Memorie dalla Casa dei morti
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Persi nel nulla della natura più estrema
Provate a cercare "Omsk" su Google Maps.
Focalizzate il punto in cui si trova.....una terra di nessuno, spersa per quel meraviglioso transcontinente EuroAsiatico, che è la Russia.
Poi immaginate cento e più anni fa, l'inverno implacabile siberiano, la neve, i lavori forzati, la nebbia, i vestiti di fortuna, la morte come unico sollievo, gli alberi ghiacciati e il territorio brullo infinito.
Odio, rabbia, disperazione, promiscuità, la consapevolezza di non uscirne vivi. Freddo, gelo, privazioni e ancora freddo insopportabile, le mani che si ghiacciano, le dita dei piedi congelate, nasi che si staccano....ecco abbiamo un esempio vero di inferno in terra.
Sembra. che il genio dello scrittore ne rimase talmente provato da quella esperienza, che la sua salute mentale, quando miracolosamente ne uscì fuori, ne risultò provata e devastata, che poi quell'aurea di depressione, di sconfitta, di mestizia si sia riversata inesorabilmente nei capolavori che ci ha regalato nel corso della sua esistenza.
Come dice il titolo illuminante: sono queste delle memorie che provengono dai già morti, dai resti viventi di disperati, che il potere russo confinava ai margini estremi del proprio infinito territorio, per costruire strade, lastricare terreno, posare binari, erigere case, devastare foreste, in nome del progresso che si sarebbe da li a poco tinto di rosso, come il sangue che questi reietti della società avrebbero versato inesorabilmente, per pagare a caro prezzo le proprie malvagie azioni in alcuni casi, o opinioni che andavano contro il potere di allora.
Naturalmente chi si pone davanti a questo reale reportage da queste lontane e inaccessibili terre, deve avere cuore e coraggio per sopportare fino a che punto possa spingersi la follia e la cattiveria umana. In cambio avrà almeno uno scorcio su quello che spesso viene definito: un inferno in terra.
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Funzione diseducativa della pena
La casa dei morti si trovava in Siberia " Qui era un mondo particolare che non somigliava a nulla; qui c'erano le sue leggi speciali, i suoi usi, i suoi costumi, le sue abitudini: era una casa di morte vivente, una vita come non esiste in nessun altro luogo, e della gente che non ha pari." Un forzato, che ha trascorso dieci anni in uno di questi carceri ci racconta la sua esperienza. Esperienza in un certo senso privilegiata, perchè si tratta di un nobile e quindi guardato con sospetto dai colleghi, ma beneficiato da insignificanti, per noi, ma infinitamente importanti per lui, privilegi. Camerate maleodoranti ed infestate da cimici e pidocchi accompagnano le sue notti. Il risveglio è accompagnato da igiene sommaria, colazione inadeguata ed abbigliamento del tutto inconsistente viste le condizioni climatiche in cui dovrà lavorare. Il lavoro è sfiancante, ripetitivo, a volte inutile e necessario solo a riempire il tempo. Risse e ubriacature sono gli unici svaghi, a volte tollerati, a volte puniti in modo inspiegabilmente severo. Gli amici sono animali rognosi e male in arnese, vicini di letto che alla prima occasione si approfittano della disattenzione degli altri. Infine l'uscita e la libertà. tanto desiderata da far paura, tanto enorme da essere quasi ingestibile.
Un libro, che come è tipico di Dostoevskij a tratti diventa pesantino, anche se più scorrevole di altre sue opere. L'autore, che ha sperimentato le carceri russe, riesce comunque a dare un quadro completo di quella che doveva esere questa esperienza. Decisamente qui la rieducazione o il recupero dei delinquenti è l'ultima delle preoccupazioni. Terribili sono le descrizioni delle punizioni corporali e degli espedienti adottati per rimandarle di qualche giorno. Mettono i brividi sia le condizioni delle, per così dire, camerate in cui sono alloggiati i deportati e ancora di più delle condizioni inimmaginabili dell'ospedale. Danno un lume di speranza alcuni slanci di tenerezza verso gli animali o qualche tentativo di continuare a vivere in modo normale. Forse dopotutto la funzione diseducativa di qusto tipo di sistema carcerario non è riuscita completamente nel suo intento.
Bel libro che consgilio di leggere un po' per riflettere un po' perchè il signor Fedor con la sua follia e le sue manie è pur sempre un grande scrittore.
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Il gelo della Siberia
Nell'ampia produzione letteraria di tutti i tempi, l'esperienza carceraria è stata spunto di scrittura per opere di gran valore.
Anche Dostoevskij percorre questo filone e pur essendo alle prime prove letterarie, lo fa in maniera brillante ed intensa.
Il racconto è minuzioso sia per la rappresentazione della quotidianità tra le mura di una baracca dormitorio, delle attività dei deportati nel campo di lavoro, delle condizioni di vita aberranti a prescindere dalla gravità della pena da scontare, talvolta esigua o nulla come insegna la storia personale dell'autore russo, sia per la profondità che la penna riesce a donare alle pagine.
Fedor non si limitò alla mera scrittura di un diario su cui annotare il lento e logorante scorrere del tempo in attesa della libertà, ma prestò la sua voce per svelare il lato più oscuro e nello stesso tempo più umano della prigionia e della coercizione.
Le immagini scorrono patinate di grigio, pregne di dolore e sofferenza, cariche di rammarico più che di odio.
Già da questo scritto si percepisce tutta l'attenzione e l'interesse dell'autore per la condizione umana, per la sfera più intima sottesa a ciascun individuo in quanto tale a prescindere dalla condizione sociale in cui è avvezzo a vivere.
Un racconto che nasce dalla fusione di numerose storie, tutte tragiche, tutte dolorose, unite da un fine ultimo comune, quello della speranza e della redenzione.
Si tratta di una lettura dal contenuto prezioso, testamento e testimonianza, che richiede un piccolo impegno per poterla affrontare al meglio; infatti taluni racconti prima di astrarre a concetti di carattere generale, conducono attraverso tante pagine di vita spicciola e di dialoghi intercorsi, rischiando di produrre un calo di attenzione.
Nel complesso, un pezzo letterario da conoscere per chi già ha letto il russo e per chi ancora non l'avesse letto.
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Umanità degradata
Il romanzo, antecedente ai tre capolavori “L’idiota”, “I demoni” e “I fratelli Karamazov”, rappresenta un particolare accadimento nella vita dello scrittore quando venne arrestato, nel 1849, e poi deportato in Siberia ai lavori forzati a Omsk, nel gennaio del 1850, perché colpevole di appartenere a un’organizzazione sovversiva.
La narrazione è per lo più autobiografica anche se, nella prefazione, indica un immaginario ex recluso, deportato per aver ucciso la moglie, che gli ha fornito un manoscritto nel quale racconta i suoi anni passati a scontare la pena in un campo di lavoro della Siberia.
L’autore racconta, nei minimi particolari e con profondità di linguaggio, la vita vissuta in mezzo al ghiaccio e alla disperazione da parte di una variegata comunità di esseri umani che devono scontare una pena detentiva per delitti diversi; dalla divergente opinione politica all’omicidio, dalla corruzione allo stupro. I reclusi condividono, quindi, la sola sofferenza che non fa distinzione tra ceto sociale e tipo di crimine commesso; tutti cercano una ragione per la sopravvivenza in un ambiente degradato dove la fame, la malattia, il freddo intenso e le punizioni corporali inflitte dalle guardie-aguzzini, sono una routine giornaliera senza soluzione di continuità. In un luogo così promiscuo possono, comunque, verificarsi episodi di solidarietà e pietà tra coloro che anelano alla fine della detenzione e a tornare a vivere come esseri umani.
In tali condizioni di vita l’uomo perde la propria dignità e, solo per pochi, l’unico conforto è la preghiera supportata dalla speranza e dalla convinzione dell’esistenza di un Dio che possa ascoltare e alleviare i patimenti che sono spesso estremi.
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Diario di una prigionia
Con un’opera che appare più un libro di denuncia che un vero e proprio romanzo, Dostoevskij cerca di raccontare la sua esperienza carceraria seguita ad una condanna per crimini politici. Lo fa attraverso le vicende di un personaggio di fantasia che però appare palesemente un vero e proprio alter ego del grande maestro russo. Il protagonista della storia è il nobile Aleksandr Petrovi? Gorjan?ikov, condannato a dieci anni di lavori forzati in Siberia per aver ucciso la moglie in seguito ad un attacco di gelosia. Con il suo stile pacato l’autore descrive sotto forma di diario l’aspra vita in prigione, le difficoltà di ambientamento e di convivenza tra gente di ogni risma, le discriminazioni e i privilegi, la durezza del lavoro e la crudeltà delle punizioni corporali. Ma anche le amicizie, la solidarietà, il bisogno di evadere dalla routine quotidiana, i sotterfugi per guadagnarsi pochi copechi utili a soddisfare qualche effimero desiderio. Dostoevskij è come sempre straordinario nel tracciare i profili interiori dei vari personaggi che si aggirano per la prigione e nel proporre al lettore interessanti riflessioni sulla condizione umana. La situazione del recluso appare infatti una sorta di metafora della comune vita dell’uomo che, anche se libero, si trova senza rendersene conto incatenato a prigionie di carattere morale e materiale e, proprio come quando si è in prigione, ha poche cose cui aggrapparsi: la fede, la propria forza interiore, la speranza. E la speranza è sempre quella di poter un giorno togliersi le catene e oltrepassare il recinto del carcere per riavere la tanto agognata libertà. In tal proposito Dostoevskij chiude il libro con queste parole: “Le catene caddero. Io le sollevai… Volevo tenerle in mano, guardarle per l’ultima volta. Ora mi meravigliavo pensando che un momento prima stringevano le mie gambe. Su, Dio vi accompagni, Dio vi accompagni!, dissero i forzati con le loro voci ruvide, affannose, ma che avevano un accento di soddisfazione. Si, Dio ci accompagni! La libertà, una vita nuova, la risurrezione dai morti… E’ un momento magnifico!”