La certosa di Parma
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TEATRI E TEATRINI
Un manoscritto intitolato “Origini delle grandezze della famiglia Farnese”, una storia di favoreggiamenti ecclesiastici con tanto di prigioniero ed evasione da Castel Sant’ Angelo, una storia d’amore clandestina, tante suggestioni di prima mano da frequentatore assiduo dell’Italia: queste le principali fonti di ispirazione per la scrittura di questo romanzo che purtroppo ha deluso le mie aspettative.
In estrema sintesi è raccontata la formazione di un giovane che nato da una famiglia di reazionari si accende a entusiasmi dettati dal mito di Napoleone e partecipa, con grande ingenuità , alla battaglia di Waterloo, non capendo neanche di averlo fatto mentre il suo eroe è battuto. Presto si inguaia, per eccesso di ingenuità, e scampa a diversi pericoli per riuscire a ricadere sotto la protezione della giovane zia Gina la quale, dopo averlo iniziato alla carriera ecclesiastica, non tarderà a infatuarsi progressivamente del nipote, il quale si rivela per buona parte della narrazione un farfallone. Un’ accusa di omicidio lo allontanerà dalla corte di Parma che gli ha dato asilo grazie appunto alla protezione della zia la quale da vedova è divenuta amante del potente conte di Pietranera, primo ministro dell’immaginaria corte parmense. É proprio la corte, per larga parte della narrazione, a essere la protagonista indiscussa di un piccolo mondo fatto di potenti che si contendono, con vari intrighi, i favori dei regnanti. A ciò si intrecciano le peripezie del giovane, il quale solo nel momento della sua cattura e della sua prima prigionia scopre l’amore per Clelia Conti, un amore impossibile, lui prigioniero, lei figlia del generale. A questo punto, un’ altra larga parte della narrazione è dedicata a questo amore impossibile che rimarrà tale per altra buona parte fino a giungere a una sorta di epilogo precipitoso e tragico.
Insomma, neanche Dumas! Una giustapposizione di eventi rocamboleschi, dal sapore vagamente avventuroso, condito da un’ ambientazione minuziosa di una corte mai esistita, un amore impossibile, un omicidio per legittima difesa, una torre per una degna e lunga prigionia, gli avvelenamenti ripetuti e scongiurati, una interminabile sequela di ammiccamenti al lettore francese che non dovrebbe stupirsi di tutto ciò perché se dovesse richiamare il principio di verosimiglianza, egli dovrebbe semplicemente ricordarsi che siamo in Italia…
E infine una Certosa, ultimo ritiro di Fabrizio del Dongo, il nostro protagonista, vero emblema dell’antieroe, una Certosa che appare solo alla fine ritagliandosi la sua centralità, del tutto sviante, in questo titolo così famoso.
Sarà lo stesso destino dell’ormai maturo Del Dongo: la sua centralità non è forse dovuta in larga misura alla sua assenza dal palcoscenico della corte che lo ospita, lui ennesimo teatrante fra mille, lui icona della simulazione?
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L'Italia spiegata ai francesi
L’ambientazione, la splendida penisola italiana. I temi trattati, storie d’amore, intrighi politici e noti casi giudiziari. Tra i personaggi fanno la loro comparsa Conti e Giletti, Grillo e Bossi. A dispetto delle apparenze, non parlo di qualche famoso talk show televisivo, ma de “La Certosa di Parma”, forse l’opera più nota di Stendhal.
Incredibilmente scritto in meno di due mesi (e a tratti, il testo ne risente), il romanzo narra la storia del nobile Fabrizio del Dongo, partendo da alcuni anni prima della sua nascita, quando l’esercito di Napoleone calò sulla Lombardia, con immenso dolore per il marchese suo padre.
Fabrizio è guidato invece da ben alti ideali, tanto da scappare di casa per unirsi alle truppe francesi; decisione che sarà poi la causa scatenante della maggior parte degli eventi più importanti della sua vita, come la spinta data ad una fila di tessere del domino.
Le conseguenze di un gesto impulsivo compiuto in giovane età, porteranno Fabrizio a viaggiare un po’ in tutta Italia, divisa all’epoca in principati, regni e territori sotto il controllo di potenze straniere. Questo da un lato permette all’autore, almeno una volta per capitolo, di soffermarsi per chiarire ai suoi conterranei qualche “bizzarria” italica, ma dall’altro concede al lettore di ammirare le accurate descrizioni delle superbe ambientazioni che fanno da sfondo alle vicende, in primis i suggestivi laghi della Lombardia.
Negli anni, Fabrizio verrà perseguitato dai suoi errori e anche da una buona dose di sfortuna, ma senza cambiare molto fino al fatale imprigionamento nella torre Farnese, luogo in cui il suo carattere muterà sensibilmente: da giovane impulsivo e focoso, a uomo adulto in grado di scindere tra veri desideri e frivoli capricci.
Quello dei desideri è un punto focale in tutto il volume, perché la maggior parte dei personaggi è guidata da essi, spesso a discapito del prestigio materiale o del denaro.
Ad attorniare il protagonista troviamo infatti una ricca schiera di altri personaggi, di cui solo i principali sono attentamente caratterizzati, mentre gli altri risultano per lo più macchiettistici. In confronto ai personaggi maschili, quelli femminili sono poi i più interessanti, nonché quelli analizzati in modo maggiormente accurato. Tra tutti, brillano la duchessa Sanseverina e Clelia Conti, sebbene Stendhal non tralasci di riservare spazio per un’intrigante antagonista come la marchesa Raversi.
La Sanseverina è di certo una vera Drama Queen, sicura del suo potere, specie sul genere maschile, e sempre pronta a farne uso per il suo tornaconto. Nonostante la sua frivolezza e le tante azioni non proprio encomiabili, risulta a conti fatti il personaggio più divertente e, a mio avviso, la si potrebbe pensare la vera protagonista.
Anche Clelia ricopre un ruolo fondamentale, sebbene la sua assenza per buona parte del romanzo renda arduo per il lettore affezionarsi a lei. Ho trovato abbastanza emozionante la sua relazione con Fabrizio, specie negli ultimi capitoli: inizialmente la loro storia mi ha portato alla mente alcuni moderni romance, con un lui bello, dannato e in genere donnaiolo incallito, che viene “redento” da una lei ingenua, pia e solitaria.
A discapito dell’opera, oltre la solita edizione Newton Compton di bassa qualità (traduzione datata, errori di mancata revisione, assenza di note esplicative), vorrei segnalare soltanto come le parti descrittive risultino molto inferiori alle poche dialogate, fatto che rende un po’ ostica la lettura.
Altra nota dolente, sebbene si tratti di un mio gusto personale, è il frettoloso finale in cui viene citato, a ragione, Shakespeare: dopo una lunga commedia, si termina con un vero dramma.
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Le regole del gioco
Ingenuo, appassionato, onesto, generoso, carico di ideali romantici e di sogni di gloria, Fabrizio del Dongo, appartenente ad una nobile e antica famiglia della Lombardia, ha soltanto diciassette anni quando decide di scappare di casa per unirsi a Napoleone, che è in procinto di combattere la battaglia di Waterloo. Ancora non sa che questa decisione cambierà la sua vita. Ansioso di lottare al fianco del suo eroe, Fabrizio riuscirà appena ad intravedere la battaglia prima di essere ferito e dover rientrare in Italia. Denunciato alle autorità dal suo stesso fratello, è costretto prima all’esilio, poi, a Parma, a intraprendere la carriera ecclesiastica sotto la protezione della zia, la duchessa di Sanseverina. Bellissima, intelligente, affascinante, vero e proprio astro di corte nel piccolo regno assoluto del principato di Parma, amante del primo ministro del sovrano - Ranuccio Ernesto IV Farnese – e legata al nipote da sentimenti ambigui che oscillano tra l’affetto e l’amore, la duchessa dispiega tutte le armi in suo potere per favorire Fabrizio.
Fra intrighi di corte, giochi di potere, passioni, gelosie, avvelenamenti, inganni, si dipanano le avventure talvolta rocambolesche del “nostro eroe”, come Stendhal chiama spesso il suo Fabrizio, ispirato ad un personaggio realmente esistito. Nel 1838, infatti, Stendhal, console francese negli stati pontifici, ritrova a Civitavecchia la copia di un manoscritto del Cinquecento, "Origine della grandezza della famiglia Farnese", dedicato alla figura di Alessandro Farnese, che nel Quattrocento divenne papa dopo una giovinezza dissoluta e avventurosa. Da qui nasce Fabrizio del Dongo, che dovrebbe essere “il nostro eroe” e che invece, con le sue rocambolesche avventure, distrugge dall’interno il paradigma dell’eroe cavalleresco, alla ricerca continua di gloria, amore, felicità, identità, una ricerca destinata a restare insoddisfatta. La gloria militare, tanto ansiosamente e ingenuamente inseguita sui campi di Waterloo, si rivela un mito irraggiungibile nelle pagine con cui Stendhal fornisce alla tarda modernità il paradigma della non visibilità, non comprensibilità e non narrabilità degli eventi bellici. L’amore, rincorso attraverso avventure brevi e leggere, non è che una promessa illusoria, e anche dopo l’incontro con la bella figlia del governatore della cittadella di Parma, Clelia Conti, che finalmente suscita in Fabrizio sentimenti autentici, il suo sogno di felicità stenta a realizzarsi. Perfino la ricerca di un’identità stabile sembra essere vana per Fabrizio, prima giovane aristocratico, poi aspirante soldato, poi a un passo dal prendere i voti.
A cominciare da quella battaglia di Waterloo di cui il giovane e inesperto soldato vede soltanto i cadaveri delle vittime e il fumo della polvere da sparo, l’incomprensibilità del mondo che lo circonda ostacola la ricerca del giovane protagonista, letteralmente “avviluppato”, per usare un’espressione hegeliana, in una realtà storica confusa e in perenne movimento, eppure capace di determinare e sconvolgere l’esistenza dell’individuo. La parabola esistenziale di Stendhal, che ha solo sei anni quando scoppia la Rivoluzione francese, segue quella di Napoleone Bonaparte: prima soldato nelle campagne napoleoniche, poi entra nell’amministrazione dell’esercito, infine cade in disgrazia insieme a Napoleone. Egli sa bene, dunque, che la storia è una forza travolgente alla quale il singolo non può opporsi, neanche quando, ormai esauritisi gli slanci dell’età rivoluzionaria e napoleonica, la storia degenera nei piccoli e meschini intrighi di politici, ministri e cortigiani. Alla fine del romanzo Fabrizio, come la duchessa di Sanseverina, dovrà accettare l’impossibilità di sottrarsi ai meccanismi di un potere malato, in un mondo, quello della Restaurazione, in cui l’autore stesso non ha più un posto. I protagonisti si ritireranno nella solitudine e nel silenzio, rappresentati da quella Certosa di Parma che appare soltanto nell’ultima pagina del romanzo e verso la quale la narrazione sembra precipitare inesorabilmente.
In questo romanzo l’interesse per la storia si unisce ad un profondo amore per l’Italia, che appare a Stendhal un paese non ancora pienamente civilizzato, luogo di passioni e desideri primitivi e indomabili, misteri, intrighi, omicidi e vicende storiche dal sapore romanzesco. Il principato di Parma descritto da Stendhal non è mai esistito nella realtà e appare fuori dal tempo, frutto di numerosi incroci e contaminazioni tra l’Italia rinascimentale e quella contemporanea, tra la “vera” Parma, Roma e Bologna. Ma la degenerazione del potere diventato “un gioco” di cui bisogna seguire le regole, la viltà, la crudeltà, la corruzione, la meschina ricerca di inutili onori, riflettono perfettamente l’età della Restaurazione e non solo: questi meccanismi sono in realtà fuori dal tempo, proprio come la Parma “inventata” da Stendhal, appartengono ad ogni età e dunque anche alla nostra. Pur essendo un romanzo storico sui generis, "La Certosa" si configura come un’opera capace di parlare al lettore di ogni epoca e lo stile elegante, nitido, incalzante e ricco di ironia contribuisce a renderlo un romanzo di straordinaria modernità. Se le regole della politica non cambiano mai, come quelle di un gioco, la piccola corte di Parma diventa uno specchio dell’umanità di ogni epoca. E poi, una volta che ci si è abituati alle regole, per quanto assurde, ridicole o sbagliate possano essere, "giocare è divertente", afferma la spregiudicata duchessa di Sanseverina. Purchè si vinca e si continui a vincere, certo.
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Più cinismo che eroismo
Fabrizio del Dongo, che passa fra i combattimenti di Waterloo senza capire se aveva partecipato ad una battaglia e la svolta storica che ne sarebbe seguita, è stato citato in un articolo di A. Cazzullo come modello della società attuale che vive un tornante della storia senza rendersene conto. Questa chiave di lettura del personaggio principale della "Certosa di Parma" mi ha convinto a riprendere in mano un libro che avevo iniziato molti anni or sono e che avevo abbandonato a metà percorso, deluso e annoiato.
La delusione era dovuta a un testo che, dopo un promettente inizio come romanzo storico, cambia rotta e si immerge nelle vicende di una corte parmense di pura fantasia, che fa da cornice alle vicende romantiche che costituiscono l'elemento portante del libro.
Avevo trovato, inoltre, noiosa una narrazione, troppo dettagliata, di vicende senz'anima. Il romanzo risente dell'epoca storica in cui si svolge: spenta la fiammata bonapartista, non ancora accesa quella risorgimentale, il periodo della restaurazione è un grigio momento della storia e gli intrighi nella corte di un principato da operetta mi erano apparsi ben poco emozionanti. Inoltre tali intrighi sono raccontati in modo così dettagliato che lo stesso Stendhal a un certo punto se ne scusa con il lettore.
Sensazioni che ho ritrovato in questa nuova lettura, pur nel tentativo di andare più a fondo nei personaggi e nel loro rapporto con lo scrittore. Zola, ammiratore di H. Beyle/Stendhal, lo paragonava ad un entomologo “la sua umanità non simpatizzava con quella dei suoi eroi, restava superiore alla loro miseria e alla loro follia, si contentava di fare il suo lavoro di dissezione, esponendo in tutta semplicità i risultati del suo lavoro”.
Accettando questa definizione si deve prendere atto che i quattro personaggi principali sono un campionario poco entusiasmante della miseria umana.
Fabrizio del Dongo è di fatto un antieroe, pilotato nelle sue scelte di vita dalla zia Gina, duchessa Sanseverina. Di fatto un personaggio bello e stolido, visto che le poche volte in cui agisce in autonomia rischia grosso e mette in difficoltà chi lo protegge: amante senza amore, ecclesiastico senza fede, lo stesso Stendhal ne fornisce un ritratto poco accattivante “voleva bene a Napoleone (però della sua morte non c’è traccia emotiva nel romanzo), ma nella sua qualità di nobile pensava di essere fatto per la felicità e trovava ridicoli i borghesi. Dopo il collegio non aveva più aperto un libro e quelli che aveva letto erano tutti riveduti e corretti dai gesuiti”. Lo stesso duello che lo incastra per l’uccisione di un teatrante non è esaltante né per l’oggetto della contesa, né per lo svolgimento, né per il suo comportamento dopo l’omicidio. Solo l’incontro con Clelia riesce ad accendere in lui il sacro fuoco di un amore che appare però del tutto insensato per come nasce, per come lo vive e per come si conclude.
In tale rapporto Clelia Conti, unica figura aliena da intrighi e bassezze, diventa nelle conclusioni il classico agnello sacrificale.
La zia Gina, duchessa Sanseverina, bellissima e spregiudicata, intelligente e gioiosa, liberale, ma a pieno agio negli intrighi di una corte dispotica, cinica al punto che lo stesso Stendhal nella prefazione ne prende le distanze, per amore del nipote – un amore che sente quasi incestuoso, anche se rimane platonico – diventa autrice di operazioni spericolate per salvarlo, con l’impeto e la passione di un’eroina romantica.
Il Conte Mosca è un intelligente cortigiano, eminenza grigia del principato, in bilico tra un Machiavelli ed un Metternich su piccola scala: solo nel rapporto con la Sanseverina subisce il fascino e il gioco della donna di cui è innamorato al punto di mettere a rischio per lei patrimonio e carriera, anche se poi è l’unico che riesce a conseguire i propri, concreti obiettivi.
Spesso nella letteratura la passione amorosa si accende ed esplode solo quando si scontra con i muri dei divieti, delle negazioni, delle regole da infrangere. Non sono però riuscito a trovare in questo romanzo il pathos o la poesia che possono dare emozioni profonde.
Il romanzo è stato scritto in 53 giorni, un tempo da Guinness dei primati: tale rapidità di stesura ha però comportato un pesante squilibrio nella sua struttura. Solo la prima parte, sino al capitolo V, è ricca di tensioni ideali, di belle pagine con piacevoli descrizioni del paesaggio lacustre. La parte successiva, sino alla conclusione (quindi l’ottanta per cento del romanzo) è dedicata a intrighi, veleni e sgherri, peripezie, slanci amorosi e frenate, il tutto con un dettaglio descrittivo che non regge la potenziale tensione narrativa. La conclusione, che dovrebbe essere la parte più emozionante, è invece sintetizzata in metà del capitolo finale, sembra su sollecitazione dell’editore che chiese a Stendhal di tagliare trecento pagine. Il libro si chiude come “La forza del destino” verdiana per l’uscita di scena di quasi tutti gli attori.
Diventa difficile non pensare, con ammirazione e affetto, al confronto con il nostro buon don Lisander che nello stesso periodo dedicava ai “Promessi sposi” dodici anni e tre edizioni.
A merito di Stendhal si può ascrivere il ricorrente richiamo all’italianità, al carattere ed al temperamento degli italiani portati a motivazione di comportamenti ed atteggiamenti diversi da quelli che attribuisce ai francesi. Valutazioni che esprimono il suo amore per il nostro Paese, anche se basati su stereotipi che fanno sorridere, ben poco realistici in un Paese frammentato come l’Italia di allora, dove l’italianità era tutta da costruire come affermò D’Azeglio anni dopo. Tuttavia, quei richiami ad una identità unitaria, espressione di una realtà nazionale, possono aver contribuito ad alimentare l’idealismo risorgimentale.
Mi sento di consigliarlo solo a chi non vuol farsi mancare la lettura di un testo iscritto fra i classici della letteratura romantica.
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Una vita spericolata
“La presenza del pericolo da’ lampi di genio all’uomo ragionevole, e lo solleva per così dire al di sopra di se stesso; all’uomo d’immaginativa, invece, ispira romanzi audaci, si, ma spesso anche assurdi”. Con questa affermazione Stendhal descrive fedelmente il protagonista del suo romanzo, il giovane Fabrizio del Dongo, secondogenito maschio di una nobile casata Comasca. Fabrizio è l’essenza dell’immaginativa, dell’audacia, della lotta costante contro le regole imposte. Un magnifico eroe romantico, è il figlio di quell’ondata d’entusiasmo che innescò l’ascesa di Napoleone, ed è orfano alla sua caduta, con la morte di un ideale che diventa utopia. Fabrizio vive la sua vita alla ricerca forsennata dell’amore, della passione, dell’avventura, libero dai gioghi materialistici e dell’arrivismo che impera nel suo tempo. Egli vive il suo sogno, fa’innamorare perdutamente le anime nobili che incrocia sulla strada della sua vita, si fa’ nemico di chi in lui vede la minaccia per un sistema reazionario, totalitario e assolutistico invano ristabilito con la restaurazione, ma ormai al collasso. Ed è con questa visione scanzonata e piena di passione che attraverso gli occhi di Fabrizio, Stendhal dipinge il suo tempo: i sogni infranti, la speranze, la fiducia negli impeti nobili dell’animo umano. Stendhal non manca di ironizzare sulle bassezze e la stupidità degli uomini di potere, e su quelli che lo bramano. Flaubert attaccò aspramente il suo connazionale all’uscita di quest’opera per la pessima prosa, sarà che sono assuefatto, sarà che sono un pessimo lettore, ma ho trovato lo stile magnifico a tratti di una bellezza spiazzante, come ad esempio, quando l’autore descrive l’incantevole vallata Comasca senza orpelli e fronzoli, parole che scorrono melodiose. Questo è il frutto maturo di Stendhal, è il resoconto spassionato della sua esperienza, la somma delle considerazioni di una vita che ormai, per lui forse consapevolmente , sta’ volgendo al termine. Meno profondo de “Il rosso e il nero”, ma a mio parere emotivamente più forte. Pecca il finale, che forse se sviluppato meglio potrebbe aver fatto di questo romanzo un capolavoro assoluto. Ma c’è un perché, ma Grazie comunque Henri Beyle.
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Fabrizio del Dongo o si ama o si odia
....finalmente ce l'ho fatta!!! mi direte in cosa sono riuscita? ho terminato il romanzo scritto da Stendhal "la Certosa di Parma" Di questo posso solo ringraziare la mia testardaggine la quale mi porta a terminare ciò che di solito inizio. Ma un grazie lo rivolgo anche a Renzo Montagnoli che con la sua recensione mi ha indotto a perseverare.
È Un romanzo scritto in 52 giorni da Stendhal , il quale traendo spunto da un racconto scritto da un anonimo e che narra le vicissitudini della famiglia Farnese, ne apporta delle modifiche che consentirà di farlo suo. Fabrizio del Dongo è uno dei personaggi principali, si inizia a conoscerlo già in età adolescenziale è un ragazzino che certamente non brilla per le sue qualità di studente ma è ben voluto dalla madre e dalla zia Gina, personaggio fin troppo presente nella vita di Fabrizio. Il personaggio di Fabrizio o si ama o si odia. Stendhal, in Fabrizio fa risaltare il suo entusiasmo per le ideologie dei liberali, certamente egli è contagiato dalle idee dello zio Pietranera, e la sua risolutezza lo indurrà, in contro tendenza alle idee del padre e del fratello, a partire alla volta di Waterloo per affiancare Napoleone. Al suo entusiasmo si contrappone la sua ingenuità che mal si concilia e questo non gioverà a suo favore tant'è vero che ben presto si troverà a conoscere la parte più infima del genere umano. Ma la guerra Fabrizio non la farà e ritornato a Parigi, scopre che a suo carico pende una denuncia a opera del fratello che come il padre è una spia austriaca. L'esperienza della guerra sebbene non si sia risoluta positivamente, lo trasformerà in uomo. Purtroppo le scelte fatte con eccessivo entusiasmo si pagano a caro prezzo e il nostro personaggio dovrà rinunciare per sempre alla carriera militare optando per quella ecclesiastica: un compromesso che gli garantirà la libertà contro una prigionia certa. Da questo momento il nostro Fabrizio dovrà stare in guardia contro i nemici ipocriti e pericolosi. Trascorsi quattro anni egli fa ritorno a Parma oramai è diventato "un diamante che nulla aveva perduto nella pulitura" ed effettivamente non si può negare che non si sia interamente calato nella parte, purtroppo la sua intelligenza e presenza di spirito urteranno il principe Ernesto IV, famoso per la sua malvagità. Ma l'uomo, non sempre può lesinare sui propri impulsi ...egli non si farà scrupoli nel corteggiare anche donne che sono legate sentimentalmente ad altri. Stendhal ora ci propone un uomo spavaldo e non me ne vogliate quando affermo ciò, si ravvede in lui un gioco perverso che lo porterà a sfidare i contendenti....e reo di aver ucciso il fidanzato di un'attrice verrà rinchiuso in prigione Paradossalmente l'amore con la "A" maiuscola si materializzerà in prigione con un Fabrizio cambiato e che escogiterà qualsiasi espediente per poter vedere la sua amata. Il nostro eroe è talmente innamorato che addirittura ricuserà la libertà che ben presto gli si presenta alla porta e solo l'intervento della sua Clelia lo farà desistere dall'idea folle di voler rimanere per sempre rinchiuso. È chiaro che l'amore cambia ogni uomo e il nostro eroe, che in seguito all'evasione è stato apprezzato non solo per il coraggio ma anche per aver ridicolarizzato la polizia, non è immune a ciò. Fabrizio diventa sempre più taciturno, la tristezza lo pervade sempre più, preferendo di gran lunga la solitudine alla compagnia della zia.....ma Fabrizio sembra non aver pace. Stendhal ci descrive il nostro Fabrizio come un uomo alla ricerca della felicità e quando sembra raggiungerla c'è sempre un'avversità. Bè direi di concludere qui.... E di proposito non svelerò il finale.
Ci sono tutti gli ingredienti per tenere il lettore sulle spine: intrighi, vendette, ipocrisie, corruzione, avvelenamenti, compromessi insomma un vero e proprio best seller che non risparmierà nessun personaggio.
Avvertenze per il lettore che si appresta alla lettura del romanzo
1) il linguaggio usato inizialmente può scoraggiare, resistete;
2) la prima parte risulta molto noiosa, almeno per me, non rinunciatevi;
3) se per voi è un periodo stressante posticipate la lettura a tempi migliori;
Buona lettura
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Vizi e virtù dell' Italia alle soglie del Risorgim
Amore, duelli, guerra, politica, intrighi, invidie, gelosie, veleni. Gli ingredienti per un’ ottima storia ci sono tutti e infatti questo romanzo merita la fama internazionale che lo circonda da quasi due secoli. Se si supera un inizio lento e pieno di riferimenti storici e una prosa per forza di cose un po’ antiquata si ha la possibilità di leggere un libro bello e piacevole che rappresenta una pietra miliare della letteratura europea. Stendhal ci guida in un' Italia alle soglie del Risorgimento attraverso le vicende di Fabrizio del Dongo, giovane figlio di un marchese ultraconservatore che tradirà gli ideali paterni per amore di Napoleone andando in Francia per arruolarsi nell' esercito guidato dal grande generale corso. Ma questa avventura non andrà secondo i suoi sogni e al ritorno in patria comincerà per lui una vita di esilio, fughe e pericoli in cui conoscerà la galera ma anche l’ amore, l’ amicizia e la fama. Attorno a Fabrizio troviamo un nugulo di personaggi molto diversi per estrazione, modo di vivere e carattere, attraverso i quali l' autore traccia un preciso ritratto delle classi sociali, della vita e delle consuetudini dell' Italia dell' epoca dimostrando un grande amore per il Bel Paese e per i suoi abitanti. Secondo Stendhal infatti gli italiani sono l' unico popolo d' Europa capace di farsi guidare nella vita dalla passione e dai sentimenti, d' amore o d' odio che siano, e non esclusivamente dalla sete di denaro. Da sottolineare le figure del conte Mosca e soprattutto della bellissima zia di Fabrizio, Gina, legata al nipote da un fortissimo sentimento d' amore che sfiora la morbosità pur restando comunque platonico. Questi due personaggi saranno fondamentali nella vita del protagonista e aiuteranno il lettore a capire gli intrallazzi e i sotterfugi del potere, le tresche e le rivalità di corte, l' importanza delle alleanze politiche e l' influenza che certe donne riuscivano ad avere nella vita pubblica. Un romanzo da leggere non solo per la sua fama ma anche perché interessante, intrigante e divertente, in cui è facile trovare vizi e virtù che fanno ancora parte della vita contemporanea.
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Una ferma condanna della politica
Quando lessi per la prima volta questo romanzo è stato all’incirca una quarantina di anni fa; all’epoca ero uno studentello che si sentiva quasi importante per avere fra i suoi autori preferiti Henry Beyle e la Certosa di Parma aveva tutto quanto può rendere interessante la lettura a un giovane spensierato: passione, intrighi, duelli, insomma un cappa e spada in piena regola.
A distanza di così tanto tempo la rilettura è andata quasi inconsciamente a cercare un’altra visione dell’opera, perché troppo semplicemente era facile attribuirle i connotati di un romanzo d’avventura, fuori dai canoni letterari propri di Stendhal.
E allora mi sono soffermato su quelle pagine che da giovane mi avevano destato minor interesse e così ho scoperto l’autentica grandezza di quest’opera, scritta in poco più di un mese e mezzo quasi alla fine della vita del suo autore.
Stendhal non aveva affatto l’intenzione di realizzare solo un romanzo d’avventure; il suo scopo è stato ben più elevato e non a caso l’ambientazione è in uno stato assolutista quale era il Ducato di Parma. La sua è una ferma condanna della politica, che tutto piega alla ragion di stato, tanto che mi verrebbe spontaneo dire, rifacendomi a quanto osservò Balzac, entusiasta dell’opera, La Certosa è il romanzo che avrebbe scritto il Macchiavelli se fosse vissuto a quell’epoca e fosse stato messo al bando dai poteri imperanti.
Insomma, secondo me, tutti i romanzi di Stendhal, ma soprattutto questo, sono delle vere e proprie dissertazioni di amoralismo politico.
E ciò è tanto più vero se si osservano i tre personaggi principali:
Fabrizio Del Dongo
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Vive come distaccato dalle azioni che compie, è un essere per certi versi più spregevole del Julien Sorel de Il rosso e il nero, perché, benché ne abbia tutte le opportunità, reputa di scarso peso occupare una nicchia ben precisa nell’umanità, al punto, anche, di essere incapace di amare.
La Sanseverina
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E’ una romantica pura, passionale al massimo, nel suo amore per Fabrizio che si accresce tanto più quando deve essere protettiva e allora sboccia immediata l’arguta trama politica, intesa sì come una necessità per porre rimedio ai gesti inconsulti del giovane Del Dongo, ma anche come gioco necessario per poter a pieno titolo essere parte di un mondo di sottili intrighi, di rivalità, di capovolgimenti di fronte, di alleanze tradite e riprese.
In poche parole per essere colei che conduce la politica.
Il conte Mosca
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Il politico per eccellenza che si adopera per accontentare tutti senza scontentare nessuno. A suo modo è una figura simpatica e sembra di vederlo questo aristocratico cavalcare le varie fazioni con la dignità che gli è propria, ma la mancanza di rispetto per se stesso. Preciso che la personalità del Mosca è quella di una brava persona, ma che manca di ideali, tanto che, fedele servitore del Principe, finisce con il suggerire soluzioni inapplicabili, in modo che qualche cosa abbia momentaneamente a cambiare per riconfermare alla fine l’immobilismo più assoluto.
Questi tre personaggi, apparentemente diversi nel comportamento, finiscono con l’essere accomunati dalla tragicità di non credere a nulla, di vivere il loro rapporto a tre come se al mondo esistessero solo loro, in una totale mancanza di ideali a cui cercano di supplire tramite i rapporti personali, alla ricerca di una felicità impossibile in chi può far progetti e invece vive, o meglio vegeta, alla giornata.
C’è, inoltre, un quarto personaggio a cui Sthendhal guarda con la più viva simpatia, desiderando in cuor suo di potergli somigliare: Ferrante Palla, un liberale condannato a morte in contumacia, un po’ vanesio, se non pazzo, e che del politico è esattamente l’opposto, con una fede incrollabile nel suo ideale, tanto da esser disposto a tutto, anche a sacrificare la vita. E’ innamorato della Sanseverina, anche se sa che questo sentimento sarà senza speranze, ma è egualmente felice, perché, come crede nei suoi principi liberali, crede anche fermamente nel suo amore. Da notare che questa figura, simpatica nelle sue vesti di Robin Hood, assume toni ridicoli, quasi a diventare una parodia della libertà e della giustizia, a cui solo chi non è savio di mente può credere come realizzabili, sembra dirci Stendhal.