Moravagine
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Il paradosso Moravagine
Strano libro, questo Moravagine e strano il suo autore, Blaise Cendrars, avventuriero giramondo e scapestrato, a suo agio tanto nella Legione Straniera, che lo segnerà, oltre l’apparenza, nel profondo, quanto nei bordelli dell’Europa orientale, nelle foreste più profonde dell’America e sulla Transiberiana, carismatico e curioso viveur in perpetua fuga dalle convenzioni. E se tutta la spirale vertiginosa della sua vita ammanta l’uomo di un certo mistero, la sua scrittura non si sottrae alla continua esacerbazione dei limiti, alla continua scoperta dell’enormità e della magniloquenza. Tutto trabocca nelle pagine di questo romanzo, nell’horror vacui sfiorato e deriso, strabordano i personaggi con le loro esagerazioni, eccedono le parole, affabulanti arabeschi soggiogati da una retorica ferma, eruditissima, capace di plagiare il lettore e oltrepassa ogni limite di misura lo stesso Blaise Cendrars. Colto autodidatta svizzero, naturalizzato francese, Cendrars è lo pseudonimo "di cenere e fiamme" che l’autore si sceglie, perché scrivere è bruciare e risorgere, scrive. E se l’avesse detto chiunque altro, ci avremmo anche potuto credere, ma nulla sembra autentico in questa ostentata professione di fede e nessuna verità esce da queste pagine. Sia chiaro, ci sono momenti bellissimi in questo Moravagine e l’autore sa scrivere, saltando repentinamente da un genere all’altro, il trattato, la poesia, la commedia, il dramma, la lirica. Basti a titolo esemplificativo questo estratto:
“Avrei voluto spaccare con le labbra il quarzo profumato e bere l’estrema goccia di miele primordiale che la vita delle origini ha deposto in quelle molecole vetrose, quella goccia che va e viene come un occhio, come il globulo di una livella ad acqua”
Il punto, il drammatico difetto di questo romanzo, è che non c’è respiro a sorreggere la trama, non c’è chiarezza, non c’è trasparenza, emerge soltanto il gusto per l’ostentazione, per l’eccentrico, l’esacerbata ricerca della sorpresa, come nel barocco peggiore. I personaggi si muovono zigzagando da un capo all’altro del mondo, con le loro nefandezze, con la loro inconsistente gravità e tutto si spegne nel bagliore misero di un fiammifero. E il peccato, davvero capitale, è che l’autore spreca quanto di buono c’è nel suo acume, quanto di provocatorio, centrifugo e rivoluzionario c’è nelle pagine, tutto soccombe all’istrionismo dannunziano della penna e si frammenta in un labirinto senza senso di azioni che non conducono da nessuna parte. E confesso di non essere riuscito a finire il libro*, nonostante sia indubbiamente migliore di altri romanzi letti, perché l’autore scrive per se stesso, per il suo proprio gusto e le pagine non valgono lo sforzo della decifrazione. Il paradosso di Moravagine è che in esso coesistono indubbie qualità e al contempo vizi di forma del tutto antiletterari. Questa “mort à vagin”, “morte dalla vagina”, insomma, nell’ansia di stupire, perde qualsiasi interesse. E davvero disturba la sfinita misoginia dei personaggi, la sfilata indefinita di donne stuprate e uccise nell’inverosimile espiazione di un fantasma che deve aver tormentato l’autore per anni. Un libro come Moravagine non può non essere pubblicato, perché dirompente e in un certo qual senso seducente, ma siamo certo liberi di scegliere se leggerlo o meno. Il curato apparato critico e il diario dell’autore, al solito proposti da Adelphi, aiutano a ricostruire il moto ondivago del libro e, almeno per me, sono stati più godibili di Moravagine stesso.
*Curiosamente l'unico altro libro che non sono riuscito a finire in vita mia è "Orgoglio e pregiudizio", lasciato a metà. Attrazione degli opposti.
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- sì
- no