Confessioni di un artista di merda
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La stoffa del buon marito
Può succedere, anche se di rado, che un romanzo rifletta in modo distorto ma illuminante (un po’ come lo “spostamento” onirico di cui scriveva Freud) un periodo significativo della vita di chi l’ha scritto, gettando coni di luce premonitori e imbarazzanti sulle vicende vissute durante la stesura. Capita che il gioco di ritrovare le persone nei personaggi non sia del tutto sterile, soprattutto se oltre alle scelte pratiche e affettive dell’autore, nel gioco di specchi compaiono anche quelle stilistiche e narrative.
Il Nostro ha scritto questo romanzo con la precisa intenzione di abbandonare la fantascienza, genere considerato adeguato soltanto alla frivolezza degli adolescenti e a qualche adulto dai gusti eccentrici. Anche l’obiettivo da raggiungere era chiaro: entrare nel territorio più riconosciuto della narrativa generale. Contemporaneamente, aveva appena lasciato una giovane moglie per una donna più matura, un vedova con due bambine e un carattere tanto volitivo quanto inquietante, che presumibilmente lo aveva puntato, scelto e conquistato perché “aveva la stoffa del buon marito”; esattamente come uno dei protagonisti. Ed era tormentato da sensi di colpa e dubbi e paure; esattamente come uno dei protagonisti.
Nella vita, i dubbi si sono dimostrati profetici. Nella finzione, hanno prodotto una scrittura asciutta, che trascina e coinvolge e sconvolge per la crudezza con cui il Nostro mette in scena, utilizzando più voci narranti e quindi offrendoci una prospettiva molto ampia, i mostri umani e ideologici dell’epoca, i lati tragicomici degli stereotipi sessuali, i demoni che agitavano le coscienze di allora. E quelle di oggi.
Philip K. Dick tornerà presto alla fantascienza, che del resto rimane presente, travestita ma perfettamente riconoscibile, anche in questo splendido romanzo di narrativa generale, che profuma di noir.
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Immedesimazione e astrazione
Si dice che in certi romanzi, nei loro protagonisti, ci si riesca ad immedesimare talmente bene che sembra di condividere i loro problemi, provare le loro sensazioni, vivere le loro emozioni. Non ci ho mai creduto, non mi è mai capitato. Per me il romanzo deve essere una via di fuga, una scappatoia dalla monotonia quotidiana, ma pur sempre con un occhio alla realtà in modo tale che sia sempre in grado di apprezzare totalmente uno scritto e al contempo di riporlo sul comodino quando sono stanco. Riflettiamoci su: è stupendo leggere di avventure estreme, azioni eroiche (stiamo appunto parlando di romanzi) e gesta epiche, ma quanti vorrebbero realmente trovarsi al posto dei protagonisti? E’ stupendo leggere (considerando una narrativa più dotta) dei problemi sociali di certe subculture o delle avversità quotidiane che diventano spunto di introspezione filosofica, ma quanti realmente vorrebbero essere gli angosciati creatori delle impalcature cerebrali che spesso si autoalimentano per quella sorta di algofilia letteraria con cui gli autori tendono ad auto escludersi dalla realtà e dai problemi quotidiani da cui traggono spunto? O ancora, per tornare ad un ambito più consono all’autore di questo romanzo, quanti vorrebbero realmente essere i testimoni di una società in rovina la cui sublimazione è la creazione di uomini artificiali più autentici ed umani di quelli veri? Quanti vorrebbero scoprirsi disumani? No, non mi è mai capitato di immedesimarmi nel protagonista di un romanzo e ritengo anche che oltre certi limiti sia impossibile per chiunque. Però mi è capitato il contrario, l’esatto opposto: la disimmedesimazione (ma non credo che esista il termine), la astrazione come forma di repulsione da quanto viene scritto, da quanto viene raccontato.
Confessioni di un’artista di merda per me rappresenta la totale astrazione, la completa separazione dalla vicenda, poiché inaccettabile, ingiusta, irrazionale. Eppure stupendamente snervante, angosciantemente quotidiana, straniante nella sua normalità. E a rischio di contraddirmi, coinvolgente nella sua estraneità.
Il libro è il racconto da più punti di vista di una vicenda del tutto normale, banale si potrebbe dire. Sì parla di disturbi sociali, problemi di coppia, ansia da insuccesso, nevrosi, tradimenti, violenza domestica. Problemi appunto, magari non esattamente condivisi da tutti ma che perlomeno rientrano in quell’ordine logico e sociale che è la vicenda dell’umano vivere.
E dove sta allora l’inaccettabile, eppur affascinante, ingiusta irrazionalità?
Proprio nei punti di vista, nelle tre – quattro voci narranti che si alternano alla guida del romanzo. Sono i protagonisti stessi di questa vicenda di quotidiana follia a raccontare la storia, a descrivercela secondo la loro opinione, a farcela osservare coi loro occhi. Sono loro, quei tre o quattro…e neanche uno è normale, neanche uno è sano, giusto, razionale: c’è l’uomo materiale creato dal denaro e che d’altro non si cura, che ha talmente poca profondità culturale da non riuscire ad esprimersi, da non poter dare sfogo alla propria rabbia se non con la violenza fisica; c’è la donna spregiudicata, immatura, possessiva ed egoista, che non guarda in faccia nessuno pur di ottenere ciò che vuole; c’è l’intellettuale ben pensante e finto innocente che non riesce a resistere ai vizi della propria natura e non volendo rendersene conto crea dei castelli in aria e delle ridicole immagini riflesse di se stesso per soprassedere alla sua misera condizione; c’è la ragazza innocente, vulnerabile, talmente debole che accetta il destino senza neppure illuderci di potersi opporre ed infine c’è lo svitato, l’artista del titolo, il più pazzo, schizofrenico, nevrotico di tutti, talmente odioso da risultare simpatico. Non se ne salva nessuno, ogni singolo personaggio è l’estremizzazione dei problemi e delle angosce quotidiane.
La vicenda è normale i protagonisti no e con la loro pazzia ci portano a detestare tutto il loro mondo. I protagonisti sono odiosi, le loro stesse voci sono odiose, è impossibile non provare repulsione per anche uno solo di loro, eppure sono così attraenti. Perché? Cos’è questa comunione di sentimenti che ci lega e al contempo astrae dai protagonisti? Che ci fa repellere la loro società e al contempo ci affascina?
E’ un riflesso, tutto ciò che proviamo nei loro confronti non è altro che un riflesso, un’immagine speculare: i loro non sono problemi campati in aria, non sono problemi inventati, non sono androidi che sognano pecore elettriche, sono problemi reali, quotidiani, sono i nostri problemi, le nostre vicissitudini. I protagonisti per quanto descritti con deliziosa ironia non sono macchiette abbozzate prive di personalità, non sono stereotipate caricature della cosa reale, loro sono esattamente come noi: noi lettori, noi tutti. Loro, gli odiosi personaggi, sono parte di quello che siamo, di quello che potremmo essere e di quello a cui inconsciamente aspiriamo, quello in definitiva di cui saremmo e siamo capaci in un determinato ambito sociale. E Philip K. Dick con questo libro sembra che c’è lo urli in faccia, è inutile che ci illudiamo come il suo intellettuale ben pensante, sotto sotto lo sappiamo già: noi siamo i suoi protagonisti. Noi siamo gli “artisti” del titolo e la nostra repulsione per la loro vicenda è tale solo perché in essa riscontriamo le nostre, ci riconosciamo in loro e non vogliamo ammetterlo.
C’è una redenzione? (E per noi?)
Forse, ma secondo Dick, solo per il più svitato, il meno desiderato, quello additato da tutti come anormale, poiché lui almeno, rispetto agli altri, è autentico, vero: nella sua pazzia è se stesso, mentre gli altri nella loro finta normalità sono solo ombre dell’ego dietro i paraventi della vanità.
Anche se biograficamente e bibliograficamente questo libro è più che altro una piccata risposta nei confronti di tutti quelli che sostenevano che Dick fosse buono solo a scrivere di marziani e robot, sarebbe affascinante e romantico considerarlo come la base, la rampa di lancio di tutta la sua letteratura: l’uomo, come lo vede l’autore, l’essere umano è una delusione, la società che ha creato è una delusione, è finta come finti sono i suoi protagonisti, inaccettabile; per provi rimedio non c’è altro da fare che cercare altre società a cui ispirarsi, magari su altri pianeti, non c’è altro da fare che sperare che il tempo rimedi alla odierna stupidità con l’evoluzione, magari l’uomo del futuro…, non c’è altro da fare che trarre dalla finzione umana e crearne una ancora più fittizia, talmente assurda da oltrepassare la soglia del comprensibile, del riconoscibile, finché questa nuova realtà potrà mescolarsi indisturbata alla nostra e mondarla dai difetti. Sì, sarebbe bello considerare questo libro come il punto di partenza di tutta la narrativa fantascientifica Dickiana, ma così non è e pertanto le Confessioni restano solo come una voce fuori dal coro, come un esempio isolato di narrazione, ispiratamente realistica, di un mondo di sconfitti la cui unica abilità è quella di crearsi un opaco involucro che li protegga dalla coscienza della propria miseria …ah quanto sarebbe bello vedere questi illusi poveracci alle prese coi replicanti, con gli automi, specchio delle disgrazie dei propri creatori!
Stilisticamente non si può dire che quella di Confessioni di un artista di merda sia una narrativa molto impegnata o impegnativa, come tutti i libri di Dick anche questo, pur trattando di temi profondi mantiene un tono semplice, pulito, alla portata di tutti.
Il suo stile mi è sempre parso come l’anello di congiunzione tra il circonvoluto lungo periodare del romanticismo introspettivo russo (o nord europeo) e la semplice ingenuità moderna del fraseggio commerciale. E del resto è quello che si può dire anche delle Confessioni: è l’anello di congiunzione tra due mondi distinti, due narrative; concetti profondi esposti in maniera semplice ed elegante.
Insomma, per concludere Confessioni di un artista di merda si può sì definire come letteratura ad uso e consumo delle masse, ma non per intrattenerle sotto l’ombrellone, per farle riflettere nella flebile luce di un’insperata presa di coscienza globale.
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Confessioni di un genio…
Sipario:
Un fratello, una sorella, un cognato, una coppia di giovani sposi sono i protagonisti che si muovono e dialogano un pò come maschere che si articolano e si comportano in seno alle proprie necessità e anche quando non conoscono le motivazioni di base che li spingono a prendere certe decisioni e assumere determinati comportamenti nascono situazioni e dialoghi manipolatori di insana emotività.
Pensate che tutto nasce dalla lite tra marito e moglie, dopo che Fay chiede a Charlie di comprare dei tampax, lui esegue con malcontento e da questo episodio che ingenuamente si scatena una crisi di coppia senza precedenti.
Pura follia? No…genialità!
Standing ovation per uno degli scrittori più straordinari del panorama letterario del dopoguerra. Il Philip K. Dick di Blade Runner, il Philip Dick di Ubik degli Ufo e della fantafiction più elegante ed esilarante mai raccontata si imbatte con questo “quasi” memoriale di eccelsa creatività, niente di più originale e reale introspezione di vita terrena genuina e pura. E’ il primo romanzo non di fantascienza, si tratta di un romanzo “mainstream” scritto nel 1959 da un Dick già affermato scrittore di fantascienza di successo. Siamo negli anni 50 e l’interesse per altri mondi e vite ultraterrene sono argomenti che interessano e mietono successi e allora tutti con gli occhi rivolti verso il cielo in cerca di una navicella o un disco volante.
“E’ più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago che per uno scrittore di fantascienza essere accettato come autore serio quando non scrive fantascienza” (cit. Paul Williams)
Stati d’animo e vite vissute messe al setaccio, spremute e fatte a pezzi, dove ogni minimo dettaglio umoristico della spaventosa vanità delle menti viene esposto impietosamente attraverso il talento di un Philip K. Dick visionario che si materializza attraverso tre elementi essenziali: il senso dell’orrore, il senso dell’umorismo e la capacità nel creare personaggi credibili e sensibili. La dolorosa consapevolezza che il mondo attorno a noi è crudele e pazzo fa si che l’umorismo faccia terra bruciata e non stempera l’orrore tra gli uomini, che a furia di torturarsi tra loro non riescono a fare mai quello che sarebbe meglio tanto per se stessi quanto per coloro che li circondano.
Ma chi è l’artista in questione? Fuorviante il titolo, ma sicuramente lungimirante nella sua essenza. L’artista di merda è un “idiota”, lontano dalla concezione di Dolstoevskij, è un povero illuso dotato dell’idiozia molto vicina alla nostra normalità da spaventarci. L’artista è Jack Isidore, l’alter ego di Philipe K. Dick, uno schizzoide privo di buon senso, che con la mente viaggia nello spazio e ha stabilito nel suo deliro il giorno della fine del mondo, un uomo che vive di fantasie, un uomo ai margini, che comunque alla fine si dimostra realistico compatibilmente genuino se rapportato alla sua coscienza, perché riuscirà a sopravvivere e adattarsi appena si renderà conto di aver sbagliato che il mondo non finirà i suoi giorni e tuttavia la morte rimane un sintomo dell’anarchia e dell’annientamento dei sentimenti.
Non siamo di fronte a paccottiglia scritta a caso, dopo quasi un secolo nei rapporti interpersonali non è cambiato nulla: l’inezia della quotidianità, l’incomunicabilità, le violenze a più livelli.
Mettetevi nei “vostri”panni e cominciate a meditare seriamente quello che pensate senza pregiudizi e senza condizionamenti….cominciate a vedere contraddizioni? Ecco questo è l’artista….
“Del resto non è questo lo schema classico di rapporto uomo-donna? La donna prevale, con l’astuzia, senza che l’uomo se ne accorga.”