L'eredità
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Prima di "Piccole donne"
Louisa May Alcott scrive "L’eredità", il suo primo romanzo, a soli diciassette anni. Ha ancora molta strada da fare per diventare la scrittrice che con le sue "piccole donne" avrebbe appassionato intere generazioni di bambine e ragazze. La storia di Edith Adelon, giovane orfana italiana dalle origini misteriose accolta nella dimora di una famiglia nobile inglese, gli Hamilton, dove diventa istitutrice e amica della piccola Amy finché un incontro fortuito svela il mistero della sua nascita, mostra tutta l’ingenuità della giovanissima autrice nello stile, nello sviluppo della trama, nella costruzione dei personaggi. Basta pensare alla serie di coincidenze fortuite e poco probabili che portano prima all’ingresso della protagonista nella famiglia Hamilton e poi alla scoperta delle sue origini e che strappano inevitabilmente un sorriso. I personaggi sono per lo più o bianchi o neri, o buoni come angeli o capaci di crudeltà machiavelliche con una brusca redenzione finale e ben poche sfumature: ad esempio Lady Ida, che complotta ai danni di Edith per l’intero romanzo, sembra a volte vergognarsi del proprio comportamento, mentre nella pretesa di Amy che Edith esegua ogni sua richiesta, nonostante la sua dolcezza infantile e le sue buone intenzioni, si percepisce l’atteggiamento inconsapevolmente tirannico delle persone buone, ma viziate. A spiccare su tutti per la totale assenza di sfumature è la protagonista, completamente priva di difetti e dotata di ogni pregio possibile e immaginabile: bellezza fuori dal comune, bontà, onestà e generosità illimitata perfino verso i propri nemici, totale disinteresse per la ricchezza e il rango sociale. Una perfezione così asettica da far rimpiangere la testarda e iraconda Jo, la vanitosa Meg, la capricciosa e ambiziosa Amy, così imperfette eppure così vere.
Tuttavia l’edizione Jo March, molto carina e ben fatta, presenta una prefazione ricca di interessanti spunti di riflessione. Bronson Alcott, padre dell’autrice, pensatore, insegnante e pedagogo, è un seguace del Trascendentalismo, corrente filosofica che si sviluppa negli stati americani del nord nei primi decenni dell’Ottocento e che predica il raggiungimento di ciò che è puro, autentico, spirituale, il culto assoluto dell’arte e della bellezza, l’armonia con la natura. Mentre Bronson Alcott tenta con scarso successo di applicare questi principi in ambito educativo, probabilmente la giovane Louisa, amante della scrittura, li concretizza in questo libretto di appena cento pagine. Le eccezionali doti caratteriali della protagonista, dunque, possono forse essere interpretate non soltanto come proiezione dell’ingenua visione del mondo della Alcott, che immagina le cose come dovrebbero essere e non come sono nella realtà, ma anche come frutto delle riflessioni che respira intorno a sé. Non a caso i termini "bellezza", "purezza" e "verità", che incarnano il cuore del pensiero trascendentalista, ricorrono con frequenza nel testo in riferimento a Edith e spesso nei momenti cruciali.
Un’eroina inimitabile. Un cavaliere senza macchia. Amici e aiutanti da un lato, crudeli oppositori dall’altro. Una dimora aristocratica che sembra un castello incantato. Uno stile talvolta eccessivamente enfatico, ma levigato, elegante e puro come la stessa Edith. Un lieto fine che sana ogni dissidio, riconcilia tutti e concede ai "buoni" il meritato premio. Il risultato è un racconto che ha il sapore di una fiaba, un mondo che è quello dell’infanzia e dell’innocenza, lo stesso in cui ancora vive la sua creatrice e che è destinato a dissolversi come un sogno delicato quando Louisa crescerà e costruirà per le sue piccole donne un mondo ben diverso, ricco di amore e di gioia, ma anche segnato dal lutto, dalle delusioni, dall’amarezza di diventare adulti e affrontare la vita. Un mondo meno idilliaco e perfetto, dove un lieto fine assoluto non esiste e il dolore vive accanto alla gioia, e proprio per questo molto più reale e autentico. Prima, però, c’era una favola ed è così che "L’eredità" deve essere considerato.