La civetta cieca
Editore
Recensione Utenti
Opinioni inserite: 2
Gli effetti secondari dell'oppio
Vieni a bere con noi il vino di Rey se non ora quando?
Questo è il ritornello che percorre tutto il romanzo che ha un andamento spiraliforme con i protagonisti che si rincorrono nel tempo come immagini che scorrono su una parete in quei teatrini fatti con le ombre.
…forse è stato questo disegno a costringermi a scrivere: un albero di cipresso sotto il quale sta accovacciato, come un fachiro indiano, un vecchio ricurvo, inturbantato, avvolto in un manto, l’indice della mano sinistra sulle labbra. Davanti a lui, una ragazza con un abito nero, forse una danzatrice sacra, danza con gesti innaturali. In mano tiene una calistegia. I due sono separati da un rivolo d’acqua.
La danzatrice è la donna che ritorna in tutto il romanzo, in tutte le vite e in tutti gli universi, riconoscibile dagli occhi allungati e neri, sacerdotessa in una delle storie di una divinità pagana. Il disegno illustra la vicenda: due amanti separati dal torrente, che probabilmente è la morte. Lei che porge a lui il fiore di calistegia che deve avere un significato simbolico forse di morte e rinascita spirituale.
Ogni vita, dato che il romanzo si avvita su se stesso e ogni volta il protagonista subisce la fascinazione degli occhi di lei, parte con lui chiuso in una stanza che subisce senza ancora saperlo il vuoto della mancanza di lei. Come un presagio. Poi lei si presenta.
La mia camera simile a una tomba si stava progressivamente restringendo e diventava sempre più buia, e la notte mi circondava con le sue ombre spaventose. Ero accovacciato davanti alla lampada fumosa che proiettava la mia ombra muta sul muro, la mia ombra che indossava la mia giacca di montone e la mia sciarpa.
Tornano come simboli l’ombra la giacca e soprattutto la sciarpa che tanto ricorda il movimento del serpente Naga.
E’ come se il serpente Naga prima di mordere la sua vittima la incantasse. E in effetti il vino di Rey della filastrocca contiene il veleno del serpente Naga. Tutta la storia si dipana e si ripete io direi nei secoli o in altri universi e chi scrive va indietro nel tempo per ritrovarsi sempre in una situazione simile.
Osservai la mia ombra sui muri percolanti umidità; era esile e delicata come dieci anni fa, quand’ero solo un bimbo. Sì, mi sovvenne che dieci anni or sono l’ombra si profilava identica su quei muri madidi di vapore. Osservai con attenzione il mio corpo, le cosce, i polpacci, la zona inferiore del ventre, una vista vanamente lasciva. Anche le loro ombre erano uguali a quelle di dieci anni prima, quand’ero fanciullo. Sentii che la mia vita era scivolata via proprio come quelle ombre erranti, quelle ombre tremule
La fascinazione parte da lei e dal corpo di lei (il serpente Naga) che cerca di avvolgere lui coinvolgendolo in un gioco di seduzione e morte, infatti la seduzione è non tanto allo scopo di un amplesso, ma di un amplesso come quello della mandragora in cui lui uccide lei, perciò anche se lei è la personificazione del serpente Naga alla fine del diciamo corteggiamento, lui diventa il serpente e uccide lei con un coltello per poi bere il vino di Rey, quello con il veleno del serpente Naga. C’è un continuo riavvolgersi della vicenda per cui il protagonista ricorda una vita precedente in cui però ci sono gli stessi personaggi.
Quand’ero sull’orlo di una crisi avvertivo un’inquietudine strana, un nodo che mi stringeva il cuore, momenti di tristezza e di angoscia come negli attimi che precedono un temporale. Il mondo terreno mi abbandonava e io mi trasferivo in un universo scintillante, lontanissimo dalla terra.
E’ come se un demone si impossessasse dell’uomo che si muta pure fisicamente in un vecchio con il labbro leporino. E una maledizione costringe l’uomo a descrivere la vicenda o dipingendola o scrivendola insomma riportandola in qualche forma artistica.
La morte mormorava quietamente la sua canzone, come un balbuziente costretto a ripetere due volte ogni parola, e che, appena giunto alla fine di un verso, debba ricominciare da capo. Il canto della morte mi penetrava la carne come il cigolio di una sega che stride e poi, improvvisamente, taceva.
Avevo il labbro leporino come il vecchio rigattiere. Non avevo più le ciglia, mentre un ciuffo di peli bianchi spuntava dal mio petto. Nel mio corpo era scesa una nuova anima.
Credo che la prima vicenda descritta nelle prime pagine del racconto descriva la fine della maledizione perché lui non si accoppia con lei, le dimostra un amore puro e le porge il vino di Ray come dono ignorando che esso contiene il veleno di Naga e poi la seppellisce utilizzando il coltello, ma non per ucciderla. E’ come se la maledizione fosse finita con l’inizio del romanzo e il parente- demone fosse stato liberato dalla sua schiavitù. Però questa è solo una mia interpretazione. Per cui il fiore di callistenia che la ragazza porge al vecchio satiro potrebbe essere il fiore dell’amore puro. Per cui alla fine della storia lui si libera del demone e il fiore potrebbe essere un simbolo di rinascita anche spirituale.
Indicazioni utili
Sintesi personale ed artistica
Sadek Hedayat (1903-1951), figlio d una famiglia aristocratica e morto suicida a Parigi, è stato uno dei massimi intellettuali iraniani del secolo scorso, scrittore, poeta, saggista, traduttore, amante e conoscitore della cultura persiana ma anche della letteratura occidentale ( Dostoievskji , Kafka, il simbolismo ed esistenzialismo francese ) oltre che dell’ India alla quale si avvicinerà grazie alla cultura buddhista.
“ La civetta cieca “ ( un testo pubblicato in India nel 1936 e censurato in patria ), pietra miliare della letteratura persiana moderna, per la prima volta tradotto in lingua italiana dal persiano, e’ una sintesi del suo pensiero, un viaggio agli inferi di una mente sofferente, ma assai lucida, sottratta a se’, in uno stato di sospensione tra la vita e la morte, un animo rivolto ad una lettura interiorizzata ( secondo precisi influssi buddistici ), che allontana dogmi e precetti religiosi fuorvianti, ma che ama profondamente la cultura più alta, la storia e che cerca di recuperare le tradizioni secolari e le leggende della sua terra natia.
Ma e’ anche un viaggio carnale e passionale nella rappresentazione di un mondo che ritrae la meschinità umana ed i suoi vizi, rivolgendosi ad una idea di modernità che superi oltranzismo religioso e dogmi imperanti in patria spingendosi oltre le ideologie totalizzanti nascenti in Europa per aprirsi ad una contaminazione culturale che svela l ’ambivalenza esistenziale.
Di certo Hedayat, definito il Kafka persiano, è uno scrittore assai peculiare e contaminato, con una prosa dirompente, lirica, tratti surrealistici e gotici, un esistenzialista con toni di romanticismo decadente, di certo la sua lettura è complessa e non lascia indifferenti, un viaggio in un mondo di forti contrapposizioni, tra oriente ed Occidente, un tentativo di sintesi di culture diverse, onirico e carnale, trasfigurato e tenebroso, di difficile definizione e collocazione.
Il protagonista del racconto è un miniaturista rinchiuso nella propria stanza, lontano dal volgo, intento a dipingere astucci di portapenne, imbevuto di oppio ed alcool allo scopo di stordirsi e passare il tempo, pervaso dall’ apparizione e dalla morte ( di cui si sente responsabile ) di una creatura soave ed evanescente di nero vestita.
È l’ inizio di un altro viaggio, interiore, tormentato, dolente, lontano dall’ affannarsi vago della gente comune, per non confondere realtà ed immaginazione, impegnato a spiegare tutto alla propria ombra proiettata sul muro che è la sola a conoscerlo e a comprenderlo.
Sente l’ esigenza di scrivere e raccontare la sua storia ma non sa da dove cominciare, spezzato ogni legame coi vivi, passato, presente, futuro, ore, giorni, mesi, anni, tutto è uguale.
Ecco ll’ identificazione e la trasfigurazione protagonista-scrittore, in una rappresentazione autobiografica, una vita che ha conosciuto solo la stagione fredda e buia, un corpo che ha sempre bruciato di una fiamma che lo consuma, un cammino usurante che riprende il suo corso, la paura della morte che non lo abbandona, la constatazione che religione, fede e credo risultino deboli ed infantili di fronte alla morte.
Non riesce a percepirsi, privo di legami con il mondo dei vivi e senza trarre giovamento dall’ oblio e dalla quiete del mondo dei morti.
Una morte che lo chiama dal profondo della vita e l’ attira a se’, quella vita fredda ed incurante che un giorno svela la sua maschera, una o tante che siano.
I giorni gli appaiono innaturali, incerti, inesplicabili come i personaggi sul portapenne, i suoi pensieri sconnessi, voci mescolate ad altre, ridendo della follia generale.
Numerosi volti circostanti, il macellaio, il rigattiere, la tata, la sgualdrina, gli unici suoi legami con il mondo esterno, costretto a letto da una malattia, innamorato di una moglie che non ha mai posseduto, che si concede a tutti tranne che a lui, volti esistenti ma che non gli appartengono.
Vagherà in una città piena di volti e senza volto per ritrovarsi nella propria stanza, ancora una volta, rimuginando su solitudine e sofferenza, verità e menzogna, sospeso tra la vita e la morte, il se’ e la percezione di se’, in un inevitabile ed inesplicabile processo di decomposizione fisica e mentale.