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Paradisi artificiali

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La presentazione e le recensioni di Paradisi artificiali, opera di Charles Baudelaire edita da Newton Compton. Il consumo di sostanze stupefacenti ha un peso centrale nell’esperienza poetica ed esistenziale di Baudelaire. Quando scrive le sue pagine sull’hashish – di cui condanna l’abuso – egli non ha mai intenti moralistici, ma essenzialmente estetici. Quello che a lui interessa è il potenziamento della creatività poetica attraverso l’ebrezza artificiale; quello che lui odia e teme è il risveglio, è la desolazione, è l’inferno della degradazione. Si disegna qui il dramma personale di Baudelaire, la sua consapevolezza di essere e di sentirsi lacerato fra i due opposti richiami di Dio e Satana, fra l’aspirazione a salire verso l’alto, l’infinito, e il gusto del peccato, il piacere di scendere in basso.

Charles Baudelaire, nato a Parigi nel 1821, a soli diciannove anni abbandonò la famiglia e iniziò una vita sregolata e bohémienne, segnata anche da difficoltà economiche e dall’uso dell’alcol e delle droghe. Partecipò alla rivoluzione del ’48, ma presto si allontanò dagli ideali socialisti. Tra il 1864 e il 1866 visse in Belgio. Morì a Parigi nel 1867. La Newton Compton ha pubblicato il volume Tutte le poesie e i capolavori in prosa e I Fiori del Male e tutte le poesie e Paradisi artificiali anche in volumi singoli.



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Paradisi artificiali 2014-06-05 11:19:02 Queen D
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Queen D Opinione inserita da Queen D    05 Giugno, 2014
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Il paradiso a buon mercato

“Il tranquillo seduttore” e “Il demone turbolento”: ecco come Baudelaire definisce, riassumendoli, i due creatori dei famosi paradisi artificiali per eccellenza, l’oppio e l’hascisc.
Questo testo, del 1860, è un saggio, una conversazione dell’autore che cerca di erudire il lettore circa la natura, gli effetti e le “voluttà morbose” che provocano queste due droghe, non solo sul corpo umano, ma soprattutto sulla sua psiche.
Dunque, divide la struttura del testo in due parti: una prima, tutta frutto del suo pugno, dedicata all’hascisc, e una seconda, trasposizione analitica di due opere di De Quincey, “The Confessions of an English Opium-Eater” e “Suspiria de profundis”, interamente dedicata all’oppio.
Con un tono sorprendentemente leggiadro, assolutamente diretto e un tantino irriverente (e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di Baudelaire), l’autore ci descrive, nella prima parte, cos’è l’hascisc, da dove proviene, come viene prodotto e come può venir consumato, quindi tutta una serie di informazioni tecniche, per così dire; non dimentichiamo che stiamo leggendo un saggio e non un romanzo, quindi è una parte introduttiva necessaria.
Nonostante ciò, Baudelaire allieta la lettura con una serie di aneddoti che, se non fosse per la serietà del tema trattato, oserei definire esilaranti. Un esempio spicciolo, che arricchisce la descrizione degli effetti dell’hascisc nei primi momenti dell’assunzione: “Anzitutto una certa allegria, innaturale e irresistibile, che ti prende […] Il demone ti ha invaso; è inutile resistere a codesta ilarità. Di tanto in tanto, ridi di te, delle tue scemenze e della tua follia; e i tuoi compagni, se ne hai, rideranno anch’essi del tuo stato, e del loro, e tu non proverai rancore, giacché in loro non c’è malizia.”
Come non riconoscere in questa scena una chiara modernità?
Dopo la fase “teorica”, per così dire, Baudelaire passa alla spiegazione di quale sia l’effetto del veleno, come lo definisce, sulla parte spirituale dell’uomo, ovvero “l’amplificazione, deformazione ed esagerazione dei suoi sentimenti abituali, delle sue percezioni morali..” e lo fa creando un personaggio immaginario e sottoponendolo agli effetti della droga.
Una sorta di viaggio “fantastico” all’interno di un esperimento per ipotesi.
L’idea che l’autore trasmette dell’hascisc è assolutamente negativa, lo definisce un veleno, una stregoneria, un suicidio addirittura, lento ma inesorabile.
La cosa bizzarra però che ho notato è che, se da una parte condanna l’hascisc, dall’altra, con lo stesso fervore, assolve l’oppio, che viene ritenuto meno funesto, meno perturbante e meno nemico. Sarà perché egli stesso ne è assiduo consumatore (di oppio)? Perché, in qualche modo, vuole giustificarsi? Questa la mia impressione.
La seconda parte, come ho anticipato, analizza e traspone le due opere di De Quincey ( per il quale Baudelaire prova un sincero ed empatico affetto) dedicate alla sua vita da oppiomane.
Dunque Baudelaire ci immerge nel mondo dell’autore inglese, portandoci dalla sua tormentata infanzia, attraverso gli anni ad Oxford, alla sua vecchiaia, ormai consumato e schiavo della terribile droga. Anche qui il ritmo è scattante e mai stantio, una vera autobiografia, non creata per autoesaltazione, ma per il bisogno di far comprendere la gravità, ma allo stesso tempo l’unicità, della sua condizione.
Si alternano perciò dei passaggi filtrati e proposti con le parole di Baudelaire a dei passi virgolettati in prima persona tradotti direttamente dall’originale; ne viene fuori quindi un discorso molto intimo e toccante.
Il testo finisce con un epilogo non-epilogo, che lascia il lettore pieno di domande irrisolte, e credo che proprio in questo punto stia la genialità di questo saggio mai banale: Baudelaire si limita a esporre, a descrivere, per le decisioni più importanti lascia a noi il libero arbitrio.

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Baudealaire e De Quincey
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