Troilo e Cressida
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DI un cornuto e una puttana
Trascurata e negletta opera shakespeariana, il Troilo e Cressida fa la sua comparsa nel 1601, appena dopo l’Amleto. Il perché questo dramma abbia riscontrato poco successo è presto detto: l’azione è scarna, pretestuosa, del tutto inutile, il testo è verboso, martellante, del tutto pleonastico. Eppure questo Troilo così sfinito e sfibrato, inconsistente e leggero, ha molto da insegnare sul teatro di Shakespeare e sugli albori del teatro moderno. Innanzitutto il Troilo non è propriamente una commedia, perché tutto è marcio, oscuro, fangoso, ricatto e sopraffazione e d’altro canto non è nemmeno una tragedia, perché nessun personaggio ha il giusto calibro per reggere il tragico. In fondo tutto non è che parodia: parodia dell’Iliade e dei modelli della letteratura, parodia delle sue opere precedenti, degli abissi di Amleto e dell’amore di Romeo e Giulietta e alla fine parodia del teatro stesso. Perché Shakespeare non fa null’altro che portare l’estremo la commedia e, nel farlo, la svuota di senso. Ogni discorso, ogni parola, ogni frase si libra come una bolla di sapone ed esplode senza rumore nel mare dell’indifferenza. La guerra di Troia, la guerra che “infiniti dolori indusse agli Achei” è null’altro che una questione che gira “intorno a un cornuto e una puttana” e davvero nessuno dei personaggi si salva dalla catastrofe. Quello che Shakespeare scopre è “lo strappo nel cielo di carta”, il crepuscolo degli idoli e il funerale della morale, perché in guerra, così come nel mondo moderno, è l’etica la prima a saltare. La Londra del ‘600 appare, trasfigurata, nelle pieghe fangose di una realtà barocca, ingannevole, illusoria, dove l’uomo deve districarsi nei labirinti fisici e metafisici della perdizione. E detta altrimenti, è la scoperta di un mondo ariostesco, orizzontale, in cui, come ci avverte Ulisse, il degree, l’ordine, è definitivamente away, lontano. Perduta la verticalità gerarchica del medioevo, perduto il discrimine, la distinction, fra giusto e sbagliato, tutto è perduto. Bulgakov, nel suo maestro e Margherita, recupererà il tema e affermerà che “un ordine deve per forza esserci”.
E a tessere questo labirinto etico si erge la parola, melliflua, leggera, seducente ed eversiva. Perché Shakespeare conosce il potere della parola, i lacci e le ombre che essa sa costruire perché in fondo il teatro null’altro è che potere della parola. E in questo senso ogni personaggio perde se stesso nei propri discorsi, afferma, nega, si contraddice, perché nessuno ha il timone, perché una mente semplice può non farcela a districarsi nel rococò spasmodico delle cose. E allora, estremo simbolo di questo universo capovolto e moderno, di questa classicità distorta dal nuovo, appare l’amore, corroso, infangato, cirrotico. L’amore di Troilo per Cressida e di Cressida per Troilo, l’unico fiore che sembra nascere sulla cenere del mondo. Eppure quando Cressida viene ceduta ai Greci e capisce che null’altro potrà fare se non la schiava, flirta e si cede a Diomede. E Troilo, che assiste alla scena, ci vede “doppio”. Bifold dice Shakespeare, piegato due volte, Troilo vede due Cressida, ma perché in effetti due sono le donne: la Cressida che lo ama e la Cressida che ama Diomede, perché in guerra il brutto è bello, il bello è brutto e perché in fondo, in una straordinaria anticipazione dei tempi, nessuna persona è davvero unica. Detto altrimenti, Troilo scopre che uno più uno non fa due e che anzi, il più della volte, fa zero. Non resta nulla dell’amore decantato, della morale, degli ideali perché tutto è umano, troppo umano per reggere la nobiltà del dramma. E quando si chiude il sipario, non è il corpo di Ettore trascinato dai cavalli a comparire, ma il vile Pandaro, servo di Troilo, a lamentarsi dei reumatismi. Perché in questo enorme Satyricon, non c’è spazio per nessuna redenzione.