Narrativa straniera Classici La fiera della vanità
 

La fiera della vanità La fiera della vanità

La fiera della vanità

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Scritto nel 1848, "La fiera della vanità" narra le vicende parallele di due ex compagne di scuola, Becky Sharp e Amelia Sedley. Becky, intelligente, coraggiosa, arrivista di pochi scrupoli, sposa il figlio di un baronetto e si fa abilmente strada nell'alta società. Amelia, graziosa, virtuosa e un po' sciocca, dopo la rovina finanziaria del padre sposa il fidanzato George Osborne, fatuo ed egoista, solo per l'intervento di un altro corteggiatore, il capitano Dobbin, che impedisce al giovane di rimangiarsi la parola. George cade a Waterloo e Amelia giura fedeltà alla sua memoria: ma quando l'amica le rivelerà che George l'ha tradita anche con lei, Becky, Amelia si deciderà a sposare il devoto Dobbin.



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La fiera della vanità 2022-05-02 21:33:44 ALI77
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    02 Mag, 2022
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Un romanzo senza eroe

"La fiera delle vanità - un romanzo senza eroe" è una delle opere più famose dell'Ottocento inglese di William M. Thackeray, da alcuni critici è considerato uno degli autori tra i più talentuosi del suo secolo, al pari di Dickens.
Anche se devo dire che io preferisco Charles.
Questo romanzo non è tra i più letti, almeno qui da noi, ma quando fu pubblicato a puntate tra il 1847 e il 1848 ebbe un enorme successo, ancora prima della pubblicazione completa dell'opera.
In questo libro come ci suggerisce il titolo, non c'è un vero e proprio eroe, tutti i personaggi sono privi di virtù ma pieni di difetti, le loro imperfezioni li dovrebbero rendere più umani e verosimili ma con il passare delle pagine tutto è diventato una grande forzatura.
L'accento che pone l'autore sull'ipocrisia e sull'avidità dei vari personaggi credo sia stato, ad un certo punto, veramente eccessivo.
Le protagoniste principali del libro sono Amelia Sedley e Becky Sharp, due ragazze agli antipodi che si conoscono alla scuola femminile per giovani donne di Miss Pinkerton e diventano amiche.
"La Sharp con un freddo sorriso e un inchino, incrociò le mani, declinando così l'alto onore che le veniva offerto [...]. Vi fu una specie di piccola battaglia fra la ragazza e la vecchia, e quest'ultima dovette dichiararsi vinta. Dio ti benedica figlia mia! disse abbracciando Amelia, ma nello stesso tempo gettando uno sguardo irato sulla Sharp."
Amelia è una ricca borghese, ingenua, un po' sciocca che ha sempre vissuto negli agi e l'unico obbiettivo della sua vita è quello di sposarsi.
Becky, invece, è figlia di un pittore e di una ballerina, è povera e vuole migliorare la sua posizione sociale e su suggerimento di Miss Pinkerton va a servizio dai Crawley come istitutrice. E' ambiziosa, intelligente, arguta e priva di scrupoli e raggiungerà i suoi scopi senza guardare in faccia a nessuno.
E' un personaggio che sfrutta le sue qualità, la sua bellezza per ottenere ciò che vuole e guarda con occhio critico la buona società inglese di cui vuole far parte.
"Non è forse ammirevole questo sentimento di gratitudine in un'orfana priva di protezione? E se nei suoi calcoli entrava una punta d'egoismo, chi nn si senterebbe in grado di giustificare una simile prudenza?"
Thackeray punta l'attenzione soprattutto sul personaggio di Becky, non è un'eroina, è molto lontana dalla figura femminile vittoriana, tutt'altro che devota alla famiglia, in cerca solo del suo benessere personale.
Becky è una donna che desidera sempre qualcosa che non ha e quando la ottiene, si sente vuota tanto da trovare subito qualcos'altro che appaghi se stessa e il suo forte ego, lei ha da sempre invidiato la vita di Amelia e gli agi del suo status sociale.
"E' forse necessario dire che, quando una donna vuole qualcosa, trova senz'altro il modo di raggiungere lo scopo?"
Nonostante sia una donna fuori dal comune per l'epoca e anche se è molto intelligente e arguta, commette durante il romanzo degli errori che le provocheranno dei problemi.
Thackeray attraverso il personaggio di Becky Sharp, critica le contraddizioni della società dell'epoca, di quali sentimenti siano animate le persone avide e arriviste e per ottenere ciò che vogliono farebbero di tutto e di quanto un essere umano possa cadere in basso per raggiungere i suoi obiettivi.
Lo stile dell'autore l'ho trovato abbastanza semplice da seguire, alcune parti sono state più avvincenti di altre, in generale è stato un libro che però non mi ha entusiasmata e colpita come pensavo.
Quello che mi è piaciuto di più è che l'autore si rivolge direttamente al lettore, introducendo il capitolo con una sorta di "spoiler" di quello che accadrà, dicendo per esempio che quello che stiamo andando a leggere sarà noioso, oppure romantico o sarà importante ai fini della storia. Una sorta di piccolo promo al capitolo stesso.
Personalmente capisco subito se un autore dell'Ottocento inglese mi piace oppure no, negli anni ne ho affrontati molti e credo, ma lo dico a malincuore, che Thackeray non sia uno dei miei preferiti nonostante ne riconosca il talento.
Ho apprezzato molto che le protagoniste fossero delle donne, e che Becky fosse così distante dalla classica donna vittoriana, però non sono riuscita ad affezionarmi a nessuna delle due.

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La fiera della vanità 2020-10-17 14:20:45 Cathy
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Cathy Opinione inserita da Cathy    17 Ottobre, 2020
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Vanitas vanitatum

Jane Austen ha lasciato un'immagine piuttosto idilliaca del periodo regency: serene dimore aristocratiche, graziose cittadine, tè pomeridiani, balli settimanali, pettegolezzi, qualche piccolo scandalo. «Tre o quattro famiglie in un villaggio di campagna», come scrive in una lettera alla sorella, riassumendo perfettamente la propria poetica. Un acquerello dai toni morbidi e delicati, insomma, e se c'è qualche tocco fuori posto, qualche nota stonata che emerge da sotto i colori pastello, finisce sempre con l'essere assorbita dall'armonia generale. Thackeray ci restituisce una visione ben diversa dello stesso periodo storico, un grande affresco a tinte forti che comprende praticamente tutti i colori della tavolozza, da quelli più intensi e vivaci ai toni più cupi, e nessuno armonizza con gli altri, ma tutti fanno allegramente a pugni tra loro.
Nel grandioso dipinto di Thackeray non manca nessuno dei numerosi tipi che compongono la variegata umanità: arrampicatori sociali, scialacquatori, fanatici religiosi (finti o autentici), nobili spiantati e parassiti che vorrebbero vivere come i ricchi borghesi, borghesi che cercano di passare per nobili, tutti a caccia qualcosa: denaro, posizione sociale, titoli nobiliari. Se proprio si volesse trovare un'armonia in questo quadro, sarebbe da ricercare nella comune tendenza a pensare solo a se stessi e a soddisfare la vanità che accomuna praticamente quasi tutti i personaggi, perfino l'angelica Amelia (vivere nel culto del marito defunto, sacrificando al suo ricordo qualsiasi cosa, non è forse un modo come un altro di coltivare la vanità personale?).
Thackeray mette in scena un carrozzone vivace e divertente, la fiera della vita, rivela i meccanismi che muovono le sue «marionette» (così l’autore-narratore definisce i propri personaggi) con il tono di chi se la sta spassando un mondo a farle correre di qua e di là e sfoggia con malcelata soddisfazione tutta la sapiente abilità con cui, pubblicando un romanzo a puntate, riesce a tenere viva la curiosità dei lettori per mesi e mesi, arrivando a capovolgere un'intera situazione nelle ultime due righe di un capitolo.
Eppure con quei personaggi tra le mani non ci sarebbe neanche bisogno di grandi colpi di scena per catturare l'attenzione. Basta la sapiente costruzione dei caratteri a far venire voglia di girare le pagine una dopo l'altra per scoprire cosa ne sarà della piccola, astuta, intelligente Becky, della dolce Emmy, dell'incrollabile Dobbin (l’unica figura che si salvi davvero in questo caos di brutti soggetti che è la fiera della vanità), dell'innamorato e ingenuo Rawdon, dell'irreprensibile Pitt Crawley, della sua terribile zia, la signorina Crawley, che passa la vita a muovere gli altri come marionette (anche lei, proprio come l'autore) con la promessa-minaccia di lasciare o non lasciare la propria eredità. Thackeray, dopotutto, era celebre per i ritratti satirici delle figure del bel mondo che pubblicava sulle riviste utilizzando pseudonimi. Si palpita, si desidera, si soffre, si ride con loro, ma soprattutto si ride di loro, dei nomi improbabili che Thackeray si diverte ad appioppargli e che svelano tutta la vacuità e l'inconsistenza di questi campioni della fiera umana, da Lord e Lady Mango a Malloy Mallony, da Malony di Ballymalony a Ofelia Sully di Oyetherstown, da Lady Jane Sheepshank ("costole di montone") alla contessa Southdown ("Dune meridionali", nome di una razza di pecore inglesi), dalla principessa Amelia di Humburg-Schlippenschloppen a Sua Trasparenza il duca di Pumpernickel. L'ironia dissacrante (e massacrante) dell'autore colpisce con la precisione di un proiettile scagliato da un cecchino professionista e non risparmia niente e nessuno, riportando alla mente il "Tristram Shandy" di Laurence Sterne, che però si diverte a disfare completamente la forma romanzesca. Nella "Fiera della vanità", invece, essa è rispettata nei suoi aspetti principali, sebbene l'autore si compiaccia di mettere a nudo i trucchi e i meccanismi che ne consentono il funzionamento, e dunque la lettura risulta molto più godibile.
Tra i protagonisti della fiera della vita, insomma, non si salva proprio nessuno. Si ride delle loro ossessioni, delle piccole manie, delle debolezze, delle pose studiate, dei loro folli progetti, dei loro piccoli, grandi, sciocchi desideri. Tutto si rivela infine così vano, così vuoto, così disperatamente insensato che l'ultima risata somiglia di più a una smorfia. Vanitas vanitatum...

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Lawrence Sterne, "La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo".
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La fiera della vanità 2016-05-25 02:29:52 Monica
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Opinione inserita da Monica    25 Mag, 2016

Ironico e perforante

“La fiera della Vanità” di William M. Thackeray è comparso sulla scena della società inglese ottocentesca per la prima volta attraverso la pubblicazione di venti puntate mensili tra il 1847 e il 1848, per essere poi presentato come un’unica opera nel 1848.

Lo sguardo critico, ironico e perforante dello scrittore, che è celato, nonostante la prorompente presenza del narratore-autore, tra le vicissitudini dei suoi personaggi, rivela un racconto che si discosta dal tradizionale romanzo ottocentesco inglese, pur intessendo con esso una fitta rete di legame ed intrecci.
L’intervento dello scrittore, ad una prima lettura, può sfuggire per un lettore che si approcci a tale romanzo con l’unico intento di lasciarsi dilettare da un nugolo di peripezie.
Solo nella prefazione del suo capolavoro lo scrittore chiarisce con un discorso enigmatico e ricco di metafore come, attraverso un capovolgimento dell’ottica ottocentesca a cui i romanzi inglesi contemporanei hanno abituato il pubblico, la fiera non sia altro che un incontro di sentimenti, alcuni meschini e pochi virtuosi.
Grazie alla sua abilità linguistica e scenica Thackeray incanta e avvolge il suo pubblico con uno stile incalzante e un linguaggio forbito, impreziosendo il suo spettacolo con citazioni colte e riferimenti storici, tanto da rendere viva e immediata la rappresentazione dei suoi drammi e le sensazioni che ne derivano nei protagonisti; ma è anche uno spettacolo teatrale in cui i protagonisti stessi, coloro che danno vita ad una fiera di piaceri e malinconie, non sono altro che marionette nelle mani del loro conduttore.
Il ruolo che si prefigge di assumere lo scrittore, quindi, è quello di narratore onnisciente e onnipresente per i suoi personaggi, e di guida, per il suo pubblico, alla riflessione e alla lettura di quello che si presenta come un perfetto ritratto della società inglese.
Ciò permette di inquadrare “La fiera della vanità” all’interno della categoria dei romanzi storici, non solo perché Thackeray situa la sua storia nel primo ventennio del XIX secolo, descrivendo con minuzia di particolare tutti i rivolgimenti storici che hanno interessato e sconvolto la società di quel tempo, ma soprattutto perché egli riporta tra le sue pagine elementi della realtà, prelevati dalla tradizione e adattati ai canoni ottocenteschi: ne deriva uno specchio in cui si riflettono i vizi e le poche virtù di personaggi avidi e meschini, pomposi e bramosi di ricchezza e di successo.

La storia si snoda attorno alla carriera di due giovani donne e amiche, le quali lasciano sulla stessa carrozza l’istituto femminile di Chiswick della signorina Pinkerton, che fino a quel momento le ha accolte e istruite. Le due protagoniste non potrebbero essere più diverse tra loro: Amelia Sedley, appartenente ad una ricca famiglia borghese, è dolce, fedele, remissiva e un po’ sciocca; Rebecca Sharp, orfana di entrambi i genitori e povera, è intelligente, astuta ed egoista.
Travolte da tormentati corteggiamenti amorosi le due ragazze affrontano diversamente gli ostacoli che la vita, o lo scrittore, pone loro davanti fino a giungere nello stesso anno ad un’unione matrimoniale, il cui destino sembra essere simile per le opposizioni e le difficoltà che entrambe hanno dovuto superare.
Pur essendo diversi i sentimenti che guidano le due “eroine”, le loro sorti proseguono lungo questo ventennio attraverso due percorsi paralleli, che più volte le porta ad intrecciarsi in un turbinio di passioni, risentimenti, sofferenze e vendette, di cui saranno protagonisti anche gli altri innumerevoli e sfaccettati personaggi di questa fiera multicolore.

Sul palcoscenico della vita lo scrittore fa muovere le sue marionette con un tale realismo da coinvolgere il lettore stesso in questo vortice di emozioni, portandolo ad odiare o a ad amare uno stesso personaggio, impedendo, come ultimo obiettivo del suo rovesciamento dei canoni ottocenteschi, l’individuazione di un eroe del romanzo.
Il romanzo senza eroe individua un possibile eroe o eroina in ognuno dei suoi tanti personaggi così eterogenei, imperfetti ed umani, i quali si identificano non come eroi del romanzo, che guarda sempre al modello dell’antenato Robinson Crusoe, ma come eroi della vita.
E’ impossibile,infatti, non subire il fascino dell’ammaliante Becky Sharp, la quale vittima, strumento e vincitrice della vanità, riesce ad affermare se stessa in cima ad una realtà che l’ha sempre relegata tra i più indegni; armata di intraprendenza, di un linguaggio audace e della capacità di eccellere in ogni arte, ella gioca con tutti i personaggi della fiera, intrappolandoli in una tela di inganni e nefandezze, entrando lei stessa a far parte di un meccanismo che la travolge inesorabilmente, rendendola ora schiava ora vittoriosa, in un movimento altalenante e fuori dal suo controllo.
Allo stesso modo l’indole gentile e premurosa, pur sottomessa e obbediente, della timida Amelia Sedley fa breccia nel cuore del lettore, che vede in lei l’unica anima pura travolta da questa realtà fatta di apparenze e meschinità. Tuttavia, eclissata da Becky nelle apparizioni pubbliche e in quelle private, nelle quali il marito la trascura per la ben più affascinante amica, consumata da un amore ossequioso per George Osborne e per questo perennemente sofferente e timorosa, la semplice e devota Amelia è ben lontana dall’essere lo spirito guida del romanzo.
Thacheray fa muovere abilmente i suoi personaggi, lascia che vengano biasimati o elogiati, diffondendo la sua indagine storico-sociale sui loro rapporti familiari, anch’essi influenzati dalle stesse convenzioni che irrigidiscono quelli sociali, sulle difficoltà di interazione tra un’aristocrazia conservatrice e dai valori immutabili e una più sovversiva, nascente borghesia .
E’ una fiera, quindi, in cui non mancano scompiglio e allegria, tensioni e commozioni, battaglie eroiche sul campo di battaglia e altre meno gloriose ad un lussuoso banchetto, ma nella quale, la natura più riflessiva non avvertirà disagio, perché lo spettacolo sarà brillantemente guidato dalla penna esperta dello scrittore.

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La fiera della vanità 2015-09-22 06:26:20 Emilio Berra TO
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    22 Settembre, 2015
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L' 'eroe' nascosto

Libro pubblicato (a puntate) verso la metà dell'Ottocento, situa le vicende tra l'inizio del secondo decennio e gli anni Trenta di quel secolo, per un'estensione quindi di oltre un ventennio.
La letteratura inglese ha avuto un ampio Romanticismo, seguito da un Realismo meno 'ideologico' rispetto alla Francia e all'Italia. "La fiera delle vanità" può collocarsi in questo percorso di transizione : se intende rappresentare l'alta società del tempo, c'è però da dire che l'autore non rimane affatto estraneo alle vicende, anzi quasi manzonianamente le commenta, induce il lettore a riflettere.
Possiamo cogliervi anche istanze illuministiche nell'uso della satira per rappresentare arrivismo e ipocrisie, perbenismo e raggiro; con un'idea insomma di letteratura che corregga i vizi.

Protagoniste della scena, ricca borghesia e nobiltà.
Diversamente dall'Italia, dove la borghesia arricchita tendeva a vivere come l'aristocrazia parassitaria, in Inghilterra i nobili ambivano a far fruttare i loro beni economici con spirito imprenditoriale borghese, tanto da determinare una certa commistione fra le due classi sociali privilegiate. E' proprio in questo ambito che si muovono i personaggi.
Accanto alle due giovani protagoniste, amiche (si fa per dire), tratteggiate con opposti caratteri, si muove una serie di figure che delineano un quadro di alterne e movimentate vicende, con rapide svolte e colpi di scena. Mi pare che ciò crei un limite all'opera, perché talvolta il mutevole andamento della storia narrata non è abbastanza motivato nella costruzione del romanzo. Altra carenza a livello contenutistico, secondo me, sta nel non rilevante approfondimento psicologico, essendo i personaggi come mossi esternamente dall'autore.
Tali aspetti 'deboli' sono compensati da una capacità di forte rappresentazione socio-economica, da cui emergono stili di vita di un mondo tutto volto agli aspetti esteriori, al successo sociale, colti con acuminata vena satirica, che dà allo stile una vivacità e un'arguzia che contribuiscono a fare del libro una lettura piacevolissima anche per chi, come me, detesta le telenovele. Il tutto raccontato con una scrittura deliziosa, capace di donare alle pagine una lieve patina d'antan, che produce quella gradevolezza ottocentesca che la buona letteratura inglese del tempo sa dare a piene mani.

Lo scrittore ci avverte che nel testo non ci saranno eroi. A mio avviso, non è vero : il personaggio positivo, in qualche modo accostabile a Pierre di "Guerra e pace", emerge gradualmente lungo il racconto. Tale carattere si scopre ben prima della conclusione del poderoso romanzo. E il lettore, ovviamente, fa il tifo per lui.

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