Lettere a un giovane poeta
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Accogliere il difficile
Avverto un lieve disagio ad iniziare la recensione di questo breve libro, e per diversi motivi. Rilke intanto non ne sarebbe felice. È lo stesso autore a chiarire il proprio modo di intendere la critica letteraria:
«nulla può tanto poco toccare un'opera d'arte quanto un discorso critico […] una delle professioni irreali e semiartistiche (la critica), che mentre illudono d'una vicinanza all'arte, praticamente negano e attentano l'esistenza d'ogni sua espressione».
Come se non bastasse, mi avvio a scrivere di pagine sorte non per la pubblicazione editoriale ma per la lettura privata d'un singolo (un giovane poeta) che in vita ebbe la fortuna di intrattenere una corrispondenza epistolare con uno fra i più grandi lirici del suo tempo.
Non dirò null'altro su Rainer Maria Rilke, ma concedetemi di trascrivere qui una poesia, il primo dei suoi componimenti, in cui io ebbi la fortuna di imbattermi.
Il poeta
«Da me t'allontani, tu Ora:
ferite mi dà il tuo colpo d'ala.
Solo: che debbo far con la bocca?
Con la mia notte? Col mio giorno?
Io non ho amata, non ho casa,
nessun luogo su cui viva.
Tutti gli oggetti, a cui mi dono
diventan ricchi e mi spendono.»
Dunque inizio e possa tu scusarmi Rilke.
Tra il 1903 ed il 1908, Kappus, un ventenne austriaco, sfogliò, probabilmente con le mani tremanti per l'emozione, una serie di missive arrivategli in risposta al suo accorato interrogativo: debbo io scrivere?
Il pretesto di dissertare in merito alla creazione artistica viene colto e sviluppato, ma ben presto il lettore si accorgerà di come esso si dissolva in una riflessione sull'esistenza, perché in fondo: «anche l'arte è solo una maniera di vivere».
Il pensiero di Rilke profuma di Romanticismo e così due sono i movimenti esistenziali che l'artista deve compiere: discendere nelle viscere della propria interiorità e osservare la natura.
“Ingenuo Rilke!” Tuoneranno i cinici...
Ma s'ingannerebbero, poiché fra queste pagine di elegante prosa si cela molto più di quanto sembri.
Il ruolo della natura è per Rilke quello di Hegeliana memoria: lo “spirito del tempo” che si attualizza permettendo alla bellezza di essere “ovunque”; ogni uomo quindi è piccola parte di una grande gestazione che lo trascende, e così si può solo cominciare ciò che poi non si vedrà.
Se vi è però una strada da percorrere nel mondo, questa è quella dell'attenta solitudine, un concetto che diviene filosofico: la solitudine, come tutto ciò che è difficile da sostenere, è un valore che si oppone alla vuota comunione triviale (con cui l'uomo distratto facilmente si appaga).
Ed ecco allora il vero coraggio: rifuggire dalle felicità semplici e immediate per accogliere la nostra esistenza quanto più ampiamente ci riesca, abbracciando così la paura e il mistero, ma soprattutto le difficoltà.
Rilke è a tratti spietato quando afferma che gli uomini vili hanno recato danno alla vita cacciando via le loro esperienze insolite per difendere la "piccola" sicurezza del quotidiano; il risultato ottenuto: un “rattrappimento dei sensi”.
Nel dire tutto questo però Rilke non sale in cattedra né assume toni didascalici, è un uomo che soffre, è malato di incertezza come tutti lo siamo, ma è anche tanto sensibile da poter consigliare: bisogna educare il dubbio, palpare le forme del proprio carcere, perché si è malati e medici di se stessi.
Il pessimismo si fa verbo nelle sue parole «noi siamo soli» le quali, dopo aver incontrato i miei occhi, hanno condotto i miei pensieri a dei versi di Fabrizio De Andrè a me molto cari:
«questo ricordo non vi consoli quando si muore si muore soli, questo ricordo non vi consoli quando si muore si muore soli»
Il collegamento non è azzardato se lo si legge come un ribaltamento, perché il poeta fa del "ricordare" uno strumento privilegiato e consolatorio: la vera grandezza è il ritorno all'infanzia (un ritorno letterale in quanto soltanto da bambini si è fortemente influenzabili ma al contempo totalmente liberi dalle convenzioni opprimenti) e un ritorno mnemonico sulla scia dei propri ricordi (definiti da Rilke una “ricchezza preziosa e regale”).
Tra le pagine che tanto ho apprezzato c'è posto anche per l'amore, l'amore è difficile, e tale difficoltà lo legittima: voler bene da uomo a uomo è il compito imposto ad ognuno di noi, e così, nel trionfo della femminilità che deve riscattarsi per divenire autonoma, Rilke afferma cosa debba essere davvero l'amore: «due solitudini che si custodiscono.»
Nel giorno di natale Rilke scrive anche del rapporto umano con la fede in Dio («Cristo fu illuso dalla sua nostalgia») offrendo una profondità artistica e spirituale che le mie leziose parole non sono in grado di restituire.
Ho anche sorriso durante la lettura del libro, mi è scappata una risata amara che si lega al nostro “bel paese” (Rilke si trova a Roma durante la scrittura di alcune lettere): «spero che (il libro allegato) non sia andato perduto, non sarebbe tuttavia un'eccezione con le poste italiane, purtroppo”.»
Si può essere tutti poeti dunque? Solo chi morrebbe se fosse costretto a non scrivere potrà trovare «nell'ora più silenziosa della propria notte» una risposta nel profondo del cuore; tuttavia ognuno dovrà imparare almeno ad essere uomo, e per chi non dovesse farcela Rilke ha parole di conforto:
«Perchè credetemi: la vita ha ragione in tutti i casi.»
Il vostro (e nostro)
RAINER MARIA RILKE
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'La voce delle cose'
" Essere artisti significa: non calcolare o contare; maturare come l'albero che non incalza i suoi succhi e fiducioso sta nelle tempeste di primavera, senza l'ansia che dopo possa non giungere l'estate. L'estate giunge (...) a chi è paziente e vive come se l'eternità gli stesse innanzi ".
Le lettere contenute nell'agile volumetto, spedite da Rilke essenzialmente negli anni 1903-04 in risposta a sollecitazioni di un giovane poeta, ci danno un pregevole contributo per comprendere il pensiero dell'Autore su letteratura e ruolo dell'artista.
Rilke scrive in un periodo che ha ormai messo in irreversibile crisi il Positivismo e che elabora la concezione dell'arte come intuizione. E' l'epoca della pascoliana teoria del Fanciullino. Rilke non si discosta da questa posizione, ma ne dà una visione più moderna e personale.
Benevolmente rimprovera il giovane poeta di guardare troppo all'esterno e lo invita a rivolgersi "nel punto più profondo del suo cuore". Se così sgorgherà poesia, gli consiglia di non dipendere da eventuali pubblicazioni; l'importante è che i versi prodotti siano "una scheggia e un suono della sua vita".
Non crede quindi che l'arte sia un mestiere, ma una realizzazione che nasce da reale necessità, urgenza interiore.
Gli dice di cogliere la "tremula eco del ricordo" e di leggere "il meno possibile testi di critica estetica" : la critica tramonta con le mode; l'arte rimane a sfidare i secoli.
L'umiltà è virtù da praticare assolutamente per giungere all'autenticità: attenersi alla natura, maturare l'amore per le piccole cose, per ciò "che è invisibile ai più e può d'un tratto farsi grande e incommensurabile" : "allora tutto le diverrà (...) quasi più conciliante (...) nella sua più intima e vigile coscienza, e conoscenza".
Dunque, l'arte come conoscenza; l'artista che 'si fa veggente' , come diceva alcuni anni prima Rimbaud.
Se si legge ad ampio raggio, questa prosa bellissima tende ad essere anche fonte di riflessione per la vita.
Rilke non tratta solamente di arte e poesia, ma dà informazioni sulla propria esistenza errante per l'Europa, sul proprio stato di salute e dialoga perfino su aspetti intimi. In un periodo e in una cultura che tendono a rimuovere problematiche scomode, egli parla di "un mondo sessuale non pienamente maturato e puro, (...) carico degli antichi pregiudizi e orgogli con cui il maschio ha sfigurato e oppresso l'amore". Siamo ad inizio '900 e le prime suffragette sfilano per le vie di Londra, ma la questione femminile è ancora lontana dal diventare argomento di discussione in questi termini, anche se figure quali Lou Salomé e Sibilla Aleramo compaiono già, come scandalose presenze.