Racconti di Pietroburgo
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Bassezze e splendori di Pietroburgo
Gogol’ arriva a Pietroburgo proveniendo dalla Russia rurale, dall’ambiente borghese di provincia e si trova improvvisamente catapultato nella rutilante atmosfera della nuova capitale dell’impero russo. Pietroburgo agli occhi dello scrittore appare una città in perenne movimento, nella quale convivono due anime: quella dinamica, opulenta, in cui si respira la voglia di vivere, di divertirsi, di farsi notare camminando per strada con abiti alla moda, e quella burocratica, nella quale gli individui sono chiusi nei loro uffici governativi ed in cui l’ordine gerachico, la divisione in classi sociali è rigidamente istituzionalizzata. Partendo da tali presupposti nascono questi racconti pietroburghesi, piccoli gioielli che svelano la visione gogoliana della vita cittadina nei quali l’autore, con il ricorso ad una forte ironia ed non perde occasione per sottolineare i difetti della capitale.
A partire dal primo, “La prospettiva Nevskij”, la principale arteria cittadina ed “Unico svago di una Pietroburgo così povera di luoghi di passeggio!” ma molto attenta all’ostentazione ed all’abbordaggio, da parte degli uomini, di bellezze femminili all’ultima moda che passeggiano indossando “vitini di vespa quali non avete mai neppure sognato”.
Ma i veri piccoli capolavori di questa raccolta sono probabilmente visibili nel racconto “Il ritratto”, nel quale Gogol non perde occasione per parlare dell’ossessione cittadina per il denaro, attraverso la rappresentazione di un quadro maledetto, che sembra garantire ricchezza al suo possessore minandone però l’anima nelle fondamenta e lasciando “in giro un senso di oppressione; agli artisti ispira sentimenti di invidia, un odio cupo verso i propri fratelli”.
E ancora nel celeberrimo “Il cappotto”, che nelle tragedie quotidiane di un antesignano Fantozzi sottoposto alle angherie dei superiori e dei colleghi, fotografa spietatamente la rigidità e la chiusura della società pietroburghese del tempo, divisa da gerarchie che rendono complicata un’ascesa sociale ed in cui possedere un cappotto nuovo può diventare l’unica soluzione per estraniarsi dalla propria mediocrità.
In questi racconti non si trova quell’analisi profonda e filosofica dell’animo umano così evidente ad es in Dostoevskij, ma Gogol’ riesce comunque a raccontare spietatamente i limiti della società del tempo grazie all’ironia di cui è dotato, ammiccando direttamente al lettore e introducendo altresì una sapiente dose di surrealismo e di ricorso al soprannaturale, che in qualche modo costituiscono una ricetta assolutamente gradevole e vincente e che probabilmente non ci si aspetterebbe da uno scrittore russo del XIX° secolo. Come nel racconto “Diario di un pazzo” in cui il protagonista ruba le lettere che una cagnolina ha scritto ad un’altra cagnolina per informarla sui movimenti della sua padrona.
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Un chirurgo dell'anima
Il genio Gogol aveva una grande passione: prendere per i fondelli, rendere zimbelli i pomposi personaggi che si aggiravano per le lande russe, che poi non sono altro che gli stessi personaggi che incontriamo quotidianamente in tutti i giorni della nostra vita (quarantena permettendo.....).
Difatti il grande scrittore russo, aveva l'abitudine, attraverso un meraviglioso gioco di parole, aggettivi e superlativi di mettere alla berlina i vari gradi sociali, per poi gettarli in un unico calderone fatto di falsità, meschinità, astuzie, povertà di animo. disperazioni, tutte celate dietro l'apparenza di un titolo di studio, di una posizione lavorativa o di uno stato di disoccupazione e povertà.
Non si salva nessuno. Il ricco come il povero, il bello come l'odioso, il furbo, come il fesso.
La grandiosità della letteratura russa è in questo immenso, inarrivabile talento di saper scavare nell'animo umano, di portare a nudo il vero "io" delle persone, il loro essere.
Gogol è un "chirurgo dell'anima", la indaga, la opera, la seziona e ne estrae il male, il morbo e lo getta in faccia al mondo, con ironia ma anche spietatezza.
Sotto la sua apparente comicità e leggiadria, se si legge tra le righe dei suoi romanzi o meglio ancora dei sui brevi racconti, ne escono fuori tutte le atrocità e le bassezze che ispirano l'agire umano.
Mors tua vita mea
Nei racconti di Pietroburgo, in queste brevi meravigliose, impareggiabili storie di vita quotidiana, siamo davanti a un compendio completo di sociologia e psicologia umana.
Basta leggere un pagina e sfogliarne un altra e si è catapultati in una realtà allucinata, di personaggi e ambienti dove tutto sembra talmente reale da poterlo avvertire nella propria stanza, accanto al proprio divano dove si sta leggendo.
Possono essere il nostro vicino di casa, il nostro sottoposto al lavoro, il nostro capo, il medico da cui andiamo per farci dare un'aspirina, può essere lo sconosciuto che incrociamo mentre andiamo a fare la fila al supermercato e chissà per quale motivo, lo giudichiamo o per come è vestito o magari (in questi tempi ancora più cupi) da che colore ha la mascherina che cela il suo volto......
Come ha detto il genio assoluto della letteratura mondiale Feodor Dostoevsij: "siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol" per citare appunto il racconto forse più famoso di questa raccolta dedicata a San Pietroburgo, la meravigliosa.
Il ventre fecondo di Santa Madre Russia.
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Racconti d'umanità, per le strade di Pietroburgo
La cosa che più mi ha stupito di questa raccolta di racconti pietroburghesi è lo stile di Gogol': pur appartenendo alla schiera di scrittori russi ottocenteschi, la sua scrittura scorre fluida come se ci trovassimo a leggere un giallo. Con questo non voglio screditare gli scrittori russi, ma solo evidenziare una peculiarità di Gogol', che adotta uno stile più fresco, più moderno. Nonostante questo non lo preferisco a quello di Dostoevskij.
Ogni racconto prova a scavare a fondo nella nostra umanità: mette a nudo alcuni dei nostri conflitti e le contraddizioni; ci mostra le conseguenze che può avere sulla nostra vita una importante mancanza di saggezza, e come la nostra esistenza su questa Terra sia posta sul filo di un rasoio: per quanto possa procedere stabile e uguale da lungo tempo, un evento casuale può sconvolgerla fin nelle viscere.
In queste pagine, l'autore mi è parso già proiettato nella letteratura moderna, pur non sfigurando tra le fila della letteratura del suo secolo. I temi appartengono effettivamente al contesto in cui vive l'autore, temi tanto cari ai letterati russi, che pescano i propri personaggi nelle posizioni inferiori della propria società: uomini costretti a chinare il capo di fronte agli ufficiali e resi folli dall'amore per donne che non possono avere; artisti che vivono in ristrettezze, dall'anima divisa tra l'arte e il mero successo; uomini che svolgono ogni giorno, meccanicamente, le stesse mansioni, e per i quali il semplice acquisto di un mantello costituisce un evento di enorme importanza, oltre che un bivio tra la vita e la morte. Personaggi di tal sorta possono suggerire storie di riscatto, storie in cui l'uomo povero riesce con l'ingegno a elevarsi; ma quanta verità c'è in storie di tal sorta? Parliamoci chiaro, poche sono le storie di questo genere che trovano riscontro nella realtà, sia ai giorni di Gogol' quanto ai giorni nostri. Gogol' era un realista, dunque bisogna aspettarsi dei racconti anche crudi, che fanno male; i protagonisti fronteggiano la durezza della vita, una vita che non fa sconti e che può darti il colpo di grazia da un giorno all'altro.
Ho letto questi racconti tutti d'un fiato, ma devo dire che quello che ho apprezzato di più è senza ombra di dubbio "Il ritratto", che mi ha dato più di uno spunto di riflessione. Il racconto che mi è piaciuto meno è, paradossalmente, l'unico che conoscevo per fama: "Il naso"; mi è parso quello meno carico di spunti.
Ognuno con le sue peculiarità (ma comunque sullo stesso leitmotiv e con la stessa atmosfera degli altri) ognuno di questi racconti vale assolutamente la lettura.
"Otteniamo mai noi qualcosa di ciò che desideriamo? Tutto va alla rovescia. A uno il destino ha dato una magnifica pariglia di cavalli, ed egli ci scarrozza indifferente, senza neppure accorgersi della loro bellezza, nel mentre che un altro, il cui cuore arde di equina passione, se ne va a piedi e non ha che la magra soddisfazione di schioccar la lingua quando i bei trottatori lo sorpassano. [...] In che maniera strana si fa giuoco di noi il destino!"
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CINQUE GIOIELLI DI BEFFARDA UMANITÀ
Rispetto a “Le anime morte” ne “I racconti di Pietroburgo” si evidenzia un’intenzione sociologica più marcata. In queste pagine, l’osservazione “microscopica” dell’umanità si fa ancora più infinitesimale, e il tono della narrazione meno distaccato ed estraneo, nonostante che Gogol, con il suo solito stile ironico e beffardo, ostenti di non prendere sul serio i drammi, piccoli o grandi, dei protagonisti. I cinque racconti possono essere letti come altrettante tragedie del quotidiano, in cui l’aspetto realistico viene sempre più frequentemente sostituito, laddove la deludente realtà rivela il bisogno inconscio di un suo superamento fantastico, da quello romantico. Il romanticismo di Gogol (fatta eccezione forse per “La prospettiva Nevskij”) è comunque abbastanza atipico, dal momento che la realtà non viene trascesa per mezzo del nobile impulso della fantasia o del sogno, ma è subita come impossibilità di un innalzamento, sia pure a livello ideale, che permetta di guardarla dall’alto in basso. I personaggi dei “Racconti” sono irrimediabilmente immersi in situazioni degradanti, di cui la preoccupazione per la propria posizione sociale rappresenta forse l’elemento determinante.
Ne “Le anime morte” Gogol aveva messo in evidenza questo significativo aspetto, dimostrando come l’uomo russo tratti le altre persone esclusivamente in base alla loro importanza sociale e a costoro, con metamorfosi stupefacenti, adatti il suo aspetto, il suo modo di parlare e di muoversi, il suo comportamento. “Un francese o un tedesco… parlerà quasi con la stessa voce e con lo stesso linguaggio sia ad un milionario, sia ad un piccolo tabaccaio, mentre tuttavia dentro di sé, si capisce, s’inchinerà convenientemente davanti al primo. Da noi non è così; da noi vi sono dei sapienti i quali con un proprietario di duecento anime parleranno in tutt’altro modo che con uno di trecento, e con quello di trecento in modo ancora diverso che con uno di cinquecento, e con quello di cinquecento altrimenti che con colui che ne ha ottocento; insomma, dovesse arrivare anche al milione, troverebbe sempre qualche sfumatura”. Ne “I racconti di Pietroburgo”, questa curiosa peculiarità si rivela drammaticamente per quello che effettivamente è: un subdolo condizionamento che finisce per schiacciare sia coloro che sentono la propria collocazione nella scala sociale come un motivo di perenne insoddisfazione, sia coloro che sono invece pienamente compresi della propria funzione gerarchica. Si pensi all’”importante personaggio” de “Il cappotto” che “scorgeva talora il vivo desiderio di prendere parte a qualche conversazione interessante o di mescolarsi a un circolo di persone; ma c’era un’idea che lo tratteneva: non sarebbe stata troppa degnazione da parte sua, non sarebbe parso troppo confidenziale, non avrebbe con ciò abbassato la propria posizione?”. Con simili presupposti, non deve stupire che un semplice consigliere titolare, non appena viene nominato direttore di una piccola cancelleria distaccata, innalzi un tramezzo e si faccia una stanza personale, chiamandola pomposamente “stanza d’udienza”, sebbene sia difficile farvi entrare anche una scrivania di normali dimensioni
Questi esasperati comportamenti sociali, che Gogol attribuisce alla Russia ottocentesca, ma che in realtà si ritrovano anche nel nostro mondo contemporaneo, degenerano in situazioni paradossali e morbose nei racconti del “Diario di un pazzo”, de “Il naso” e de “Il cappotto”. Il protagonista del “Diario di un pazzo”, Popriscin, è un modesto lacchè, uno dei tanti umili impiegati che riempiono le pagine di Gogol. La sua dissociazione mentale nasce dalla giustapposizione di due distinti stati d’animo: da una parte egli accetta e fa propria la tendenza a giudicare gli altri in base alla posizione sociale (egli disprezza infatti il ceto del basso popolo e dei mercanti), dall’altra soffre per la propria infima e abietta condizione. L’aspirazione ad avere una rispettabile posizione nella società viene così vissuta come una continua, lacerante frustrazione: avendo egli accettato le regole del gioco, egli avverte l’impossibilità di migliorarsi socialmente come una irreparabile sconfitta. Il rifugio nella follia è quindi l’unica evasione possibile da una vita vuota e meschina, in cui lo scarto tra realtà e ideale si è fatto insostenibilmente grande.
Analogamente, ne “Il naso”, l’assessore di collegio Kovalev, così fiero del suo ruolo (“poteva ancora lasciar passare tutto ciò che si diceva di lui personalmente, ma non poteva assolutamente sopportare le allusioni che si riferivano al suo grado o al suo titolo”), è vittima dell’alienante paura di perdere la propria precaria identità, faticosamente raggiunta attraverso la scalata della scala gerarchica. Non è un caso che il tema del naso staccato dal resto del corpo si trovi già nel “Diario di un pazzo” (“Per giunta… la luna è una sfera così fragile, che gli uomini non ci possono abitare, e così adesso ci vivono soltanto i nasi. E questa è la ragione per cui non possiamo vedere il nostro naso: i nostri nasi infatti si trovano sulla luna”): il riferimento psicanalitico mi sembra irrefutabile.
Il contrasto tra realtà e ideale, che per Popriscin e Kovalev è rappresentato dal miraggio della rispettabilità sociale, per il protagonista de “Il cappotto” è simboleggiato invece da un soprabito nuovo, il possesso del quale, frutto di anni di piccole economie, diventa all’improvviso lo scopo della sua vita, emblema di un improbabile riscatto umano. L’illusione che si affaccia per un istante nell’esistenza di Akakij Akakievic e gli fa intravedere, dopo tanti anni anonimamente trascorsi nel fango, il cielo di una luminosa felicità, è fatale al pover’uomo: il furto del cappotto lo conduce alla “morte per disperazione”. Akakij, che rappresenta un livello di umanità miserrimo, asintotico allo zero assoluto, è il primo di una lunga serie di “umiliati e offesi” che tanta parte hanno avuto nella successiva letteratura russa. Il racconto può essere anche letto come un apologo morale, il cui senso è racchiuso nel ravvedimento finale dell’”importante personaggio”, anticipato, all’inizio della narrazione, dal giovane impiegato che, colpito dalla mortificazione continua subita dall’umile Akakij, “molte volte, nel corso della sua vita, si sentì correre un brivido per la schiena vedendo quanto c’è di inumano nell’uomo, quanta crudele rozzezza è nascosta sotto la mondanità più coltivata e più raffinata, e perfino, Dio mio! nelle persone che tutti considerano oneste e onorate…”. “Il cappotto” consente, più di ogni altra opera, di cogliere il significato più profondo della poetica gogoliana. Il suo finale, con il fantasma baffuto che appare alla vista del vigile spaurito, fa rientrare il racconto sui binari del buonumore e del sorriso, ma è un sorriso di breve durata, un buonumore che non consola. La grande lezione di Gogol, infatti, è stata quella di trasformare ciò che a prima vista poteva apparire comico in grottesco, e il grottesco, si sa, non fa ridere.
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Tra sogni e fantasmi, ecco l'inquietante Pietrobur
“Da sotto le falde del Cappotto di Gogol sono usciti tutti gli scrittori russi della seconda metà dell’Ottocento”.
Così Dostoevskij riassunse la portata rivoluzionaria dell’opera di Gogol', che ha dato inizio a una nuova stagione della letteratura russa. È lui che ha chiuso i conti con il filone letterario classicheggiante e poetico dominante inaugurando quella che i critici hanno definito la 'stagione del realismo letterario'. Quanto Gogol' fosse cosciente di ciò non è facile a dirsi; la sua personalità e il suo estro creativo si espressero in modo contraddittorio, a tratti estremamente critico e travagliato. Le crisi di cui fu vittima fino al momento della morte testimoniano la dolorosa consapevolezza di vivere un momento di passaggio. Dall’analisi delle opere e delle lettere è emersa la profonda difficoltà nel conciliare il suo essere uomo con l’essere scrittore. Il suo sguardo alla vita a tratti mite, caritatevole, ispirato alla misericordia cristiana, altre volte risultò cinico, satirico, lucido nel cogliere le contraddizioni dell'esistenza. Questo è lo sguardo che si ritrova anche nei Racconti di Pietroburgo, scritti tra il 1835 e il 1842. Pur nella loro caleidoscopica varietà, i testi sono accumunati dall’ambientazione, la magica Pietroburgo dove l’autore trascorse gran parte della vita e che gli ispirò alcune delle pagine più sofferte della sua produzione. Nella capitale lo scrittore cercò con tutto se stesso di fare carriera come impiegato per poi sviluppare un’ottica distaccata e sprezzante verso il mondo piccolo-borghese che con furia di scrittore dipinse. Pietroburgo è protagonista di tutti i racconti; insieme ai personaggi è cangiante, a volte li accoglie con le sue bellezze, altre li respinge e li condanna a un destino infelice. Talvolta la città è descritta con rapide pennellate, ma più frequentemente l’autore le dedica uno spazio da primo attore. Si legga la descrizione della Prospettiva Nevskij che inaugura il racconto omonimo per rendersene conto: poesia che non cede il posto al puro descrittivismo. La scrittura è possente e si incarna in immagini concrete; Pietroburgo non è sfondo, è presenza viva sulla scena dei racconti gogoliani.
I cinque testi (La Prospettiva Nevskij, Il naso, Il ritratto, Il cappotto, La carrozza, Diario di un pazzo) sono uniti soprattutto da quello che è l’elemento di forza della scrittura dell’autore russo: l’osservazione e il racconto della vita per ciò che essa è. Quello che i critici degli ultimi due secoli hanno messo più in luce della rivoluzione di Gogol' è il suo approdo al racconto realistico. Rispetto alla narrativa precedente basata sulla rapidità dell’avvenimento, sul colpo di scena, sul procedimento dell’avventura, i Racconti di Pietroburgo si costruiscono sull’osservazione del quotidiano, dell’ordinario, si può dire che hanno il ritmo dell’esistenza stessa. Da qui l’idea di parlare della Russia attraverso gli antieroi, “gente senza lustro”, impiegatucci che faticano per comprarsi un cappotto nuovo, barbieri ubriachi, piccoli mercanti e rigattieri che speculano, nobili di provincia decaduti e proprietari terrieri ansiosi di migliorare la loro posizione in società: i personaggi sono sconfitti o prigionieri del proprio status. Il singolo in Gogol' è solo di fronte alla vita oppure è oppresso perché parte di un gruppo da cui non riesce a uscire. Di tutti i racconti quello che è stato salutato con maggiore entusiasmo, già nell’Ottocento, è Il cappotto proprio per la sua capacità di descrivere l’ordinario squallore della vita di un uomo comune e per la profondità con cui l’autore riflette i suoi rapporti con ciò che lo circonda. È un racconto commovente, stilisticamente perfetto, un meccanismo che funziona su quel poco di trama sui cui si regge: a dargli forza è la potente osservazione dell’animo umano.
Ma i racconti di Gogol' non sono solo realismo come parte della critica contemporanea all'autore li considerò banalizzandoli. Accanto alla descrizione piana della vita dell’uomo qualunque emerge un’altra dimensione: la mancanza di senso e l’assurdità della vicenda raccontata ne Il naso, il mistero e il surreale de Il ritratto, lo sguardo estraniato del Diario di un pazzo, la satira pungente della Prospettiva Nevskij. Dietro l’ordine esteriore e il grigiore ecco che emerge, prepotente, il caos dell’esistenza. In tutte le pagine gogoliane si esprime la forza dirompente della sua invenzione, quella potenza linguistica e stilistica che pochi scrittori hanno e che diventa prosa viva. Completata la lettura, resta un senso di immersione totale nell’universo raccontato e, come in una magia, vi sembrerà per un attimo di essere sulla Prospettiva Nesvkij, lanciati all’inseguimento di belle signorine al passeggio, oppure crederete possibile che un naso si pavoneggi in uniforme, mentre gira indisturbato per la città.
È semplice fantasia? Si, in parte. Sicuramente c’è bisogno di quella che Coleridge chiamava “sospensione dell’incredulità”. Ma è sorprendente come, pur nella loro sfolgorante follia, questi racconti risultino più veri della vita quale essa comunemente ci appare.