La campana di vetro
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La verità, vi prego, per Sylvia
Manca l’aria sotto la campana di vetro: si soffoca alla luce del sole, di fronte agli occhi di tutti. La realtà è una teca di vetro che costringe gli altri alla distanza, anche se ci illude di rendere visibile l’invisibile. Invece Esther è sola, Sylvia è sola. La giovane ragazza inebriata dalla propria intelligenza, dalla grazia rara delle poesie che scrive fin da bambina, incensata da borse di studio e premi prestigiosi, resta sospesa sul limite sdrucciolevole della propria inadeguatezza, alla ricerca di un equilibrio tra arte e vita, verità e gioia, capace di stroncare un’esistenza. Non scomoderò per Sylvia Plath la psicologia torbida alla McGrath: ho con lei, abbiamo con lei, un debito di sincerità. Non ci sono labirinti limacciosi e torbidi, non ci sono abissi di disperazione, parossismi di tormento. A Sylvia dobbiamo parole nude, suoni puri e trasparenti, perché nelle pagine dei suoi diari, nelle svolte autobiografiche di questo romanzo, ci concede la rara occasione di osservare il nucleo dai margini netti del suicidio. Il suicidio irrompe quasi senza preavviso, dopo pagine qualunque sulla via qualunque di un’adolescente americana che ha ottenuto la possibilità di scrivere per una rivista di moda a NewYork. E quando compare, quando il primo tentativo va a vuoto, il suicidio resta sempre lì, dispiegato nella sua inappuntabile incombenza, non un buco nero nascosto, ma un alter ego cui Sylvia parla con franchezza, come una possibilità sempre concreta, sempre a portata di mano. È questa naturalezza del discorso, questa tranquillità espressiva, che rende questo libro prezioso e doloroso: perché queste non sono pagine di disperazione, ma di stanchezza e rassegnazione. La rassegnazione di chi sa di vivere, come San Paolo, “come attraverso uno spazio”, come la Karin dell’omonimo film di Bergman che sconta questa consapevolezza con la violenta inappellabilità della schizofrenia. Lo specchio che a Sylvia restituisce un’immagine di sé che lei stessa non sa riconoscere, l’immagine tempestata di luci azzurre dell’elettroshock, l’immagine di una poetessa costretta a sacrificare la propria arte a un mondo che alle donne lascia poco spazio.
Sylvia Plath non era un romanziera: il libro sconta qualche trascuratezza formale e di struttura, perfino qualche punto di ineleganza, ma resta forse l’unico lavoro della scrittrice che possiamo leggere senza le manipolazioni e il filtro di un marito, Ted Hughes, che distrusse i diari degli ultimi mesi di vita della scrittrice. Mesi fervidi e creativi, che ci hanno lasciato le poesie inafferrabili e altissime di “Ariel” e che sembrano chiudere il doloroso corollario di una vita che ha in questo romanzo il suo centro rivelatore. Dobbiamo verità a Sylvia Plath, al coraggio della sua fragilità, alla franchezza del suo coraggio, al dolore della sua malattia: una verità che pochi le hanno riservato, cui quasi nessuno sembra tenere. È più facile parlare dell’ennesima donna sfortunata, trattata con disprezzo dal marito, incastrata tra l’arte e i figli: ma la sua biografia, quando presa per intero, ha più di qualcosa da insegnarci sull’essere umani. E questo libro ci aiuta a esserlo.
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Ariel di Sylvia Plath
Mi sentivo opaca e sconfitta
Ho riletto il romanzo stimolato da Una di luna di Andrea De Carlo (lì entrambi i protagonisti si riconoscono nella comune esperienza della lettura de La campana di vetro di Sylvia Plath).
La campana di vetro di Sylvia Plath è la cronologia di una deriva esistenziale che attraversa il fallimento dei rapporti umani, la disillusione per l’impulso creativo, il tentativo di suicidio, l’approdo alla patologia psichiatrica con la drammatica esperienza dell’elettrochoc.
Affido il riassunto a due passaggi del romanzo:
“Avevo rinunciato a una borsa di studio presso un importante college femminile dell’est, abborracciato l’impiego di un mese a New York e respinto come marito un solidissimo studente di medicina che un giorno… avrebbe guadagnato un pozzo di quattrini.”
“Ricordavo i cadaveri, Doreen, la storia dell’albero di fico, il diamante di Marco, il marinaio lungo Commonwealth Avenue, l’infermiera strabica, i termometri infranti, il negro e le due pietanze di fagiolini, i venti chili acquistati con l’insulina e lo scoglio che sporgeva tra cielo e mare come un teschio grigio.”
Giudizio finale: tragico, monomaniacale e unico (infatti è l’unico romanzo scritto da Sylvia Plath). Nella seconda parte (a Boston e in clinica), un capolavoro.
Bruno Elpis
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Io sono. Io sono. Io sono.
Anni sessanta.
Sei brava, sei intelligente, sei sensibile, sei brillante, sei precisa.
Ma non importa, la società ha già definito il ruolo per te. Devi essere sana, moglie devota, brava madre, brava casalinga, magari stupida, simpatica e ben vestita.
Se non sei conforme al modello, non sei adeguata per la vita che ti attende.
Ma questo ruolo ti sta stretto. Ti senti come in una "campana di vetro", bloccata, senza spazio vitale, senz'aria.
"Vidi la mia vita protendere i suoi rami come il verde albero di fico del racconto. Dalla cima di ogni ramo ammiccava e occhieggiava un futuro meraviglioso. Un fico simboleggiava un marito con una casa felice e dei bambini, un altro un celebre poeta, un altro un brillante professore universitario, un altro uno straordinario redattore, un altro ancora rappresentava l'Europa, l'Africa e il Sud America e uno era Constantin, Socrate, Attila e una schiera di altri innamorati dai nomi strani e dalle professioni eccentriche, un altro era una popolare campionessa olimpionica, e, al di là e al di sopra di tutti questi fichi, molti altri fichi c'erano che non potevo neppure scorgere. Mi vidi seduta sulla biforcazione di un ramo di questo albero, mentre morivo di fame, solo perché non sapevo decidermi a fare la mia scelta. Avrei voluto poterli scegliere tutti; ma scegliere voleva dire perdere tutti gli altri e, mentre sedevo là, incapace di decidermi, i fichi si raggrinzirono, diventarono neri e, l'uno dopo l'altro, caddero a terra ai miei piedi."
Sylvia Plath sente che tra quello che lei è e ciò che ci si aspetta che sia c'è incompatibilità e, forse grazie a una depressione, tenta la fuga, il suicidio, già a vent'anni.
Seguiranno tanti altri tentativi, fino al compimento della sua volontà, a 31 anni.
Il romanzo, autobiografico, dove Sylvia descrive la vita di una ragazza, Esther, suo alter ego, mi ha colpito innanzitutto per lo stile. Mi aspettavo un clima cupo, deprimente, opprimente, senza speranza. L'ho trovato invece coinvolgente, asciutto, non disperato, tranquillo, pacato, quasi rassegnato. L'atmosfera non è alienata, nonostante la malattia mentale. Non c'è chiusura in sé stessa, bensì apertura, ironia, cinismo.
Parlando per bocca di Esther, Sylvia racconta i suoi incubi, i rapporti con la madre, il sesso, la sua prima volta, l'esperienza in ospedale psichiatrico, l'elettroshock, le riflessioni sul suicidio, la depressione, la poesia, l’invidia.
Parla di sé, Sylvia Plath. Ma il suo discorso acquisisce valenza assolutamente universale e attuale. Ed è questo che fa di questo libro un vero gioiello.
L'interrogarsi di Sylvia sul senso della vita e sulle sue costrizioni diventa, lentamente e inevitabilmente, il nostro.
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Sylvia/Esther. Io sono.
«Come guardare Parigi dalla coda di un treno che corre nella direzione opposta: di secondo in secondo la città diventa sempre più piccola, ma a te sembra che sei tu a diventare sempre più piccola e sempre più sola e a essere trascinata via a circa un milione di miglia all’ora, lontano da tutte le luci e il divertimento»
New York, sinonimo di speranza e possibilità, è il luogo in cui le vicende che vedono quale protagonista la diciannovenne Esther Greenwood hanno inizio. E’ infatti qui che la brillante studentessa, vincitrice di un soggiorno di un mese offerto da una rivista di moda inizia a sentirsi come «un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi, come un campione di calcio dell’università che si trova tutt’a un tratto di fronte a Wall Street e al doppiopetto grigio, i suoi giorni di gloria ridotti alle dimensioni di una piccola coppa d’oro sulla mensola, con su incisa una data, come una lapide di cimitero», è qui che percepisce cioè sempre più la presenza di quella “campana di vetro” talché, lei che si era sempre sentita una ragazza ribelle alle regole della società borghese, finisce con l’esserne schiava. A livello psicologico quel che maggiormente influisce da agente scatenante è il non essere – con quello che è il primo insuccesso che effettivamente la colpisce – accettata da una scuola di scrittura per artificio della sua penna. Ma d’altronde, riflette Esther, come «facevo a scrivere della vita, se non avevo mai avuto una storia d’amore, né un figlio, né avevo mai visto morire qualcuno?». Che allora non sia così intelligente come si è sempre creduta? Che non sia così brava come è immancabilmente riuscita a far credere agli altri? Che persino il suo bluff al corso di chimica sia stato un mero episodio isolato e che dunque il suo esserne esonerata sia stato solo un caso di fortuita fortuna? Da qui la ricerca della morte, la volontà di farla finita, di staccarsi da quel mondo di dogmi scritti e non che la piegano con le loro pretese e dal quel perenne senso di inadeguatezza che la stringe.
Come noto, “La campana di vetro” è un romanzo che presenta molteplici assonanze tra l’autrice e la protagonista dalla di sua penna nata. Tanto Sylvia, quanto Esther, sono figlie di emigrati di ascendenza tedesca e austriaca, entrambe hanno perso il padre intorno ai 10 anni, entrambe, dopo una carriera scolastica ineccepibile, hanno vinto un premio consistente in una specie di praticantato giornalistico in una rivista femminile (nella realtà “Mademoiselle”) dove si occupavano di una rubrica mondana, ed ancora entrambe, tornate a Boston, hanno tentato il suicidio e sono state sottoposte a cure psichiatriche per poi completare gli studi. Sylvia, ultimati questi sposò il poeta Ted Hughes da cui si separò nel 1962 e a distanza di poco meno di un anno, nel 1963, pose fine alla sua vita suicidandosi. E’ dunque evidente quante le due esistenze siano in parallelo.
Di fatto, l’opera della Plath, cela molto più di quel che con una prima e rapida lettura potrebbe sembrare. Simbolicamente la stessa può essere suddivisa in tre blocchi: un primo all’interno del quale viene evidenziato il processo di “educazione” della Greenwood, un processo in cui la giovane dovrebbe essere iniziata alla vita sociale, alla gratificazione e all’affermazione in questa ma che di fatto rifiuta attraverso il “bagno di purificazione” consistente nel liberarsi di quegli abiti costosi che la vestivano, di quelle maschere cioè che la obbligavano al compromesso; una seconda in cui la matrice provinciale della propria casa materna in quel di Boston, unita ai Willard e alla quotidianità che dovrebbero rappresentare la normalità, danno avvio alla fase di “anormalità” dove la vita, morte, la nascita, il concepimento diventano i fulcri fondamentali della ricerca; ed una terza in cui comincia la riabilitazione e dove comunque continua quella ricerca di identità ed esplorazione di sé stessa e degli altri fuori da quella campana invisibile ma perenne che la soffoca, che la uccide lentamente. E’ il ruolo dell’artista quello che emerge, un artista cioè che racconta, testimonia un’iniziazione tentata questa volta in proprio dopo il rifiuto dell’accettazione e del compromesso.
Esther colpisce inoltre per la totale mancanza di affettività. Ella è irraggiungibile per gli altri ma anche per se stessa tanto quanto gli altri sono irraggiungibili per lei. E’ totalmente priva di empatia. Qualsiasi rapporto che stringe è caratterizzato sempre e comunque da una distanza mentale e fisica che fa si che mai possa instaurarsi qualsiasi forma di legame emozionale. Tra tutti, l’unico personaggio che viene descritto con un minimo di tenerezza è la Dottoressa Nolan, perfetta contrapposizione del materialista e qualunquista Dottor Gordon che attraverso l’uso dell’elettroshock e con soli 25 dollari a seduta, avrebbe risolto ogni suo problema psichiatrico. L’idea di potersi legare a qualcuno la inquieta, la terrorizza, le ricorda la perdita del padre la cui tomba visita per la prima volta in età adulta, e la induce a vivere come un peso anche quella verginità che da sempre le è stata imposta quale requisito di purezza e che di fatto ha poi scoperto non essere rispettata proprio da colui, Buddy, che in qualità di fidanzato doveva farsene portavoce.
Infine, Joan. La sua antitesi, colei che dà fondo ad un doppio finale che fa soffermare il lettore su quel paradosso, chiamiamolo così, che ne scaturisce (la morte dell’una, la guarigione dell’altra).
Quello della Plath è quindi un romanzo forte, dai grandi contenuti e dai grandi caratteri. La sua ricerca della morte estrinseca mediante la voce di Esterh, fa si che il testo assuma i toni di una vera e propria ricerca interiore non solo della protagonista/Sylvia ma anche del lettore che immancabilmente finisce con l’interrogarsi su quel che è il senso della vita e su quelli che sono i dogmi – contraddittori – imposti, in qualsiasi era, dalla società.
«Mi ero immaginata un uomo gentile, brutto e intuitivo, che mi avrebbe ascoltata con un “Ah” di incoraggiamento, come se vedesse qualcosa che a me sfuggiva, e allora io avrei trovato le parole per dirgli della paura che mi aveva preso, della sensazione di essere ricacciata sempre più in fondo a un sacco nero senz’aria e senza fine»
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MANCANZA D'ARIA
"Eran ventun notti che non dormivo.
Mi sembrava che la cosa più bella del mondo doveva essere l'ombra, le mille mobili forme e i mille anfratti dell'ombra. C'era ombra nei cassetti delle scrivanie, negli armadi, nelle valigie, ombra sotto alle case, gli alberi, le pietre, ombra dietro gli occhi e i sorrisi della gente, e ombra, miglia e miglia e miglia di ombra, sulla faccia notturna della terra. "
"Credevo nell'inferno e che certe persone ,io per esempio, erano condannate a vivere all'inferno durante la vita, per compenasre il fatto di non andarci dopo la morte, visto che non credevano nell'aldilà,e che dopo la morte a ciascuno succede quello in cui aveva creduto. Tutti, vedendo i miei capelli unti e flosci, mi confrontavano con quella che ero prima e che loro volevano che io fossi."
"La camapana di vetro" è un libro non di facile lettura secondo me, ci vuole calma e silenzio per poterlo leggere. A me spiace solamente che l'ho letto in un periodo in cui la mia mente era troppo invasa dalle mille cose da fare, un periodo un pò incasinato. Quindi non ho avuto modo di assaporare al meglio la ricerca della morte della protagonista. Si dice che sia autobiografico ed in effetti si rifà ,per alcuni momenti , alla vita di Sylvia stessa. Non dimentichiamoci che Il libro è stato anche pubblicato nel 1953, un mese prima del suicidio dell'autrice.
Questa continua ricerca del modo in cui poter morire, senza nessuna paura, ma non trovando mai la forza di dividere la sua volontà personale dalla forza stessa del corpo umano che si rifiuta di lasciare la vita.
Si forma attorno a lei questa campana di vetro che schiaccia la protagonista sotto il peso della sua protezione, togliendole a poco a poco l'aria.
La protagonista non assapora ciò che gli sta intorno, non trova l'amore e questo è dato sicuramente dallo stato in cui si trova. I suoi genitori fanno di tutto per poterla salvare, per convincerla ad abbandonare l'idea della morte, fino a che la portano in vari ospedali psichiatrici.
Ma a Esther questo non sembra importare, se non che solo la paura del dolore dell'elettroshock usato nella prima clinica.
Un libro davvero potente, da leggere a mente aperta, senza avere pregiudizi.
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cocci e conchiglie
E' un mondo cinico quello descritto ne "La campagna di vetro" ed i suoi abitanti appaiono per la maggior parte predatori.
Nel suo personale, forse in parte autobiografico, ritratto della società statunitense degli anni '60, Sylvia Plath ricrea quello che forse è stato il universo personale soffocante, opprimente, claustrofobico, indotto da una realtà che procede e va avanti trascinando dietro sé tutto ciò che incontra sul suo cammino. Esther, la nostra protagonista è troppo fragile per respirarvici.
I suoi attori sono antropomorfi stereotipi: il simbolo della competitività americana, dell'apparenza borghese che nasconde incoerenze di una società smaltata ma che dentro è ipocrita. Il successo, obiettivo primario, conquistato con l'astuzia da sciacallo e con quello spirito competitivo tipico del cowboy.
Una borghesia che vive di "dover essere" che copre con le luci le sue tante ombre.
Ma Esther invece... rappresenta la purezza in questo caos, la sincerità, il coraggio di rifiutarsi di vivere una vita non propria. Si trova schiacciata in questa realtà di aspettative che vorrebbero attribuirle un'immagine perfetta: moglie e madre.
Al desiderio connaturato di amore si scontra però il rifiuto di un destino già segnato. Amare vuol dire essere condannati a vivere all'ombra del matrimonio per l'eternità. Ciò che cerca Esther è il vero sentimento, forse finto nella sua ingenua idealizzazione, quello svincolato dai ruoli sociali e dalle aspettative di genere che la società bigotta le avrebbe imposto.
Lo scontro esistenziale compare nel momento in cui bisogna scegliere a tutti i costi e rinunciare all'altra faccia della medaglia: la realizzazione personale, che sembra escludere la vita famigliare e la presenza dei sentimenti.
Sentiamo sin dall'inizio della narrazione che Esther si sente schiacciata in una morsa: l'amore da sempre sognato ed ora disilluso, e la possibilità di intraprendere tutte le strade che la vita le offre.
Questo è quindi un mondo di esclusioni, di scelte marcate, di privazioni.
Amore un altro essere o sé stessi?
In questa turbante riflessione Esther si perde impetuosamente. Si lascia schiacciare dalle paure verso un futuro che le sembra segnato e che rifiuta. Immagina davanti a se un "fico" del quale ogni ramo rappresenta un avvenire possibile (la famiglia i viaggi la carriera), ma che inizia piano piano a far marcire i suoi frutti davanti ai suoi occhi. Come marciscono i frutti se non perchè non son colti?
Un futuro già fallito in partenza dunque? Un'indecisione esistenziale che nasconde una forte fragilità interiore in un mondo le non ammette tregue.
La nostra contro-eroina fa parte di quelle tante anime del mondo nate "storte", o semplicemente pure e sincere, dotate di una sensibilità che le rende inadatte al mondo crudele e distruttore in cui viviamo. In questa realtà gli spiriti delicati ne escono ammaccati con la sensazione di non avere una direzione, o come scrive qui la Plath, di sentirsi "un cavallo da corsa senza piste".
La storia di questa giovane donna ci cattura perchè ha il potere di turbare mentre cerchiamo di capire quale possa essere la ragione del suo malessere. Un precoce lasciarsi andare perchè è meglio fingersi pazzi piuttosto che restare in una realtà odiata, che Esther vive immersa nella sua lattiginosità.
Ho apprezzato questo racconto perchè si legge il coraggio di ammettere le proprie fragilità.
Mi è sembrato di percepire, durante la lettura, questo lento lasciarsi scorrere, quasi come se la vitalità scivolasse via come una goccia d'acqua gelida sulla pelle. Sappiamo che cadrà al suolo e non vogliamo fermarla perchè di reca un sottile, masochistico piacere.
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La voce del nulla
Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa radice:
è quello di cui tu hai paura.
Io non ne ho paura: ci sono stata.
E' il mare che senti in me,
le tue insoddisfazioni? O la voce del nulla che era la tua pazzia?
L'amore è un'ombra.
Come lo insegui con menzogne e pianti.
Ascolta: ecco i suoi zoccoli: è corso via come un cavallo. (dalla poesia Olmo)
Il racconto La campana di vetro è molto interessante da un punto di vista letterario e anche psicologico. Sylvia racconta la sua vita a partire da una vacanza premio a New York presso la redazione di un giornale di moda. La voce narrante, alter ego dell'autrice, è Esther diciannovenne brillante e particolare. Il tono in cui il romanzo è scritto potrebbe far pensare a Chiedi alla polvere o al Giovane Holden, soprattutto nella parte iniziale. Poi però quella che sembra una ragazza ribelle alle regole della società borghese si manifesta come una ragazza crocefissa da queste regole. La sua salute mentale subisce un duro colpo quando una scuola di scrittura la rifiuta, il suo primo insuccesso. Esther è una ragazza intelligente ma insicura. Dentro di sè pensa di essere un bluff e si sente inadeguata. Forse non è davvero così intelligente, così brava come è sempre riuscita a far credere a tutti, teme. L'episodio del corso di chimica da cui riesce a essere esonerata (bluffando) lo dimostra. E' molto studiosa, troppo per una persona davvero intelligente, così studiosa che non è mai vissuta, dunque i suoi racconti sono artificiosi ai suoi stessi occhi e a quelli della scuola di scrittura da cui è rifiutata. Tutte queste insicurezze, insieme a quelle sul suo aspetto (troppo alta, troppo magra) emergono poco a poco. Ma la difficoltà maggiore di Esther sta nelle relazioni con gli altri. Nel racconto Sylvia introduce una serie di persone in relazione con Esther: il fidanzato Buddy, la madre, le amiche. Colpisce il fatto che Esther metta una barriera con tutti. A dispetto della sua grande sensibilità sembra irraggiungibile e sembra che gli altri siano irraggiungibili per lei. Non mostra empatia, affetto verso nessuno. Prova ad avvicinare amiche (Doreen) o ragazzi ma senza mai essere vicina a loro. Il problema della sua verginità fisica è in realtà quello della sua verginità mentale, della sua anaffettività. Non le piacciono i bambini, dice. Anche il fatto che cerchi uno sconosciuto per togliersi il dente della verginità sottolinea come sia arduo per lei provare sentimenti. C'è un blocco dell'affettività legato alla morte del padre e al terrore di legarsi a qualcuno e perderlo come succederà davvero alla scrittrice anche se nella vita e non in questo racconto. Probabilmente Sylvia ha anche dei sensi di colpa legati alla lunga malattia del padre, al fatto che lui abbia rifiutato ogni cura per lunghissimo tempo.
Sylvia ci descrive un deserto umano intorno a Esther, non perchè non ci sia nessuno vicino a lei quanto perchè tra lei e gli altri c'è il muro, la famosa campana di vetro dentro la quale Esther inizia a soffocare e a morire.
Interessante anche la figura del doppio di Esther, (che lei odia), la sua migliore amica Joan. Curioso che proprio Esther/Sylvia che studia il doppio nella letteratura, in Dosto., poi introduca un doppio anche nel suo racconto. Joan rappresenta la sua parte nera, dice. E Joan farà la fine che la sua parte nera pretende di fare. Così il lettore si trova a vivere i due finali, il suicidio di Joan e la guarigione di Esther.
Colpisce come in tante pagine in cui ci sono incontri, feste, amiche, fidanzati le esperienze più emozionanti e le righe più belle e suggestive sono sempre quelle legate ai tentativi di suicidio.
Bellissima la descrizione di Esther che si butta a capofitto sugli sci lungo una discesa a velocità folle. Rende l'idea di che grande magnete sia stata per lei la morte.
Nella parte finale del racconto è descritta la guarigione di Esther, legata alla cura azzeccata, e più probabilmente al rapporto estremamente positivo con la dottoressa Nolan. La dottoressa è l'unico personaggio descritto con tenerezza e con profondo affetto. L'unico personaggio a colori tra tante figure in bianco e nero. La Nolan crede in Sylvia, la tratta con grande affetto e grazie alla sua fiducia generosa, alla sua positività riesce (credo meglio dell'elettroshock) a dare a Esther/Sylvia la spinta propulsiva verso la vita.
La febbre e la paura erano sparite. Mi sentivo purgata e sorprendentemente in pace. La campana di vetro stava sospesa qualche spanna sopra la mia testa e l'aria circolava liberamente intorno.
...........
E ora io
schiumo in grano, un luccichio di mari.
Il grido del bambino
si dissolve nel muro.
E io
sono la freccia,
la rugiada che vola
suicida, fatta una con lo slancio
dentro l'occhio
scarlatto, il crogiolo del mattino. (da Ariel)
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“Io sono, io sono, io sono”
Una certa sensazione di inadeguatezza aleggia fin dalle prime pagine di questo romanzo in buona parte autobiografico, malgrado lo stile leggero e informale che lo caratterizza.
Esther, promettente studentessa della borghesia di Boston, vince insieme ad altre undici ragazze un concorso letterario indetto da una rivista di moda femminile.
Il premio è uno stage di un mese presso la redazione di New York, con la possibiltà di godere gratuitamente di tutto ciò che la megalopoli offre.
La Grande Mela è lì, invitante e caotica, e non riuscire a morderne almeno un pezzo guidando la propria esistenza nella giusta direzione significa essere dei perdenti:
“Ma io non guidavo proprio un bel niente, nemmeno me stessa”.
Nel libro emerge chiara la condizione ambigua della donna americana degli anni Cinquanta: se da un lato se ne incoraggia l'istruzione invitandola a coltivare le proprie passioni, dall'altro c'è sempre per lei la meta suprema da cui non può prescindere: sposarsi, accudire il marito, avere dei figli.
La sensibilità e l'intelligenza di Esther la portano a respingere ciò che la morale comune le impone e a prendere le distanze dal ragazzo che dovrebbe sposare, cominciando a disprezzarlo dopo un episodio che le rivela la misura della sua ipocrisia.
Il disagio lascia gradualmente il posto ad un vero e proprio malessere: è l'incertezza del futuro, il fatto di non sentirsi attraente, la sostanziale solitudine della ragazza:
“Sentivo le lacrime urgere in me, e lì lì per traboccare come l'acqua in un bicchiere troppo pieno”.
Emblematici il distacco e l'indifferenza con cui le cortesi persone dell'ambiente patinato che la circonda reagiscono al suo pianto, facendola sentire “fiacca e tradita”.
I primi allarmanti segni di alienazione mentale si manifestano poco prima del suo ritorno a casa, sotto forma di strani comportamenti descritti con logica apparente:
“...tenevo il viso immobile e quando dovevo parlare lo facevo attraverso i denti senza muovere il labbro. Veramente non vedevo perché la gente dovesse guardarmi così”.
Esther non riesce più a dormire, mangiare, leggere, ha il terrore di perdere completamente la ragione, ma ciò che le fa soprattutto desiderare di morire è il fatto di non riuscire più a scrivere, lei che sogna di diventare una poetessa.
Tutto le si confonde in testa e le diventa indifferente: “...sarei sempre rimasta là seduta sotto la medesima campana di vetro soffocando nella mia stessa aria viziata”.
La falsità di una società bacchettona e tutte le ferite del passato sembrano attaccarla sotto forma di grigiume, angoscia soffocante, sedute di elettroshock, e il lettore si ritrova dall'altra parte della barricata: quella del malato mentale oggetto di sguardi diffidenti e risatine.
Ma è il dolore di una mente brillante e alienata ciò che spicca su tutto, il bisogno di Esther di trovare un appiglio, qualcuno di cui fidarsi che le tenda una mano nel suo precipitare verso la follia.
“Io sono, io sono, io sono”, è il canto disperato del suo cuore, che la richiama alla vita tutte le volte in cui corteggia la morte.
Guarire significa avere la forza di rassegnarsi, tornare ad apprezzare le piccole gioie quotidiane, dimenticare l'attrazione che esercitano su di lei gli oggetti affilati.
La sua prosa è schietta, la sua poesia disincantata:
“Morire
E’ un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammettete che ho la vocazione”.
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Come un cavallo da corsa in un mondo senza piste
"La campana di vetro" è un lungo viaggio nella mente di Sylvia Plath, che in questo suo unico romanzo si racconta tramite la figura della brillante studentessa diciannovenne Esther Greenwood. Vengono ripercorsi tutti i momenti della sua malattia psicologica, dallo stage presso un'importante rivista di moda al ricovero e alla riabilitazione in un istituto psichiatrico. La narrazione è delicata, gli episodi bui della vita di Esther vengono presentati in modo pacato e suggestivo, con uno stile poetico e limpido. Non manca nemmeno una piccola dose di ironia nella prima fase del romanzo, in cui i fatti del presente si intrecciano a ricordi ed avvenimenti del passato. Il titolo del libro è rappresentativo del disagio della protagonista: la campana di vetro asfissiante è l'immagine delle esigenze e delle convenzioni della società a cui bisogna uniformarsi per essere ritenuti normali e che, nel caso della protagonista, riguardano aspetti della vita come matrimonio, verginità, maternità e successo professionale. Ma Esther percepisce un senso di inadeguatezza, si sente "inerte e vuota, come deve sentirsi l'occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente." Il mondo della giovane donna si riempie così di incertezze, improduttività, crisi di identità che la portano a cercare sollievo solo nel pensiero della morte, tramutatosi in seguito in reali tentativi di suicidio. L'unica alternativa è rappresentata dal ricovero in un ospedale psichiatrico, ma il percorso che porta alla guarigione è costituito da timori verso i medici, confronti con le altre pazienti, elettroshock e soprattutto dalla paura che la campana di vetro possa scendere nuovamente sulla testa di Esther, vanificando dunque tutti i suoi sforzi e facendola ripiombare nell'apatia. Significativo è il rapporto che la società instaura con persone affette da disturbi psichiatrici quale quello sofferto dalla protagonista, additandole come "matte" contrapposte ai "normali" che vivono tranquillamente le loro vite, rendendo così più problematica la condizione di Esther: ad essa si aggiunge infatti il peso di aver deluso i familiari e il rischio di essere trattata con freddezza, se non disprezzo, dai conoscenti. La narrazione riesce a coinvolgere e colpire sin dalle prime pagine, e si conclude con un finale intenso che unisce protagonista e lettore in un legame più forte di speranza. Il romanzo è accompagnato, inoltre, da alcune poesie di Sylvia Plath, tratte dalla raccolta "Ariel". Consigliato.
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I am vertical
Non è un romanzo letterario, per quanto insensata sia la definizione. E' un romanzo di distruzione, di annientamento, un umile strumento di tortura (il valore letterario, sinceramente, non è dei più alti) per verificare la propria adeguatezza alla vita. Come disse Camus di Meursault, lui venne ucciso perché non recitava la parte. Per Sylvia non è poi così diverso. E' certamente autobiografico, risultato di uno sfogo psicanalitico che non porterà però il giovane poeta alla guarigione, ma alla morte. Compararlo ad un romanzo di formazione come "Il giovane Holden" è indubbiamente sbagliato, perché risultano netti nell'opposizione della vicenda stessa, Esther nella rassegnazione (anche se il romanzo finisce effettivamente bene) e Holden in un nuovo inizio. Ma per capire Sylvia Plath è necessario leggere le sue poesie; metto in primo piano la raccolta Ariel, poesie forti (e forzate), dalla genesi sofferta e incompresa. Questo, che in fondo non è che un romanzetto, non reca giustizia ad un poeta di grande talento e cultura come Sylvia, unico (inoltre) poeta e scrittore in lingua inglese che amo.
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- sì
- no