Mentre morivo
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L'intensità bruciante della notte
VARDAMAN: Mia madre è un pesce, ichtys, Cristo salvatore. Mia madre è Cristo e mia madre è morta, Cristo è morto.
CASH: La cassa è levigata, gli angoli smussi, una casa per l’eternità levigata da costante, indefessa pazienza.
ANSE: Lei voleva così, seppellita dove e è nata, lo sa Dio se non dovevo essere così scalognato. Lei voleva così, io che non ho avuto i denti per mangiare il pane del buon Dio.
VARDAMAN: Mia madre è un pesce ma non nuota nel fiume. Dewey Dell ha tagliato il pesce, io ho bucato la bara. Anche mamma ha sanguinato. La mamma è un pesce che non si muove.
JEWEL: Sono un bastardo e mia madre è stata una cavalla. Mio padre ha venduto la cavalla. Mia madre è morta e io non ho più la cavalla.
DEWEY DELL: non so se bastano dieci dollari. Lui ha detto di sì. Lui non c’è più. La mamma non c’è più. No, lui non c’è non come non c’è la mamma. Lui c’è ma non c’è. Lui è era. Così parla Darl.
DARL: io l’ho guardata e allora ho saputo. Io l’ho guardato e allora ho capito. Io ho gli occhi neri, bruciati dalla guerra, inceneriti dalle fiamme. Loro mi guardano e io so. Vardaman mi ha visto, ma lui non vede. Io vedo, capisco e so.
VARDAMAN: gli avvoltoi mangiano i pesci. Ora sono sette, prima erano quattro. Anzi ora sono dodici, in alto, in cerchio, sempre più piccolo. Uno scende e io urlo. Urlo e corro. Io ho visto Darl, io ho visto Dewey Dell. Mia madre è un pesce, i pesci sono ciechi.
ANSE: non ho i denti per mangiare il cibo del buon Dio. Ho fatto una promessa. Non voglio essere in debito con nessuno, ma Dio non ho i denti, ci arrangeremo in qualche modo.
CASH: ho il cemento sulla gamba rotta.
DEWEY DELL: ho dieci dollari e un corpo giovane.
DARL: rido. Io ho la risata. Io li vedo. E loro hanno paura.
JEWEL: io non ho niente. Mio padre ha venduta la cavalla. Ho solo l’inferno.
VANDRAMAN: io avevo un pesce. Il pesce è morto. La mamma è morta. Io voglio il trenino rosso.
ADDIE: chi ha inventato le parole, non ha provato le parole. Una donna sa, sa senza dire. Una donna sente. E solo un figlio può violare l’intimità di una donna. Nessun uomo può farlo. Solo un figlio. Tutto di noi è in noi finché non abbiamo figli. La maternità è la parola di chi i figli non li ha mai avuti. Io credo nella verità delle cose.
Quindici voci per raccontare la storia di una famiglia in viaggio su un carro con una bara al seguito. Non è tanto la scomposizione del punto di vista a rendere miracoloso questo libro, ma la perfezione di ogni punto di vista nella sua allucinazione, nella sua interpretazione del mondo. E su tutto il soffio di un vento nero e amaro, il vento bruciante del Mississipi, il vento graffiante di un libro rubato alla notte e macerato nell’alcol. Da tempo non leggevo un libro tanto abbacinante, da tempo non bevevo il calice dolceamaro della grande letteratura. Perché questo libro di Faulkner è davvero un libro scritto mentre tutto intorno muore.
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Sì, viaggiare…
“Mi ricordo quando ero giovane credevo che la morte fosse un fenomeno del corpo; ora so che è soltanto una funzione della mente - della mente, dico, di chi subisce il lutto. I nichilisti dicono che è la fine; i fondamentalisti , il principio; mentre in realtà non è altro che un affittuario o una famiglia che se ne va da un appartamento o da una città.”
Le parole di Peabody, il dottore, una delle quindici voci narranti di questo romanzo corale, lette a ritroso, sembrano dare la chiave di lettura del tutto: un lungo fluire di pensieri e un'ininterrotta serie di fermo immagini è ciò da cui il lettore prende il congedo nel riporre questo classico della letteratura americana che tanta eco produsse poi nei giovani intellettuali cresciuti a resistenza e libri, oltreoceano, nella nostra terra. Ed è la terra infatti la protagonista assoluta della narrazione, una matrigna che ti si rivolta contro tutta la vita e ti schiaffeggia nel momento del bisogno. La mamma è morta osservando il suo Cash, uno dei cinque figli, intento a costruirle la cassa mortuaria, povere assi lignee dalla geometria impeccabile, sottile gioco di livella e squadra. La mamma ha espresso il desiderio di tornare a Jefferson, da morta. La famiglia parte ma il nubifragio ha ingrossato il fiume e i ponti hanno ceduto e i buoi aggiogati al misero carro cercano invano il guado.
La morte viaggia con loro, è dentro la cassa nel corpo prossimo alla putrefazione e che richiama gli avvoltoi, è nell’accettazione di un destino ingrato per ognuno dei membri di questo disgregato nucleo familiare, è nella stessa frammentazione dell’io di Darl, il secondogenito matto, la voce più riportata fra le tante e alla quale fa costantemente da contraltare quella del delirio tutto infantile del più piccolo di loro, Vardaman.
La mamma è un pesce.
La mamma è arrivata.
Il viaggio è stato in fondo come la morte “un affittuario o una famiglia che se ne va da un appartamento o da una città.” per tornarvi come se nulla fosse accaduto. Zitti tutti, ci pensa Pa’.
Da leggere, perché è il vertice dello stile, è l’essenza del narrato, è mimesi assoluta.
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Romanzo corale
La storia è semplice, lineare: Addie Bundren moglie di Anse Bundren e madre di cinque figli muore, e per rispettare la sua volontà il resto della famiglia si mette in viaggio su un carretto di fortuna trainato da una pariglia di muli, per trasportare la salma, nel cimitero della cittadina natia. Faulkner però, premio Nobel per la letteratura nel 1950, è uno straordinario autore e nonostante questa apparente semplicità riesce a costruire uno sviluppo dal potenziale eccelso, arricchendo la storia con elementi che vanno dall’assurdo, al comico, al tragico. Il viaggio verso la sepoltura, per la famiglia Bundren, diventa difatti un percorso irto di ostacoli, assumendo in qualche modo i contorni di una catarsi e quasi di “una resa dei conti” tra i figli, dipanandosi tra fiumi in piena che hanno abbattuto ponti e che comportano la necessità di essere guadati, fienili che vanno improvvisamente a fuoco, incidenti di percorso che mettono a tappeto uno dei cinque (“Poi ha raccontato una lunga storia di come avevano dovuto aspettare che tornasse il carro e di come il ponte era stato buttato giù dalla piena e avevano fatto altre otto miglia ma anche quel ponte era partito sicchè erano tornati indietro e avevano attraversato il guado a nuoto e i muli erano affogati e avevano dovuto comprare un’altra pariglia”).
Ma il vero valore aggiunto di questo romanzo si nasconde tuttavia nello stile narrativo, nell’eccellente idea di raccontare la vicenda avvalendosi di 15 voci differenti, rappresentate innanzitutto dai membri della famiglia, ognuno portatore di riflessioni, rancori, segreti, ognuno immortalato da Faulkner nella sua terribile autenticità, tra cui spicca indubbiamente l’azione incessante della costruzione della bara che ospiterà la salma da parte di Cash, uno dei cinque figli, sotto l’occhio vigile della stessa madre che diventa così spettatrice del proprio destino (“E’ perché si è messo lì fuori, proprio sotto la finestra, smartellare e segare quella maledetta cassa. Dove lei lo vede per forza”).
Faulkner non si limita a narrare con le voci dei suoi personaggi, ognuno di loro si manifesta con un “flusso di coscienza” ininterrotto, come se il raccontare diventasse una necessità per esprimere il proprio vissuto religioso di cui il romanzo è pregno (“Certe volte mi domando perché andiamo avanti. E’perché lassù c’è una ricompensa, per noi….Tutti gli uomini saranno uguali, lassù, e il Signore toglierà a chi ha e darà a chi non ha”) oltre che filosofico, pur trattandosi sempre di una filosofia popolare ma ugualmente ostica da comprendere:
“In una stanza sconosciuta ti devi svuotare per il sonno. E prima che tu sia svuotato per il sonno, che cosa sei. E quando sei svuotato per il sonno, non sei. E quando sei riempito di sonno, non sei mai stato. Io non so che cosa sono. Io non so se sono o no”.
"Mio padre diceva che la ragione per cui si vive è per prepararsi a restare morti”.
“Mentre morivo” assume così l’impostazione di un ampio romanzo corale, polifonico, nel quale ogni voce aggiunge particolari prima non riferiti e aiuta a comprendere meglio quanto letto precedentemente (tanto che risulta molto utile una rilettura dei capitoli precedenti alla luce dei nuovi elementi emersi stante la complessità dell’opera nel suo insieme), quasi come se si trattasse di un mosaico che si compone lentamente, fino ad avere finalmente una visione completa a lettura ultimata.
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Ella era è, ella è era
«E prima che tu sia svuotato per il sonno, non sei. E quando sei riempito di sonno, non sei mai stato. Io non so cosa sono. Io non so se sono o no. Jewel sa che è, perché non sa di non sapere se è o no. Lui non può svuotarsi per il sonno perché non è quello che è e non è quello che non è. Al di là del muro senza lampada sento la pioggia formare il carro che è nostro, il carico che non è più di quelli che l’hanno abbattuto e segato né ancora di quelli che l’hanno comprato e che non è neanche nostro, anche se è là sul nostro carro, dato che soltanto il vento e la pioggia lo formano soltanto per Jewel e me, che non siamo addormentati. E dato che il sonno è il non-è e la pioggia e il vento sono erano, non è. Eppure il carro è, perché quando il carro sarà era, Addie Bundren non sarà. E Jewel è, così Addie Bundren deve essere. E allora io devo essere, se no non potrei svuotarmi per il sonno in una stanza sconosciuta. E allora se ancora non sono svuotato, io sono è.
Quante volte sono rimasto disteso, con la pioggia sopra un tetto sconosciuto, a pensare a casa.»
È morta. Lei che era è, lei che è era. È morta e le sue spoglie giacciono in quel capanno in attesa del trasporto presso quella cittadina ad oltre quaranta miglia di distanza che è sinonimo di radici e all’interno della quale ella ha chiesto, quando ancora era in vita, di far ritorno. Ed è per questo che la famiglia Bundren decide di partire con quel carro trainato da una pariglia di muli macilenti che ospiterà il padre/marito, i figli e quel corpo che sembra essere ancora pulsante in quella bara che lo contiene. Il cammino che li vedrà protagonisti non sarà affatto semplice e sarà caratterizzato da una serie di situazioni e circostanze ai limiti del grottesco eppure estremamente vive e vivide. Situazioni non semplici e composte da un continuo di avversità, tante avversità. Dall’alluvione che mette fuori uso ogni ponte, alla gamba rotta di Cash, alla separazione dagli animali, ogni tassello che lo andrà a ricomporre metterà a dura prova i viaggiatori.
Ma ciò che davvero colpisce in questo elaborato a firma Faulkner è la struttura narrativa nonché lo stile che lo contraddistingue. Siamo nel 1929 quando l’autore inizia la stesura di questo particolare testo all’interno del quale, in apparenza, la fabula è di più semplice interpretazione così come lo è la sequenza cronologica. Uno scritto soltanto apparentemente però più lineare quanto in realtà narrativamente e stilisticamente estremamente più complesso. “Mentre morivo” è un romanzo corale, un volume all’interno del quale si alternano ben quindici narratori che passo dopo passo ricostruiscono la vicenda, che ricostruiscono le anime di questi contadini che sono chiamati a sostenere la perdita. Ad avvalorare ogni personaggio vi è un linguaggio che muta e si conforma ad ogni personalità e che per questo rende ogni protagonista tangibile e concreto, perfettamente caratterizzato. Si alternano pertanto monologhi che toccano il sillogismo, altri che sono lirici, altri che sono istintivi, altri che sono rudi, schietti, crudi in ossequio a quel ceto di appartenenza che segna le singole esistenze in un caleidoscopio familiare. Siamo in un vero e proprio flusso di coscienza costante, di pensieri che si susseguono e caratterizzano i vari attori di queste vicende e che rimettono al lettore l’arduo compito di ricostruire, di interpretare. Perché la scrittura di Faulkner è onirica ma è anche criptica. È letteratura pura ma è anche uno schiaffo nell’anima. È chiarezza e interpretazione.
Quella di questi antieroi è una vera e propria discesa negli inferi, una ricerca nella propria intimità, un percorso nel proprio io. Lo stesso titolo originale “As I Lay Dying” che deriva dal Libro XI dell’Odissea, un passo in cui Ulisse percorre la stessa caduta, ne è una dimostrazione.
Un libro forte, duro, viscerale, solido, denso che si imprime nella mente, che trafigge l’anima conficcandovisi. Un componimento su cui riflettere, da custodire. Da leggere.
«Mi ricordavo di mio padre che diceva sempre che la ragione per cui viveva era per prepararsi a restare morti tanto tempo.»
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UN'ODISSEA MISERABILE E GROTTESCA
Alla fine degli anni ’20 William Faulkner lavorò, per poter guadagnarsi da vivere, come fuochista in una centrale elettrica, scrivendo – si racconta – nelle ore notturne con una carriola rovesciata a mo’ di tavolino. In quei sonnambolici mesi vennero alla luce opere imprescindibili per la letteratura del Novecento, come “L’urlo e il furore” e “Mentre morivo”. Rispetto al suo primo capolavoro, che ancora oggi stupisce per l’uso spregiudicato e innovativo del linguaggio (uno stream of consciousness per certi versi ancora più ardito di quello di Joyce), “Mentre morivo” risulta da una parte più accessibile sotto il profilo cronologico (dal momento che la storia si sviluppa in maniera abbastanza lineare in un breve lasso di tempo), mentre dall’altra la struttura polifonica viene ampliata e portata fino agli esiti più estremi (sono ben quindici infatti le voci narranti che si passano il testimone per raccontare il grottesco viaggio che i sei membri della famiglia Bundren intraprendono per trasportare la salma della moglie e madre appena defunta fino alla lontana cittadina natale dove, quando era in vita, aveva chiesto di essere seppellita). Va detto per correttezza che, nonostante la brevità del romanzo, la lettura, trattandosi di un’opera di Faulkner, non è affatto facile e rilassante, ma la fatica sostenuta per portare a termine il libro viene alla fine ricompensata con pagine di sublime letteratura, tra le più belle che mi sia mai capitato di leggere. Faulkner possiede una rara e virtuosistica capacità, quella di saper variare i registri stilistici, adattandoli alla perfezione a ciascun personaggio. Ogni monologo ha un suo stile peculiare: quelli di Darl, il fratello “strano” (che alla fine verrà non a caso fatto rinchiudere dai suoi stessi familiari in un manicomio per aver cercato di dar fuoco alla bara della madre), sono lirici e pieni di arzigogolati sillogismi (del resto Darl, avendo combattuto nella Grande Guerra e quindi conosciuto un po’ il mondo, è l’unico ad essersi parzialmente emancipato dalla gretta ignoranza contadina degli altri membri della famiglia Bundren), quelli di Dewey Dell (l’unica femmina della casa, che porta in grembo un vergognoso segreto di cui vuole a tutti i costi disfarsi durante il viaggio) sono invece istintivi e prosaici, così come quelli del piccolo Vardaman sono infantilmente sconnessi (come quando si ostina a sostenere che “mia madre è un pesce”), e così via. C’è poi la folla di vicini, medici, locandieri e negozianti che osservano da distante la vicenda e che funzionano un po’ come il coro di una tragedia greca. Della tragedia “Mentre morivo” ha molte caratteristiche, anche se deformate da una sottile, quasi impercettibile, vena cialtronesca. Il viaggio dei Bundren (una famiglia che oggi si definirebbe disfunzionale, percorsa com'è da molteplici tensioni irrisolte e conflitti latenti), con un carro sgangherato trainato da una pariglia di muli macilenti, deve infatti affrontare, come in una moderna Odissea, un crescendo impressionante di avversità: l'alluvione che mette fuori uso tutti i ponti della zona e li costringe a un guado azzardato e pericoloso, la morte degli animali, la gamba rotta di Cash, con il cadavere in putrefazione della donna che, giorno dopo giorno, emana un fetore sempre più insopportabile. Nonostante ciò, con stolida e irragionevole ostinazione, l'assurdo pellegrinaggio per le strade del Mississippi continua a tutti i costi, tra le atroci sofferenze del povero Cash (a cui tra l'altro viene applicata un'improvvisata e ben poco ortopedica ingessatura di cemento), il sacrificio dell'amato cavallo da parte di Jewel e la diffidenza della gente incontrata lungo il cammino, fino a quando il voto dell'inumazione non viene finalmente adempiuto. La storia si dipana e prende forma all'interno di una caotica successione di pensieri, impressioni e ricordi che si affacciano spontanei e incontrollati nella mente di ciascun narratore. Spetta al lettore fare pazientemente ordine in questo coacervo apparentemente incoerente e disorganico per dipanare il filo labile, sempre sul punto di spezzarsi, di una trama la quale, pur rimanendo costantemente dentro alle psicologie dei personaggi, sa restituire anche una impareggiabile rappresentazione del Deep South, arretrato, povero, ignorante e bigotto. La scrittura di Faulkner è complessa, criptica e reticente (quanti segreti allignano all'interno della famiglia, tra la paternità illegittima di Jewel e la gravidanza di Dewey Dell!), ma è nondimeno capace di dar vita a indimenticabili ritratti umani, icastici come se fossero scolpiti nel legno, come quelli di Cash (uomo completamente dedito al lavoro, come quando costruisce meticolosamente la bara proprio davanti agli occhi della madre agonizzante, eppure dotato di una insospettabile sensibilità che si esprime nel suo desiderio di possedere un grammofono), di Jewel (dall'espressione perennemente torva e malmostosa, che si scioglie soltanto nel rapporto quasi amoroso con il suo puledro selvaggio) e soprattutto di Anse, il patriarca (che ama farsi compatire e crogiolarsi nel vittimismo - “s'è mai visto uno più scalognato?” è la sua ricorrente lamentela -, non guarda mai nessuno dritto negli occhi, ma alla fine è l'unico, beffardamente, a tornare a casa arricchito, con una nuova dentiera e addirittura una nuova moglie). A proposito di occhi, mi piace sottolineare l'importanza che gli sguardi assumono all'interno del romanzo e la perizia con cui Faulkner descrive metaforicamente gli occhi dei personaggi (“gli occhi come due candele quando le guardi sciogliersi nello scodellino di un candeliere di ferro” di Addie, “gli occhi pallidi come legno piantati nel viso legnoso” o che “sembrano dei pezzettini di un piatto rotto” di Jewel, “gli occhi addosso come due cani da caccia nello spiazzo davanti a un fienile che non conoscono” di Anse, per fare solo alcuni esempi). Del resto le metafore e le analogie col mondo naturale abbondano in “Mentre morivo” (Anse tiene il corpo chino “come quando il mazzuolo ha appena colpito il vitello, e non è più vivo e ancora non sa di essere morto”, mentre Dewey Dell si sente “come un seme umido e selvaggio nella calda terra cieca”), così come le simbologie nascoste (“la madre di Jewel è un cavallo” dice Darl, alludendo alla circostanza che il fratello è il frutto di una passionale esperienza adulterina). E' probabile che, come nell'”Ulisse” di Joyce, ci siano moltissime altre cose non percepibili a una prima lettura (del resto Faulkner è uno scrittore straordinariamente erudito, come si può evincere – limitandoci ai titoli delle sue opere – dalle citazioni tratte da Shakespeare de “L'urlo e il furore”, da Omero di “Mentre morivo” e dall'Antico Testamento di “Assalonne, Assalonne!”). E' una caratteristica dei grandi capolavori quella di possedere una ricchezza semantica che va molto al di là della mera “fabula”, e “Mentre morivo” è entrato con pieno diritto in questa categoria, assurgendo nel tempo a riferimento ineludibile per tutti coloro che da allora si sono cimentati (il caso più recente è quello di Jesmyn Ward, l'autrice della “Trilogia di Bois Sauvage”, la quale non ha mai nascosto di aver trovato in Faulkner una delle sue principali fonti di ispirazione) con il ritratto di quella enigmatica terra di mais e di cotone, di decadenza e di razzismo, di ambiguo fascino e di mistero, di magia e di ancestrali superstizioni, di uragani e di torride estati, che è il profondo Sud degli Stati Uniti.
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"Salvare le ossa" di Jesmyn Ward
L'uomo esiste solo dentro di sé
Se apri un libro di William Faulkner e non sai a che cosa vai incontro, sei un uomo finito. Nel caso in cui tu sia abbastanza temerario da arrivare all'ultima pagina, potresti trovarti a dire: "Ma che diavolo ho appena letto?".
Perciò, tu che stai aprendo "Mentre morivo", sappi che stai per imbatterti in una lettura oltremodo complessa, volutamente articolata. La complessità di Faulkner è dovuta al suo stile particolare, che attinge a piene mani dalla tecnica del flusso di coscienza, anche se in maniera meno marcata rispetto alla sua opera più conosciuta : "L'urlo e il furore".
È una tecnica che rende la lettura più ardua, ma adoperata da maestri come Faulkner diventa uno strumento infallibile per scrutare e caratterizzare in maniera unica e profondissima i personaggi.
Il libro è diviso in brevi capitoli, ognuno dei quali presenta un diverso Io narrante, alternandosi tra i vari protagonisti, approfondendo i loro diversi stati d'animo, le loro variegate reazioni agli stessi eventi, la loro distinta percezione della stessa realtà.
Perché ogni uomo è un essere a sé.
Il romanzo è incentrato su una famiglia di semplici contadini americani, i Bundren, che si trovano improvvisamente privati di un punto di riferimento, di un vero e proprio centro di equilibrio, la signora e madre Addie Bundren.
La sua morte manderà questa povera famiglia allo sbaraglio, palesando i limiti e i difetti di ogni componente della stessa.
Nell'adempimento dell'ultimo desiderio della defunta, ovvero quello di essere seppellita nella sua città natale, i Bundren intraprendono un breve viaggio che rende evidente la loro mancanza d'amore reciproco.
La peculiarità di Faulkner sta nello scrutare gli angoli più infimi dell'uomo, la sua meschinità, il suo egoismo incontrollato. L'autore non risparmia nemmeno la defunta, alla quale dedica un capitolo di ampio spessore letterario, in cui lo scrittore rende nota quella che è una sacrosanta verità: anche nella fine, rimaniamo gli stessi uomini che siamo stati da vivi, senza alcuna attenuante dovuta alla tragedia della morte.
La figura rassicurante della famiglia viene abbattuta, almeno come concetto universale. Perché vi sono realmente al mondo famiglie come i Bundren, i cui componenti sono carichi di rancore gli uni verso gli altri, risentiti per quei sacrifici fatti in nome della famiglia ma non realmente voluti in fondo al cuore.
Perché all'esterno non siamo gli uomini che siamo dentro; perché l'uomo può dare sfogo ai suoi reali e illegali pensieri solo dentro di sé, perché è solo e soltanto in questo luogo astratto che può essere ciò che è realmente, libero dal giudizio di un mondo falso e infettato da una fasulla normalità plasmata dall'ipocrisia delle leggi sociali.
Allora... Adesso sei consapevole di quello a cui vai incontro?
"Ma non sono poi tanto sicuro che uno abbia il diritto di dire che cosa è pazzo e che cosa non lo è. È come se dentro a ognuno ci fosse qualcuno che è al di lá dell'esser normale o dell'essere pazzo, e le cose normali e le cose pazze che fa le guarda con lo stesso orrore e lo stesso stupore."