre brevi e vivide finestre su sogni e incubi di sconcertante bellezza, cercando di stimolare nel lettore uno spunto alla riflessione, all’introspezione di sé e dei difetti congeniti dell’Uomo. Una storia di distruzione e disperazione, ma anche di fede.
“Cronache marziane” narra le vicissitudini del pianeta Marte dal 1999 al 2026, secondo il conteggio degli anni sulla Terra. Il quarto pianeta del Sistema Solare non è un globo rosso e morto, in attesa di nuovi colonizzatori, ma un mondo abitato, ricco di una sua civiltà peculiare.
Questa civiltà, più stratificata e antica di quanto facciano pensare i primi racconti, viene dapprima solo vagamente sfiorata dai primi pionieri dello Spazio mandati in avanscoperta (quasi tutti i visitatori terrestri vanno incontro, in un modo o nell’altro, a una brutta fine), ma a conti fatti non riesce a sfuggire alla totale devastazione che l’Uomo porta con sé. Nel caso specifico, è una normalissima malattia terrestre a falcidiare la popolazione marziana.
Comincia così la colonizzazione di un pianeta morto, su cui si aggirano ancora i fantasmi di un’epoca che fu. Marte accoglie l’Uomo senza pensarne né bene né male, mentre sulla Terra la gente alza con speranza gli occhi al cielo nel tentativo di allontanarsi da una società sempre più contaminata dalla violenza (rappresentata dall’incubo dell’atomica, in quei vertiginosi anni di tensione seguiti alla Seconda Guerra Mondiale, e dal razzismo imperante).
Nella lotta continua tra il Materialismo e il Sogno, si consuma l’epopea marziana, con un finale dolceamaro.
La scrittura di Bradbury non è per tutti i palati. La sua prosa è sognante, immaginifica, a tratti ridondante e barocca come un testo di Oscar Wilde. La definizione che meglio si adatta alla scrittura di Bradbury è “pittorica”. Divagando spesso dalla linea continua della trama, lo scrittore usa la parola per dipingere nell’immaginazione del lettore quadri surreali come un’opera di Dalì, estranianti come un Tanguy, delicati come un Lee. Chi è abituato alla prosa diretta e spesso scarna degli ultimi vent’anni, potrebbe trovare la lettura di “Cronache marziane” ridondante, complicata, ma è una semplice questione di abitudine. Chi ha già sviluppato un forte legame con le arti visive, invece, non potrà far altro che amarlo fin da subito. E’ il romanzo su cui ogni illustratore vorrebbe avere l’onore di poter lavorare.
Leggetelo con calma, assaporando ogni racconto come fossero assaggi della cucina di un grande chef. Non ve ne pentirete.
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Capolavoro della fantascienza
Ci troviamo sicuramente di fronte ad uno dei 4-5 grandi capolavori della fantascienza e della letteratura del '900. Un libro che sarebbe riduttivo classificarlo nel genere della "fantascienza" perchè è molto di più: è romanzo d'avventura, è una "favola per adulti", una riflessione sincera e spietata sul modo di vivere nostro e sul modo di rapportarci con l'altro, con l'alieno che vogliamo a tutti i costi distruggere.
Il testo racchiude alcuni racconti brevi che descrivono l'invasione e la successiva colonizzazione da parte dei terrestri del pianeta Marte, dove gli umani incontreranno una razza aliena molto più evoluta, colta, civile e sensibile di loro. I marziani tenteranno una vana resistenza all'invasione aggressiva e anche un po' cialtrona degli umani ma alla fine dovranno soccombere per colpa dei virus portati dalla Terra, troppo forti per i loro sistemi immunitari.
Dopo poche pagine il lettore è portato quasi naturalmente a fare "il tifo" per i marziani contro l'invasore venuto dalla Terra.
I marziani, dicevo poc'anzi, sono creature meravigliose, dotati di una profonda spiritualità e di un modo di vedere le cose molto meno superficiale del nostro. Appena muoiono, il loro corpo scompare, e rimane solo il loro spirito che si unisce alla natura di Marte.
I terrestri, d'altro canto, sono talmente ignoranti e insensibili che alla fine, nella loro foga di dominio e consumo, arrivano a distruggere la Terra, loro pianeta natio, con un'assurda guerra atomica e Marte, uccidendo tutte le forme di vita presenti nel pianeta rosso.
Chi avrà letto Edgar Allan Poe, si sentirà come a casa, per le frequenti citazioni e riferimenti fatti da Bradbury.
Appena uscito, il romanzo fu visto come un'allegoria della conquista del West, quando i rozzi e bifolchi americani, dotati di armi più potenti e di una maggiore popolazione, distrussero e confinarono nelle riserve i Nativi, che cercavano strenuamente di difendere il loro modo di vita, la loro natura, i loro costumi, la loro spiritualià...
Leggetelo assolutamente!
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Poetico
L'ABC della fantascienza è costituito da Asimov,Bradbury,Clarke, di cui il secondo è quello più poetico; non a caso cita spesso nei suoi racconti Edgar Alan Poe. La parola fantascienza è costituita da due termini: fantasia e scienza; ma per Bradbury, forse, questo termine non è completo. In Asimov troviamo uno stile scientifico, alla Doyle, in cui il racconto è un perfetto meccanismo che stimola il ragionamento, la logica. La fantasia si applica alla tecnologia supersviluppata del futuro.
In Clarke si prova a volare con la fantasia in tempi talmente lontani dal nostro da essere forse improbabili, ma anche piacevoli per le domande che ti lasciano.
In Bradbury i racconti sono carichi di suggestioni di poesia cupa, che si insinua nelle crepe dell'umana imperfezione, svegliando paure ancestrali ben nascoste nel subconscio.
I terrestri che popolano questo romanzo sono l'archetipo dell'americano medio degli anni '40, tradizionalista, discendente dei pionieri del vecchio west, razzista e bigotto. Poi ci sono i marziani, che non sono mostri orribili con teste enormi e tentacoli elettrificati, ma sono esseri umanoidi, che però vivono in civiltà molto più evolute della nostra. Per evoluzione non si intende tecnologia, ma civiltà nel senso più nobile del termine. Particolarmente bello è il racconto in cui un padre missionario cerca di contattare dei marziani per liberarli dal peccato, ed invece ne riceve insegnamento, scoprendo che essi vivono già in uno stato di beatitudine divina.
Molto bello