Riccardo III
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Il trono di sangue
Il duca di Gloucester (in seguito Re Riccardo III) è senza alcun dubbio il personaggio più sanguinario della produzione shakespeariana. O almeno, di quella che ho analizzato finora.
Subdolo come Iago in "Otello", egli è un uomo capace di eliminare senza remore tutto (e tutti) ciò che si frappone tra sé e il suo obiettivo: il trono.
Tutto, in quest’opera, ruota intorno a colui che le presta il nome, il quale giustifica le sue cruente azioni attribuendole al suo mostruoso aspetto, all’inclemenza della natura che non gli ha concesso un’esteriorità apprezzabile impedendogli di condurre una vita normale e, dunque, di sviluppare un animo buono.
La decisione di cominciare ad agire in armonia con la propria bruttezza, dunque, è la premessa che da inizio al “Riccardo III”, considerata una delle tragedie più forti del Bardo.
Per quanto mi riguarda, nonostante i picchi poetici che riesce a raggiungere in certi tratti, essa non arriva alle altezze raggiunte da altre opere come "Amleto”, o anche "Macbeth" e "Otello”. Questo perché, mentre in altre opere buona parte dei personaggi ha qualcosa da dire e uno spessore apprezzabile, qui quello che spicca su tutti è solo il protagonista. Certo, la sua maestosa e inquietante figura non può che oscurare un po' tutti gli altri, ma ho avuto comunque l’impressione che i suoi comprimari (a parte pochissime eccezioni come Buckingham) fossero di per sé stessi un po’ deboli. Basta prendere in considerazione i personaggi femminili che per mano di Riccardo hanno subìto sofferenze e ingiustizie imperdonabili: nonostante i gravissimi torti subiti, dopo doverose ma fin troppo brevi resistenze finiscono tutte per cedere al fascino delle parole e dei motivi del duca.
Nonostante non sia la coerenza narrativa quel che più ci interessa in un’opera shakespeariana, in questa tragedia più che in altre si nota qualche forzatura di troppo che toglie potenza ai versi. Nessuno nutre dubbi sulle malefatte del duca di Gloucester né tantomeno lui si preoccupa di negarle a lungo, ma questi orrendi crimini che toccano persone molto care ai diretti interessanti vengono ben presto accantonate, come non fossero abbastanza gravi da rifiutargli concessioni anche importanti. Giusto per fare un esempio e sempre soffermandoci sui personaggi femminili, Anne concede la propria mano all’assassino del proprio marito, mentre accompagna la bara di quest'ultimo verso la sepoltura: mai vedovanza fu così breve. Nondimeno, la regina offre la mano di sua figlia all’assassino dei suoi bambini, consapevole anche che quell’uomo è oltretutto responsabile della morte della sua precedente consorte: Anne.
Fatte queste considerazioni, come ogni opera letteraria anche “Riccardo III” va contestualizzato e in parte giustificato, perché certe licenze vengono concesse per permettergli di esprimere la propria poetica e il proprio messaggio nel migliore dei modi. Ai miei occhi tuttavia, queste scelte hanno finito per mettere questa tragedia un gradino sotto alle altre citate sopra, che restano salde sul trono a dispetto dell’usurpatore Riccardo, che avrà anche spodestato il Re, ma non scalza gli altri capolavori creati dal grandissimo William Shakespeare.
"Andate, signori! Ognuno al suo posto. I vani bisbigli dei sogni non atterriscano le nostre anime. La coscienza è una parola usata dai vili, inventata per impaurire i forti. Le nostre braccia potenti siano la nostra coscienza, le spade la nostra legge. Avanti: combattiamo con coraggio, buttiamoci nella mischia; se non saremo adatti per il cielo allora, tenendoci per mano, andremo all'inferno."
Determinato a dimostrarmi cattivo
Composto tra 1590 e 1593, il Riccardo III riprende e rielabora la leggenda nera del re inglese. Il dramma è dominato in lungo e in largo dalla figura del protagonista, che nella sua vocazione istrionica sembra anticipare Amleto. Particolarmente importanti dal punto di vista drammaturgico sono i suoi monologhi e le sue battute “a parte”: quando è solo in scena col pubblico, Riccardo mostra la sua vera natura, dichiara esplicitamente i suoi intenti ed esplica il suo piano d’azione, mostrando di tenere perfettamente in mano le redini della situazione fino alla parte finale, quando i suoi monologhi tendono a diminuire fino all’esplosione della coscienza dopo l’apparizione degli spettri. In questo modo Riccardo stabilisce un rapporto privilegiato col pubblico, sempre informato di ciò che accadrà e dunque in grado di cogliere la capacità di dissimulazione del protagonista quando è in scena con gli altri personaggi; egli sfrutta il suo istrionismo, creando così empatia, attirandosi le simpatie degli spettatori, la cui iniziale comprensione per un uomo condannato dalla perfida natura viene messa gradualmente in crisi dall’accumularsi dei delitti.
Riccardo presenta sé stesso fin da subito come un villain, categoria tipica dei morality plays medievali, e richiama nel dramma la figura allegorica del Vizio, l’Iniquità, caratterizzata da ambiguità di linguaggio. La sua scelta di compiere il male senza badare alla coscienza, considerata un elemento che paralizza l’azione e la giustificazione dei codardi, è presentata come una scelta obbligata, l’unica concessagli dalla natura: il villain Riccardo è una piatta incarnazione del male, monolitica, ancora lontana dalla compiutezza tragica di villains come Iago e Edmund, che compiranno il male per il male, con fredda e geniale intelligenza. Riccardo è piuttosto rappresentato come un mostro perverso, che si compiace del male compiuto, che ammira sé stesso e la sua ombra: la sua dimensione umana, esclusa dall’isolamento volontariamente scelto al fine di conquistare la corona, emerge solo nella scena della notte precedente la battaglia finale, quando Riccardo è per la prima volta preso dalla paura di sé, dal senso di colpa, mostrando crepe nella sua sicurezza finora inscalfibile: Riccardo riconosce di esser solo e che questa è stata la sua rovina, egli è un outsider come lo sarà Shylock.
Come si era già visto nelle parti precedenti della tetralogia, Riccardo è dominato dal desiderio di potere: a differenza di quanto accadrà col tragico Macbeth e con la sua travagliata coscienza, tuttavia, egli non ha la minima esitazione ad eliminare chiunque gli sia d’ostacolo, pianifica nei minimi dettagli con maniacale vitalismo e trionfalismo ogni passo da compiere per conseguire il suo obiettivo. La crudeltà delle sue azioni è sottolineata dalle riflessioni di personaggi secondari (i ruoli meditativi sono spessi affidati da Shakespeare a personaggi di questo tipo) come i sicari di Clarence o dei principini: anche loro sono presi dai sensi di colpa o dalla pietà, sentimenti del tutto sconosciuti al freddo Riccardo, che sembra solo intenzionato a vendicarsi della natura e dell’odio che tutti nutrono nei suoi confronti. Inoltre, a differenza dell’ascesa al potere violenta di Macbeth, l’ascesa al potere di Riccardo è per elezione: il drammaturgo infatti sembra voler concentrare la riflessione non solo sulle colpe dell’empio protagonista, ma anche su quelle di tutti coloro che non sono stati in grado o non hanno voluto ostacolarlo, per paura, ingenuità, interesse, cecità o compiacimento del male. I nobili tramano contro di lui o sfruttano la sua forza, ma non sono capaci di cogliere il pericolo; lady Anne si fa ingenuamente convincere dal suo corteggiamento serrato; i sicari e i suoi alleati eseguono i suoi ordini senza la minima discussione o esitazione; i cittadini sono paralizzati dal timore e non agiscono, a stento compaiono in scena. Gli unici in grado di tener testa a Riccardo sono i principini, che smascherano le sue intenzioni ma vengono presto eliminati, e le donne, la cui forza risiede nelle capacità del linguaggio e delle maledizioni: emblematica la figura di Margherita che, attraversando tutta la tetralogia, diventa la voce della coscienza storica, le cui maledizioni sono previsioni storiche più che oblique profezie (come saranno quelle delle Streghe in Macbeth).
La conquista della corona rappresenta il momento spartiacque del dramma: Riccardo è preso da un’ansia maniacale di rinsaldare il suo potere e la sua escalation di delitti non si può più fermare, il limite del sangue è stato ormai superato (lo dirà, anticipatamente, anche Macbeth). Ciò conduce con ritmo incalzante all’irrimediabile rovina, cui Riccardo va incontro fedele al suo coraggio, per mano di Richmond, che giunge provvidenzialmente a ristabilire la pace del regno: la ricomposizione finale dell’ordine minato da crimini è una necessità nel teatro shakespeariano e qui si combina anche con la necessità di celebrare la regina Elisabetta I, discendente del neoincoronato Enrico VII.
La fine di Riccardo lo eleva, in ultima analisi, al rango di eroe tragico, sebbene egli sia ancora imperfetto e non del tutto compiuto nella sua modernità: il sussistere di tratti comico-grotteschi e i vincoli imposti dall’immodificabile andamento della Storia, comunque, non impediscono di scorgere in lui, seppur in forma ancora embrionale, alcuni degli elementi che caratterizzeranno i grandi eroi tragici della produzione matura di Shakespeare.
Per ovvi motivi il linguaggio assume in questo dramma un’importanza fondamentale: esso è lo strumento d’azione di Riccardo, che nelle parole evidenzia la sua ambiguità, la sua capacità di dissimulare, il suo essere regista dell’azione per i suoi piani e attore tragico in prima persona, raggiungendo il culmine nella scena della recita col sindaco; le parole sono inoltre l’unica arma in mano alle donne del dramma che, non potendo partecipare attivamente alle lotte di un mondo di violenza e appetiti, traggono la loro forza dalle loro maledizioni, dai loro sfoghi di dolore e di desiderio di vendetta, dalle loro trame alle spalle dell’odiato Riccardo. L’analisi linguistica dunque rivela molto sui personaggi di questo dramma e sulle loro caratteristiche, seppur non ancora non perfettamente definite in maniera individuale come accadrà nelle opere mature, ad eccezione ovviamente del protagonista, che domina l’azione e i dialoghi anche quando non è in scena. In particolare, importanti sono la ricca aggettivazione e il ricorrente uso dei simboli e dei paragoni animaleschi, tutti atti a suggerire la mostruosità infernale di Riccardo. L’ambiguità si può rintracciare, inoltre, anche nelle indicazioni temporali: nelle poche volte in cui si fa riferimento all’ora, infatti, spesso si tratta di un orario a cavallo tra notte e giorno, un’opposizione che, come quella tra luce ed ombra, torna a più riprese in questo dramma e prelude a quella che successivamente sarà sviluppata come contrasto tra essere ed apparire.