La strada di Swann
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UN’EVOCAZIONE DEL PASSATO
Primo volume della Recherche, Du côté de chez Swann, tradotto in Italia, a seconda delle edizioni, in Sulla strada di Swann (Einaudi) o Dalla parte di Swann (Mondadori), inaugura il vero romanzo moderno europeo, che segna più di tanti altri capolavori di riferimento del periodo, una rottura definitiva con la tradizione narrativa ottocentesca.
Non a caso, anche se soprattutto per pregiudizi nei confronti dello snobismo del suo autore, non ricevette il plauso del grande scrittore Andrè Gide, ingaggiato dall’editore Gallimard per scovare nuovi talenti e Proust fu costretto a rivolgersi al giovane (e coraggioso), nonché quasi sconosciuto editore Grasset e a pubblicarlo a sue spese. Era il 1913 e la risonanza dell’opera fu tale, che lo stesso Gide, ne dovette riconoscere la grandezza e fare pubblica ammenda nei confronti di Proust.
Alla ricerca del tempo perduto è un’opera impegnativa, si tratta di sette corposi volumi, è forse la saga romanzesca più lunga della storia della letteratura, oltre quattromila pagine: è naturale che ci si avvicini ad essa con un po’ di timore reverenziale e con la consapevolezza che la lettura dell’intera opera richieda mesi o anni. Lo stesso autore vi ha lavorato ininterrottamente da che aveva 37 anni fino a pochi istanti prima di morire, per una complicanza dell’asma di cui soffriva dall’infanzia, all’età di 51 anni. Céleste Albaret, la governante che si è occupata di Proust fino alla fine, qualche anno dopo la scomparsa del padrone, ha rotto gli indugi e ci ha lasciato una sorta di racconto delle giornate del grande scrittore, della sua malattia, delle sue notti passate a scrivere la Recherche fino a ridursi ad “una mano che scriveva” quel romanzo della sua vita che lo avrebbe finalmente consacrato scrittore (Monsieur Proust, Céleste Albaret, edizioni SE 2017).
Per apprezzare Proust, il lettore formatosi sul romanzo europeo dell’Ottocento, deve rassegnarsi a non trovare più il narratore che tiene sotto controllo trama e personaggi, perché è diventato inattendibile e la trama è quasi assente, così come è assente il narrare in terza persona. Queste sono le caratteristiche del Romanzo europeo del primo Novecento e le si possono trovare anche in altri autori, ma la vera rivoluzione, unica ed irripetibile consiste nello stile proustiano.
Il periodare di Proust è talmente nuovo -parola dei traduttori (Giovanni Raboni, Natalia Ginzburg) - la sua “voluta”, il suo periodo lungo anche più di venti righe, rappresenta una rottura con la stessa sintassi francese degli scrittori contemporanei.
L’opera di Proust è un universo a sé stante, coi suoi continui flashback, col suo personaggio-narratore interno che non è propriamente autobiografico, o lo è solo in parte e racconta più eventi, o meglio, più ambienti della Parigi di fin de siècle fino alla fine della prima guerra mondiale, muovendosi tra alta borghesia e alta aristocrazia terriera.
Dalla parte di Swann è diviso in tre parti: nella prima si raccontano i ricordi vissuti dal narratore da bambino in un luogo definito, Combray, le visite alla zia Léonie, i primi desideri, ingenui e indefiniti, d’amore infantili, l’attaccamento forte alla figura materna; nella seconda, per me la più bella, si narra della triste storia d’amore tra il signor Swann - di cui il narratore da bambino aveva sentito tanto parlare dai familiari- e la cocotte Odette de Crécy; nell’ultima parte, Nomi di paesi, il nome ci sono immaginifiche evocazioni che certi nomi di città italiane (e non solo) suscitano alla fantasia del protagonista. In quest’ultima parte si gettano le basi per il volume successivo, dove campeggerà lo struggente amore dell’io narrante per Gilberte Swann.
Proprio nelle pagine di Combray, compare il primo squarcio nel presente, una vera irruzione del passato alla coscienza dell’io narrante.
Un giorno d’inverno, sua madre lo aveva invitato a bere del tè con dei dolcini tipici, morbidi e bombati al centro, detti madeleines. Il protagonista invaso dal sapore e dal profumo di queste, sente risvegliare dentro di sé una forza sconosciuta, di cui sulle prime non riesce ad afferrarne le origini.
Ed ecco le più celebri pagine della letteratura mondiale:
“(…) nello stesso istante in cui quel sorso frammisto alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. Di colpo, m'aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, allo stesso modo in cui agisce l'amore, colmandomi di un'essenza preziosa: o meglio, questa essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde mi era potuta venire questa gioia potente?”
Dopo vani tentativi in cui cerca di isolare queste sensazioni di felicità indefinita, quasi divina, perché il protagonista sente di avvicinarsi a qualche forma di verità, viene travolto dal ricordo legato a quel profumo e a quel sapore. Tutti gli strati del passato più recente e del presente più remoto svaniscono e l’io narrante vive, vive in tutta la sua pienezza, il momento in cui la zia Léonie, la domenica, quando lui era bambino, gli offriva del tè con gli stessi dolcetti.
Ecco l’origine di quel bagliore di felicità intermittente che spesso affiora agli strati più superficiali della nostra coscienza: un profumo, un colore, una melodia o meglio, una frase di una melodia (perché un altro squarcio sarà originato proprio dall’ascolto di una sonata al pianoforte) possono accendere la nostra “memoria involontaria” e farci toccare per pochissimi attimi il nostro passato. E il passato contiene in sé una qualche forma di verità, è realtà tangibile.
“Così è del nostro passato. È fatica inutile cercare di evocarlo, tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono vani. Esso si nasconde, fuori del suo dominio e della sua portata, in qualche oggetto materiale (nella sensazione che quell'oggetto materiale ci darebbe), che noi non supponiamo. Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, o che non lo incontriamo”.
Innumerevoli i passaggi sottolineati, letti, riletti ed ascoltati: Proust è una esperienza di lettura unica. Ho amato particolarmente la seconda parte, ho visto nel signor Swann una sorta di alter ego dello scrittore, il suo frequentare i salotti mondani, la vacuità e le ipocrisie dei nuovi arricchiti (la famiglia Verdurin e il suo club esclusivo di “fedeli” tra cui l’amata Odette) e l’atteggiamento sprezzante dell’aristocrazia di nobile lignaggio che lo stesso autore frequentava.
È la sezione dedicata parzialmente alla vita del dandy, che ricerca il piacere, il bello, è educato all’arte e alla musica, è dannunzianamente “intriso d’arte”. Tutta la Recherche , a differenza del naturalismo francese che l’aveva preceduta, è ben lontana da ogni impegno e denuncia sociale.
Il piacere che si prova a leggere Proust consiste nell’ accorgersi che qualcuno per noi mette su carta, con prosa unica e stile irriproducibile, i nostri pensieri più inconfessabili, rivela le nostre sensazioni più difficili da descrivere ed elaborare. Proust le ha scritte per noi.
Manca ogni tentativo di idealizzare protagonista e personaggi, l’opera si muove su uno scandaglio continuo, su una indagine instancabile dell’animo umano e nei rapporti sociali. È uno spaccato della vita borghese dell’epoca, una testimonianza illustre, un diario della coscienza, un colosso letterario.
Proust non dovrebbe essere uno scrittore di nicchia, una squisitezza per pochi adepti, ma un autore universale che, come dice Franco Fortini in una intervista, “insegna a vivere e a morire”.
“Ma, quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l'immenso edificio del ricordo”
“Come osserva il critico francese Arnaud Dandieu, Alla ricerca del tempo perduto è un’evocazione del passato, non una sua descrizione. L’evocazione (…)è costruita mettendo in luce momenti di vita scelti con cura, che costituiscono una serie di illustrazioni, di immagini. (…) La chiave per ritrovare il passato è quella dell’arte. La caccia al tesoro ha il lieto fine in una grotta invasa dalla musica, in un tempio ricco di vetrate istoriate. Gli dei delle religioni tradizionali sono assenti, o forse, più correttamente, sono dissolti nell’arte” (Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura, Adelphi, 2018)
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LA RESURREZIONE DEL TEMPO
Usando il procedimento della sineddoche (ossia, la singola parte che spiega il tutto), si può affermare che il primo dei sette romanzi che compongono “Alla ricerca del tempo perduto” riproduce alla perfezione l’intero universo artistico proustiano. Esso è infatti tanto un romanzo sulla memoria e sul tempo (“Combray”) quanto un romanzo sulla società dell’epoca (“Un amore di Swann”). Ambedue le ambiziose tematiche, impregnate di filosofia (soprattutto Bergson e i suoi studi sul sogno e sulla memoria inconscia) e di acute notazioni psicologiche, sarebbero di per sé sufficienti a garantire all’opera di Proust la patente di capolavoro, assolvendola altresì in anticipo da qualsiasi eventuale accusa (peraltro ingiustificata, come si vedrà più avanti) di calligrafismo e di eccessiva ricercatezza formale. Infatti lo scrittore francese compie una vera e propria operazione di magia, facendo riaffiorare nelle sue pagine la memoria del tempo che fu, in una rappresentazione del passato minuziosissima non solo nei dettagli fisici ed esteriori ma anche e soprattutto in quelli immateriali, come un odore o un sapore (“Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo”). Così una semplice madeleine (la celeberrima madeleine proustiana, gioia e tormento di intere generazioni di studenti liceali!) permette all’autore di recuperare come per incantesimo il passato della sua infanzia a Combray (“E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè”). La bravura e l’originalità di Proust consiste specialmente nel coniugare l’involontarietà del processo di affioramento del passato, opera di sensazioni improvvise e incontrollabili e di un meccanismo eminentemente inconscio o casuale (“E’ uno sforzo vano cercare di evocarlo (il passato), inutili i tentativi delle nostre intelligenze. Se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale… Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, oppure che non lo incontriamo mai”), con l’artificiosità di un progetto lungamente meditato ed elaborato a tavolino, con lucido e disincantato raziocinio. Da questa aporia deriva il fascino di Proust, il quale naviga in miracoloso equilibrio tra mondo sensoriale e mondo razionale, tra istinto e intelletto, tra coscienza e cervello. In questo modo, mentre salvaguarda la purezza e l’innocenza delle emozioni del fanciullo, riesce a conservare intatte le facoltà critiche dell’adulto.
C’è una pagina in cui si coglie appieno quanto detto sopra, vale a dire quella in cui l’autore bambino, durante la consueta passeggiata postprandiale con i suoi genitori, si accorge per la prima volta del “disaccordo fra le nostre impressioni e la loro espressione abituale”. Il sole che, dopo la pioggia, illumina coi suoi riflessi le tegole dei tetti e le acque dello stagno incontrati durante il cammino strappa infatti al protagonista una banale esclamazione di entusiasmo. “Ma immediatamente sentii che sarebbe stato mio dovere non accontentarmi di quell’opaca esclamazione e cercar di vedere più chiaro nel mio trasporto”. Diventato adulto, Proust ha riversato nella “Ricerca” quella sua originaria esigenza, mettendo in opera il più grandioso, il più meticoloso, il più analitico sforzo mai tentato prima d’allora di restituire sulla pagina scritta, e nonostante gli anni passati, le più piccole e insignificanti sfumature delle sue esperienze giovanili, anche le più fugaci e transitorie (come l’influsso che i biancospini primaverili risvegliano nell’animo sensibile ed eccitabile del fanciullo o l’esaltazione provocata dalle solitarie passeggiate “dalla parte di Swann”, esacerbata dal turbamento adolescenziale di una apparizione femminile da lui evocata), arricchito in più da una matura e ponderata capacità di decrittarle alla luce dell’esperienza degli anni trascorsi. Il lettore ha così la possibilità di assistere al titanico tentativo dell’autore di restituire fedelmente la verità oggettiva che è nascosta dietro ogni cosa vissuta nel passato e che nel passato è stata solo intuita, vissuta come mera emozione, attraverso un sofisticatissimo processo di razionalizzazione e rielaborazione del ricordo, il quale giustifica appieno l’impegnativa affermazione che “la realtà non si forma che nella memoria”.
Collocato subito dopo la fantasmatica evocazione dell’infanzia di “Combray”, “Un amore di Swann” sembra appartenere ad un altro romanzo. Qui Proust lascia temporaneamente da parte l’intimismo delle pagine precedenti per dedicarsi all’analisi dei rapporti sociali, facendolo non solo con la consueta maestria ma anche con quell’impareggiabile ironia che già in “Combray” gli aveva permesso di tratteggiare alcuni impagabili “tipi” come zia Leonie e Legrandin. Reciprocamente accostati dall’autore grazie alle contemporanee frequentazioni del personaggio principale, Swann, l’aristocrazia e il demi monde sono dipinti impietosamente, con tutti i loro snobismi, tic, ipocrisie e meschinità, ma mai con acredine e cattiveria, senza cioè la volontà di demistificare una classe sociale cui Proust - non dimentichiamolo - apparteneva. Al contrario, i “fedeli” del salotto Verdurin e i nobili amici di Swann sono visti con una arguzia bonaria che non sfocia mai nella comicità triviale o nella satira da vaudeville, consentendo nondimeno all’autore di scrivere, con la sapida rappresentazione della serata mondana organizzata da Madame de Saint-Euverte, pagine così deliziose da rivaleggiare con (e forse superare) i maggiori capolavori della letteratura umoristica di tutti i tempi.
Inserita all’interno della descrizione del bel mondo parigino di fine ‘800 e abilmente intrecciata con essa (come si può vedere nella lunga sequenza in cui Swann cade in disgrazia agli occhi dei Verdurin e contemporaneamente Odette mostra di preferirgli un loro blasonato ospite) c’è poi la storia d’amore tra Swann e Odette, la quale, per profondità di analisi e spessore psicologico, può essere considerato un mirabile e accuratissimo trattato sull’innamoramento e sul rapporto amoroso. La parabola dell’amore di Swann per Odette passa attraverso le varie fasi della sublimazione dell’essere amato, dell’esclusivo desiderio del suo possesso, della cristallizzazione del sentimento nelle abitudini quotidiane, della gelosia devastante come una malattia e infine della delusione quieta e rassegnata, tutte esposte nelle loro più microscopiche sfumature psicologiche. Il rapporto tra i sessi è visto come una sottile e quasi diabolica lotta di potere, a stento camuffata dalle convenzioni e dal bon ton, in cui a cedere è inesorabilmente il partner più innamorato, ma l’amarezza di questa constatazione è stemperata dalla lontananza temporale della storia e dal fatto che sappiamo già dalle pagine iniziali del romanzo come essa sia finita. In questo senso, la chiusa di “Un amore di Swann”, con l’apparentemente definitiva e liberatoria presa di coscienza da parte del protagonista di aver perso anni della sua vita dietro a una donna inferiore che non lo merita affatto, suona ironica e beffarda alla luce del successivo matrimonio tra i due.
Nelle cinquecento pagine di “Dalla parte di Swann” lo stile di Proust non ha mai una caduta, mantenendosi su livelli prodigiosamente alti. Il suo stile, fatto di interminabili periodi dilatati a dismisura dalla presenza di numerose subordinate e parentesi, rompe definitivamente con la tradizione del romanzo ottocentesco, prima ancora e forse più radicalmente di Joyce. Negli anni in cui Monet e i suoi colleghi impressionisti cercavano di trasferire sulla tela tutte le modulazioni della luce su un particolare soggetto (ad esempio, le numerose vedute della cattedrale di Reims alle diverse ore del giorno), Proust può anch’egli a buon diritto essere definito “impressionista” per la sua virtuosistica capacità di descrivere, con parole mai udite prima, l’indistinto apparire dei raggi del sole sulla superficie del balcone oppure una semplice sonata musicale (“al di sotto della tenue linea del violino, esile, resistente, densa e direttrice, aveva visto a un tratto cercar d’innalzarsi in un liquido sciabordio la massa della parte per pianoforte, multiforme, indivisa, piana e internamente ribollente come l’agitazione color malva dei flutti incantati e bemollizzati dal chiaro di luna”. Le sensazioni, i moti psicologici e i fremiti della natura non sono solo descritti da Proust nel loro minuzioso, soggettivo, emergere alla coscienza, ma anche per mezzo di analogie e paragoni che li oggettivano, li reificano in un affascinante processo di carattere simbolico. Il parlare per analogie è una caratteristica peculiare della scrittura proustiana, un vero e proprio leit motiv (un solo esempio pescato tra i tanti: “…i rumori più distanti, quelli che dovevano venire da giardini situati all’altro capo della città, si percepivano in dettaglio con una tale finitezza che sembravano dovere un simile effetto di lontananza unicamente al loro “pianissimo” come certi motivi in sordina eseguiti dall’orchestra del Conservatorio così bene che l’ascoltatore, pur non perdendone una sola nota, ha l’impressione di sentirli risuonare dal di fuori della sala, e tutti i vecchi abbonati… tendevano l’orecchio come se stessero ascoltando il remoto clamore di un esercito che, avanzando nella sua marcia, non avesse ancora svoltato per rue de Trévise”), oltre che uno dei vari motivi stilistici i quali, insieme alla raffinata levigatezza delle frasi, alla ineguagliabile profusione di aggettivi e alla originalissima varietà lessicale, fanno di “Dalla parte di Swann” un caposaldo della letteratura del ‘900, tanto più importante perché non è altro che il primo capitolo di un progetto (“Alla ricerca del tempo perduto”) molto più ampio e composito.
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Verità e bellezza
“Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera”. E' l'incipit del libro, il primo dei sette che compongono la Recherche, capolavoro che sembra scritto da Proust solo per quei lettori che riescono a star dietro alla sua ispirazione, ad accettare i capricci dell'estro creativo, le pulsioni dell'animo, i singhiozzi “mai cessati” di se stesso bambino, che si struggeva nell'attesa della madre per il bacio della buonanotte.
L'opera è a tratti come un caleidoscopio di colori da cui all'improvviso emerge un'immagine nitida, che ci parla di cose e persone passate, ma in qualche modo ancora vive e palpitanti. Attraverso pensieri arabescati, gustose similitudini e un'ironia sottile, in questo primo volume lo scrittore crea luoghi e personaggi ispirandosi alla sua infanzia: i genitori, la nonna eccentrica, la zia ipocondriaca smaniosa dei pettegolezzi di giornata, gli amici di famiglia. E poi le buffe uscite della fedele domestica, donna di mezz'età che resterà cristallizzata nel tempo.
Momenti del passato, attimi di gioia che si credevano perduti per sempre riemergono a sorpresa da sapori, odori e immagini del presente, a rammentare che ciò che la mente dimentica il cuore custodisce, sia pure nei suoi angoli più remoti, secondo logiche misteriose.
Alla ricerca di “verità e bellezza” Proust analizza meticolosamente tutto lo scibile delle emozioni umane, le viviseziona quasi, senza peraltro perdere quella grazia poetica che caratterizza il suo stile.
Swann, colto e raffinato uomo di mondo, vicino di casa e amico, è il protagonista della seconda parte del libro, incentrata sugli effetti perniciosi del mal d'amore.
Amore, nel caso specifico, per una donna dai costumi discutibili, una cocotte d'alto bordo, che s'insinua nell'uomo come un veleno, lentamente ma inesorabilmente, riducendolo ad uno zerbino. Pochi scrittori prima e dopo Proust sono riusciti a descrivere in maniera così vivida lo stato patologico di esaltazione di cui è vittima chi è irretito da una passione che ne assorbe ogni energia vitale.
Sappiamo che la sposerà, lo sappiamo fin dall'inizio, ma succederà paradossalmente quando, finalmente libero, avrà smesso di amarla.
Perché non è solo il tempo ad essere relativo, ma anche i moti del nostro cuore, quei sentimenti che sembravano eterni, per cui avremmo dato la vita, e che nel presente non ritroviamo più.
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Lettura impegnativa
La strada di Swann è il primo dei sette volumi che compongono "La ricerca del tempo perduto". Un viaggio nella memoria che conduce il narratore a ritroso lungo tutta la sua vita, tutto comincia da una madeleine bagnata nel tè, da qui tutta una serie di ricordi dell'infanzia vissuta nella residenza di campagna,la dolcezza della nonna , le passeggiate nei boschi. La seconda parte del libro è dedicata all'amore e alla passione per una donna non solo di classe sociale inferiore, ma che si prende gioco di lui. Il suo forte desiderio di possedere quello che non può avere lo spinge tra le braccia di una donna che non lo renderà mai felice. Uno dei capolavori del Novecento, dove l'autore risalta i temi della memoria ,del tempo, la parte introspettiva, la descrizione dettagliata di scene che inducono a far riaffiorare i nostri stessi ricordi. Sicuramente è un opera che va letta data la sua importanza.
Una lettura molto poco scorrevole, impegnativa e lunga, per certi aspetti anche un pò noiosa soprattutto nella descrizione di luoghi e stati d'animo; un pò contorta passa da un ricordo all'altro e ci si perde il filo della narrazione, ma è pur sempre "Marcel Proust"