La Saga di Gosta Berling
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Dove i giullari si fanno chiamare cavalieri
Avendo deciso di dedicarmi il più possibile alla lettura di libri ispirati alla mitologia norrena durante maggio, ho pescato dalla libreria questo classico che, stando a quanto ho potuto carpire online, avrebbe elementi mitologici. In realtà questo aspetto è marginale e neppure circoscritto ai miti nordici, come potrebbe lasciar intendere l'ambientazione: ci troviamo di fronte ad una storia in cui mito, folklore e superstizione si mescolano insieme; e quindi possiamo trovare nel medesimo testo riferimenti al Yggdrasill (o al monte Olimpo), mescolati a spiriti naturali e vecchie bislacche scambiate per fattucchiere.
Questo quadro variopinto si colloca nella parte meridionale del Wärmland, regione della Svezia in cui è vissuta la stessa autrice, e ci porta in un mondo rustico popolato da contadini, massaie e fabbri, che mi ha ricordato un po' il Regno del Wessex di Thomas Hardy. La vicenda parte da un antefatto: Gösta Berling è un pastore alcolizzato e per questo suo vizio decide di abbandonare la vita religiosa; dopo un periodo di vagabondaggio, arriva nella tenuta di Ekeby dove diventa uno dei cavalieri della maggioressa, un gruppo di perdigiorno pari sua che passano il tempo tra partite a carte, canti e balli. Dopo alcuni anni si arriva all'effettiva premessa della storia: convinti che la maggioressa sia una strega, i cavalieri riescono a farla scacciare e a prendere il controllo di Ekeby e delle sue ferriere che gestiranno per un anno, ossia l'arco temporale coperto dal romanzo.
Inizialmente, la trama vera e propria risulta molto dispersiva perché si compone di piccoli episodi, alcuni dei quali sembrano inseriti soltanto per raccontare le storie dei personaggi secondari; andando avanti con la lettura diventa invece chiaro che Lagerlöf va intessendo un intreccio ampio e complesso, in cui anche il racconto più insignificante diventa in un secondo momento tassello fondamentale per la risoluzione finale.
Sul fronte dei personaggi sono meno convinta del risultato; abbia un cast ricco di figure patetiche e vittime dei loro vizi, e penso che in questo senso si sia calcato un po' troppo la mano, soprattutto con il protagonista. Non sono riuscita ad apprezzare il personaggio di Gösta proprio perché i momenti in cui si dimostra coraggioso o d'ispirazione per gli altri cozzano nettamente con tutto il resto e lo rendono incoerente, oltre a mostrare ben poco dei suoi reali pensieri. Ci sono comunque personaggi apprezzabili come Anders Fuchs -il mio preferito tra i cavalieri, nonché il protagonista del racconto più memorabile- ed il crudele Sintram, un antagonista molto affascinante nella sua ambiguità. E se è vero che gli uomini sono visti come i padroni in questa realtà, le donne del romanzo non subiscono passivamente il loro dominio, e personaggi come la maggioressa di Ekeby o Marianne Sinclaire risultano essere tra i più convincenti, nonché decisive per la storia.
L'ambientazione è forse il punto di forza del romanzo infatti, a dispetto della chiara collocazione spazio-temporale, si ha l'impressione di muoversi in un mondo altro popolato da personaggi mitici, dove le vecchie leggende hanno ben più di un fondo di verità. Questo compone un'atmosfera quasi fiabesca e dal clima surreale, in parte simile a quella de "Il maestro e Margherita": spesso non è chiaro se un evento sia reale oppure se i protagonisti si siano semplicemente lasciati suggestionare da pregiudizi e credenze popolari, come per la maledizione della strega di Dovre o per il patto mefistofelico stretto dai cavalieri per impossessarsi di Ekeby.
Lo stile di Lagerlöf, pittoresco ed evocativo, si adatta bene a questo paesaggio, soprattutto nei momenti in cui sceglie di dar voce agli animali del bosco o agli elementi naturali, come l'acqua che si sente prigioniera nella diga e cerca di evadere durante l'esondazione. La prosa si riflette anche nei temi della religione e del fantastico: da un lato vediamo la contrapposizione tra Dio ed il Maligno -personificato dall'usuraio Sintram- e dall'altro elementi di realismo magico e surrealismo.
L'edizione di Iperborea propone un'ottima traduzione che rende la lettura sempre fluida, ed è inoltre arricchita con qualche utile nota. La postfazione porta alcuni validi spunti, ma penso sia eccessivamente focalizzata sulle incongruenze in un romanzo dal taglio nettamente fantastico.
Tanti pregi e qualche diffettuccio perdonabile per una lettura che mi ha genuinamente stupito e, pur ruotando attorno ad un protagonista che non ho apprezzato affatto, ha saputo rimediare con tanti altri personaggi: in un cast così numeroso e variegato è impossibile non trovare un preferito.
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Le avventure di don Gosta
E' una lettura molto semplice, adatta a adulti e anche a ragazzi. Sembrano storie di altri tempi, storie della nonna da leggere d'inverno davanti al camino anche perchè c'è la neve, i lupi, il lago gelato su cui passano le slitte, il fiume in piena che durante il disgelo travolge ogni cosa. La trama ricorda un po' Dickens nel senso che molti personaggi sono semplici, non c'è quell'approfondimento psicologico e quel lavoro di scavo nell'inconscio del romanzo moderno. Quello che colpisce non è quindi lo stile, quasi che la scrittrice si rivolgesse a dei ragazzi e nemmeno la trama, semplice e curiosa, anche se molto ricca. Quello che impressiona di più è la visione del mondo dell'autrice e la tensione morale che c'è nelle vicende e nei personaggi. Lo sguardo dell'autrice sul mondo è curioso e allo stesso tempo ottimista. In tutti i personaggi e le situazioni c'è una tensione al bene che (con poche eccezioni) alla fine ha la meglio. In una narrativa contemporanea molto adulta e dove il male ha la parte del leone, leggere storie del genere ha un effetto benefico sulle coscienze, dà una iniezione di ottimismo, di fiducia nel mondo, nell'uomo, nella vita, nella capacità altrui e propria di fare e immaginare il bene anche rinunciando a qualcosa. Soprattutto per il fatto che è vistosamente buono, il libro merita di essere letto da adulti e ragazzi, anche se non è bellissimo. Interessante anche il modo materno dell'autrice di trattare i suoi personaggi: come se fossero dei ragazzacci che lei prende per le orecchie ma alla fine riporta sulla via della giustizia e dell'amore. Ma lo fa in modo simpatico e materno e non come se volesse fare il predicozzo al lettore.
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Dickens ma non nel senso che il personaggio buono se la cava alla fine, ma nel senso che il buono viene fuori da ogni personaggio (o quasi).