La lentezza
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Balla balla ballerino
Questo breve romanzo di Kundera mi ha riportato alla mente una canzone di Lucio Dalla, dalle parole “Balla balla ballerino tutta la notte e al mattino” in quanto lo stesso autore ceco definisce “ballerino” colui che desidera “occupare la scena perché il suo io possa rifulgere”. La parola viene così rivestita di un significato emblematico che descrive l’attuale condizione umana: gli individui tendono a volersi mettere in mostra, a occupare uno spazio per soddisfare un ideale pubblico, un bisogno di emergere. Una necessità amplificata dalla tecnologia moderna in quanto al giorno d’oggi è assodato che “tutti viviamo sotto l’occhio delle telecamere”. La società così costituita tende a vivere freneticamente, a provare emozioni usa e getta, continuamente bombardata da stimoli esterni.
“La nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità”.
In pratica Kundera attraverso il titolo scelto per questo libro si pone l’obiettivo di rimarcare quanto la vita, per essere degnamente vissuta, debba svolgersi sotto l’ombrello protettivo della “lentezza”. L’elogio della lentezza assurge così a valore che si contrappone alla velocità ed al facile oblio di quella felicità effimera propria del ballerino che desidera mettersi in mostra continuamente senza soffermarsi un istante. La lentezza è considerata un ozio nel senso migliore del termine e non nell’accezione data dalla modernità: “l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento, che gli manca”.
Per raccontare tutto questo prende come esempio un convegno di entomologia che si svolge all’interno di un castello in Francia, che diventa così l’occasione per sfoggiare quei (dis)valori della nostra società. Il simposio rappresenta una giustificazione per pianificare incontri amorosi estemporanei messi in piedi senza criterio, finalizzati al procacciamento di una notte di passione di cui vantarsi con gli amici per ottenere una gloria terrena. A questa messinscena della “velocità” si contrappone invece un modello tipicamente lento di corteggiamento in cui la tresca amorosa è vissuta rispettando quelle regole non scritte che, tracciate nel solco della lentezza, dimostrano quanto il piacere e la sensualità siano elementi saldi che si conservano nella memoria. Una lentezza di questo tipo va ricercata nel passato però, nel ‘700, un’epoca che ha saputo sapientemente valorizzare questa scelta di campo. Per spiegarlo Kundera prende a prestito un romanzetto del periodo che narra di una (lenta) notte di passione tra un giovane cavaliere ed una dama (“Senza domani” di V. Denon).
La lentezza rappresenta l’ennesima dimostrazione della grandezza dell’autore ceco, che ha scritto questo libro nel 1995 ergendosi a precursore della realtà quotidiana di oggi.
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I personaggi di Kundera
Finalmente ho capito che cosa mi urta nei libri di questo autore: l'apparente freddezza dei personaggi maschili che si scontra con la vulnerabilità di quelli femminili. Sembra quasi che gli uomini siano spettatori, avulsi dalla storia; che non abbiano proprio modo di evitare di fare soffrire chi hanno intorno. Reagiscono al dolore immergendosi in una nebbia isolante, sembrano intoccabili. Invece, i personaggi femminili soffrono follemente, si scontrano con l'ineluttabilità degli atteggiamenti di mariti e amanti, si sentono inadeguati, sballottati in un mondo in cui non hanno voce in capitolo. Kundera scrive bene e fa delle riflessioni acute, profonde, belle. Sicuramente da leggere, ma io lo trovo tristissimo. Il titolo si riferisce alla scarsa capacità dell'uomo di memorizzare il passato; se i ricordi non sono raccontati, commentati, risvegliati di continuo nei discorsi tendono a sparire e l'uomo vive ignorando una parte importante di se stesso, di quanto ha concorso alla sua formazione.
Ecco un brano tratto da "L'ignoranza" (a pag. 44): "D'improvviso, Irena è paralizzata da una visione: un gruppo di donne corre verso di lei brandendo dei boccali di birra e ridendo sgangheratamente. Lei coglie qualche parola in ceco e realizza con terrore che non è in Francia, che è a Praga ed è perduta".
Un altro passo che mi è piaciuto perché è uno dei pochi in cui anche gli uomini mostrano un lato umano - la paura della morte - è a pagina 57: "Suona e suo fratello, che ha cinque anni più di lui, apre la porta. Si stringono la mano e i guardano. Sono sguardi di un'immensa intensità e loro sanno esattamente di che si tratta; rapidamente, discretamente, il fratello spia nel fratello i capelli, le rughe, i denti; ciascuno sa quel che cerca nel viso che ha di fronte e ciascuno sa che l'altro cerca la stessa cosa nel suo. Ne provano vergogna, perché quel che cercano è la probabile distanza che separa l'altro dalla morte o meglio, per dirlo in maniera più brutale, cercano nell'altro la morte che traspare". Eppure, devo ammettere che mi scandalizza un po' questa competizione; dopo anni di separazione, due fratelli dovrebbero gettarsi l'uno nelle braccia dell'altro; Kundera è molto realistico e mi fa venire in mente il detto 'amor di fratello amor di coltello'. Mi viene spontaneo chiedermi: se i personaggi fossero stati due sorelle, i sentimenti sarebbero stati gli stessi? Avrebbero spiato l'una nell'altra, i segni dell'invecchiamento o avrebbero ritrovato un legame che pareva perduto? Avrebbero sperato nell'appoggio e nella fiducia reciproche? Probabile, ricordando la linea di Kundera che, stranamente, spesso propone l'idea della solidarietà femminile come arma di difesa dall'egoismo maschile.
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assaggio...
"....l’uomo curvo sulla sua motocicletta è tutto concentrato sull’attimo presente del suo volo; egli si aggrappa ad un frammento di tempo scisso dal passato come dal futuro.; si è sottratto alla continuità del tempo; è fuori del tempo; in altre parole, è in uno stato di estasi; in tale stato non sa niente della sua età, niente di sua moglie, niente dei suoi figli, niente dei suoi guai, e di conseguenza non ha paura, poiché l’origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato dal futuro non ha più nulla da temere.La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo. A differenza del motociclista, l’uomo che corre a piedi è sempre presente al proprio corpo, costretto com’è a pensare continuamente alle vesciche, all’affanno; quando corre avverte il proprio peso e la propria età, ed è più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita. Ma quando l’uomo delega il potere di produrre velocità a una macchina, allora tutto cambia: il suo corpo è fuori gioco, e la velocità a cui si abbandona è incorporea, immateriale – velocità pura in sé e per sé, velocità-estasi. Strano connubio: la fredda impersonalità della tecnica e il fuoco dell’estasi."
sublime !