Narrativa straniera Classici Invito a una decapitazione
 

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Invito a una decapitazione

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Il protagonista di questo romanzo, Cincinnatus C., ha un difetto: è «opaco», nel senso che i suoi pensieri e le sue sensazioni non sono trasparenti agli occhi di coloro che lo circondano – perciò produce «una strana impressione, come di un solitario, oscuro ostacolo in quel mondo di anime reciprocamente trasparenti». In quel mondo, che lungi dall’essere un paradiso – come gli ignari sarebbero inclini a pensare – è piuttosto il suo beffardo capovolgimento, l’opacità non è solo un difetto, ma una grave colpa, forse la più grave: è il segno che rivela la «turpitudine gnostica» del singolo. In quel mondo si viene condannati a morte non per ciò che si fa ma per ciò che si è. Quindi Cincinnatus dovrà essere decapitato – e non sa quando. Cincinnatus non ha fatto nulla di turpe, ma certamente è uno gnostico, se non altro perché vede il mondo attorno a sé come l’abborracciata messa in scena di un funesto demiurgo. E la sua percezione è esatta: la cella, con il ragno obeso che condivide la vita del condannato, e tutto ciò che gli appare – il carceriere, il compagno di prigionia, la moglie in visita con codazzo di parenti e l’amante del momento, la madre, la figlia dodicenne del direttore del penitenziario («volatile fanciulla» in cui si riconoscerà un prodromo, carcerario e lancinante, di Lolita): tutto è parodia. Salvo che, in quel mondo, le parodie uccidono. E uccidono mantenendo un’aria «di calda camaraderie» (è la perfezione della tortura). Questo romanzo, che Nabokov scrisse nel 1934 a Berlino distogliendosi dalla stesura del Dono, come se costretto da una mostruosa pressione sulla nuca, è il primo e più chiaroveggente ad avere per oggetto la società totalitaria. Il che, oltre alla sua strepitosa inventiva letteraria, dovrebbe bastare a farne un romanzo per tutti. Invito a una decapitazione è apparso in russo nel 1935 e in inglese nel 1959.



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Invito a una decapitazione 2020-11-23 07:21:13 siti
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siti Opinione inserita da siti    23 Novembre, 2020
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NON LUOGO A PROCEDERE


Già il titolo è stridente e al tempo stesso catalizzatore, contiene in sé l’assurdo di una situazione inaudita come quella tipica di un perfetto ossimoro. Tutto il romanzo in realtà lo è. Accostato a più riprese alla produzione di Kafka, in particolare ai romanzi “ Il castello”e “Il processo”, è lo stesso Nabokov invece a chiarire che la produzione del praghese gli era del tutto sconosciuta quando nel 1935, a Berlino, dove si era rifugiato per fuggire dal regime bolscevico, scrisse questo romanzo. Pertanto va goduto nella sua assoluta indipendenza letteraria. E se un rimando lo si volesse fare sarebbe certo a il romanzo” Il dono”, lasciato a metà nella scrittura per l’urgente bisogno di partorire questo. Non avendolo letto non posso azzardare di più, al limite consigliare ai futuri lettori di procedere in senso inverso, rispetto al mio, nella lettura dei due. Altra possibilità interpretativa, rifiutata dall’autore, è quella di leggere l’opera come una grande metafora dei regimi bolscevico e nazista, assolutamente fuor di comparazione alcuna.

Per stare al suo contenuto, esso ci presenta la vita sconvolta di Cincinnatus, che senza apparente motivo è condannato a morte e portato in una fortezza per quella che parrebbe essere un’esecuzione imminente. In realtà l‘ex docente, condannato a morte immediata, giunto a destinazione, inizierà una nuova vita, insperata, ma purtroppo all’insegna della più assoluta procrastinazione né cercata e tanto meno voluta e subita come una pena ancor maggiore della sua effettiva colpa. Una nuova condanna insomma che lo misura fin da subito con situazioni atipiche e del tutto surreali la cui galleria è una piacevole sorpresa per il lettore. Ci si ritrova in una continua ottica rovesciata che modifica ogni parametro valutativo nel lettore appunto ma anche nel personaggio, vittima di un’assurda condanna, la cui colpa è essere opaco. “Accusato del più spaventoso dei crimini, la turpitudine gnostica così rara e indicibile da rendere necessario il ricorso a circonlocuzioni quali “impenetrabilità”, “opacità”, condannato per quel crimine alla decapitazione …”. In realtà, a ben vedere, la stessa sostanza fisica, materiale, reale del condannato è messa in discussione fin da subito, giunto nella fortezza. La prima notte va a letto dopo essersi scomposto nelle singole parti che costituiscono il corpo ma l’abilità di Nabokov pare quasi far passare in secondo piano questo carattere magico, irreale, trascendente, perché focalizza l’attenzione sul processo mentale dello stesso Cincinnatus e sul valore tangibile e concreto che ha la sua percezione della realtà. Chiaro è fin da subito al protagonista che la galleria di persone che gli si avvicenderà con l’intento di prendesi cura di lui : il direttore del carcere, Rodrig Ivanovic, che assume il ruolo di un direttore d’albergo, Rodion, il carceriere zelante, l’avvocato, un’inutile macchietta, sono solo degli “spettri”, dei “lupi mannari”, delle “parodie” a cui lui ubbidirà. Ciò che gli preme in fin dei conti, ribadito in modo parossistico fino alla fine, è conoscere i termini temporali della condanna. In tali continui ribaltamenti del piano della realtà con quello della finzione, elevata a farsa e a parodia, assurgono a diritto di reale solo i vividi pensieri del carcerato. Eppure essi sono strettamente collegati alle singole manifestazioni del reale: le pareti della cella, il suo pavimento, la branda, la sedia, il tavolo, i libri sopra e fuori la città che prepotentemente si affaccia nel ricordo insieme ai miseri scampoli della sua esistenza. “ Erano queste le cose che Cincinnatus vedeva e sentiva attraverso i muri, mentre l’orologio batteva le ore, anche se, in effetti, tutto in quella città era sempre morto e orribile a confronto della vita segreta di Cincinnatus e della sua colpevole fiamma, anche se egli sapeva perfettamente ciò, e sapeva anche che non c’è speranza, pure, in quel momento, desiderava ancora, con tutte le sue forze, di trovarsi in quelle luminose strade così familiari … ma poi cessarono i rintocchi dell’orologio, il cielo immaginario si rannuvolò e la prigione tornò in vigore.” La prigione, appunto, in sé, quasi un’entità dotata di vita autonoma, luogo di reclusione ma anche spazio fisico incredibilmente aperto capace di permettere incursioni verso gli altri suoi spazi e anche al suo esterno, ma attenzione in tale assurdità non si prefigura mai la possibilità di un’evasione, per quella occorrerà attendere un luogo altro, un evento altro, un’altra possibilità … Buona lettura!

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Invito a una decapitazione 2018-04-16 18:00:19 viducoli
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viducoli Opinione inserita da viducoli    16 Aprile, 2018
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Distopie a confronto: Nabokov versus Kafka

Il lettore di Invito a una decapitazione, romanzo scritto da Vladimir Nabokov nel 1934, è in genere portato a scorgervi chiari rimandi ai due principali romanzi di Franz Kafka, Il processo e Il castello, entrambi editi una decina di anni prima. Troppo evidenti appaiono alcune analogie tra il romanzo di Nabokov e le opere kafkiane: dall’ambientazione – una impenetrabile fortezza alta su una collina, isolata dalla città, simbolo di un potere oscuro e crudele – alla imperscrutabilità delle accuse mosse al protagonista, alla sua condanna a morte, alla scelta di dare allo stesso un nome seguito dalla sola iniziale del cognome.
Tuttavia, nella prefazione alla edizione statunitense del libro, tradotto dal figlio Dimitri sotto la supervisione dell’autore e pubblicato nel 1959, Nabokov nega qualsiasi ascendenza direttamente kafkiana del suo romanzo, ricordando che all’epoca della sua scrittura: ”… non conoscevo il tedesco, ignoravo del tutto la letteratura tedesca moderna, e non avevo ancora letto traduzioni, francesi o inglesi, delle opere di Kafka.” Poco più avanti, negando di credere all’esistenza di affinità spirituali tra autori, ammette però che se dovesse indicare uno spirito affine a questa sua opera la sua scelta cadrebbe su Kafka, piuttosto che su G.H. Orwell (altro autore cui Invito a una decapitazione è stato spesso associato) ”… o su altri popolari dispensatori di idee illustrate e di narrativa dal taglio pubblicistico.”
Oltre all’implicito giudizio negativo che Nabokov esprime su Orwell, queste frasi – se accettiamo quanto in esse affermato – ci restituiscono l’affascinante idea che due grandi scrittori, diversissimi l’uno dall’altro per radici culturali e modalità di produzione letteraria, abbiano in qualche modo immaginato la medesima metafora di fondo per descrivere la società in cui vivevano e l’oppressione che essa esercitava sul sentire e sulle aspirazioni degli individui, per trasmetterci il senso di angoscia, solitudine, impotenza e incomunicabilità in cui il singolo si trovava immerso in Europa nei primi decenni del XX secolo.
Se molte sono le analogie, altrettante però sono le diversità che possono essere rinvenute. Nabokov scrive il suo romanzo come detto nel 1934, per di più a Berlino. Da più di dieci anni abita nella capitale tedesca, frequentando attivamente – non senza contrasti – i circoli dell’emigrazione russa, di cui ci offre un vivido ritratto ne Il dono, vero manifesto della sua identità intellettuale, opera che interromperà momentaneamente proprio per scrivere Invito a una decapitazione. Il suo viscerale antibolscevismo, il suo rifiuto di matrice liberale dell’esperimento sovietico ha avuto quindi modo di arricchirsi drammaticamente dell’esperienza diretta dell’ascesa di un nuovo totalitarismo, quello hitleriano, ormai trionfante nella Germania del 1934. A differenza che in Kafka, per il quale il contrasto tra l’individuo e la società moderna è in qualche modo insanabile, essendo connaturato alle assurde ed alienati regole di quest’ultima, per Nabokov bolscevismo e nazismo sono due aberrazioni, cui si può contrapporre, come vedremo, l’arma della libertà interiore ma anche quella di altri modelli sociali, nei quali tale libertà interiore non sia conculcata e repressa. Da questa differenza sostanziale ne consegue un’altra, a mio modo di vedere non meno importante, che si riflette direttamente sullo stile, sul tono generale del romanzo di Nabokov quando lo si confronti con quello dei capolavori kafkiani. In Kafka l’assurdità, l’imperscrutabilità delle regole e dei comportamenti con cui il potere si materializza è resa attraverso la loro normalità, la loro descrizione piatta e in qualche modo asettica, il fatto che essi non vengono mai messi in discussione. È in questo modo che Kafka dota le sue opere di una potenza inaudita: se il potere, le assurde regole che lo connotano e che egli ci descrive non hanno alternative, allora queste rappresentano la normalità, e chi cerca di opporvisi e ne è vittima è anormale, in qualche modo portatore di una inaccettabile e inutile eccentricità. Kafka nelle sue opere ribalta il senso comune per farci meglio percepire la forza coercitiva dei meccanismi del potere e la loro capacità di generare alienazione. All’opposto in Invito a una decapitazione, come detto, l’alternativa esiste, ragion per cui l’autore può limitarsi a proporci uno schema narrativo classico: il protagonista , che al pari di Josef K. o dell’agrimensore K. è la vittima, lo è però di un particolare sistema di potere, che noi possiamo subito riconoscere come cattivo anche in virtù della rappresentazione che ce ne dà lo scrittore. Per poter approfondire questo aspetto, che ritengo dirimente al fine di collocare in una giusta prospettiva il problema del rapporto tra il romanzo di Nabokov e le opere di Kafka, è però necessario a questo punto accennare, sia pur per sommi capi, alla trama di Invito a una decapitazione.
Il romanzo si apre con la condanna a morte del protagonista, Cincinnatus C., un insegnante trentenne, a causa della sua turpitudine gnostica e del suo essere opaco rispetto alla traslucidità delle altre persone, i cui pensieri si fanno attraversare dalla sollecitudine pubblica. Cincinnatus è stato un diverso sin dall’infanzia: figlio illegittimo, non ha conosciuto i suoi genitori, è cresciuto in solitudine, amando la letteratura russa del XIX secolo (Puškin, Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj), e sposando intorno ai vent’anni la volgare Martha, che lo tradisce continuamente, avendogli dato tra l’altro due figli non suoi, ma che lui continuerà ad amare appassionatamente. La sua diversità lo porterà ad essere denunciato e quindi alla condanna.
Cincinnatus viene trasferito in una cella della fortezza cittadina, dove nessuno gli dice quando la sentenza sarà eseguita. Il grottesco direttore del carcere, che apparentemente si prodiga per rendere gradevole il soggiorno del protagonista, gli fa conoscere un altro detenuto, M’sieur Pierre, che cerca di divenire amico di Cincinnatus con giochi e battute e scavando nella sua intimità. Cincinnatus però diffida dei due, palesemente in combutta, e passa il tempo in silenzio, leggendo e scrivendo sui pochi fogli che ha a disposizione, angosciato di non sapere quando la sua vita avrà fine. Dopo pochi giorni riceve la visita della moglie, che però si presenta accompagnata da tutta la famiglia e del nuovo amante: il tanto atteso incontro con Marthe si risolve perciò in un nuovo dolore per Cincinnatus.
Una sera percepisce il rumore di qualcuno che sta scavando un cunicolo dietro le pareti della cella, e ritrova la speranza di poter essere salvato. I rumori si avvicinano sempre di più, ma quando il muro della sua cella cede dal cunicolo escono il direttore e M’sieur Pierre, che hanno inteso unire in questo modo le celle dei due detenuti. Cincinnatus trova comunque un varco nel cunicolo che lo porta fuori dalla fortezza, ma Emmie, la piccola figlia del suo carceriere, lo riaccompagna al suo interno.
Infine il giorno dell’esecuzione viene fissato: M’sieur Pierre si rivela essere il boia, che per una legge umanitaria deve divenire amico del condannato perché questi non venga decapitato da uno sconosciuto. Nel finale aperto la soluzione del dramma di Cincinnatus evoca la possibilità di un crollo del sistema che lo ha condannato e dell’esistenza di un altrove dove … c’erano esseri simili a lui.
Questi elementi della storia ci consegnano un romanzo a mio avviso dotato di un tasso di convenzionalità sconosciuto alle opere di Kafka, e che per molti versi, checché ne pensasse l’autore, lo avvicinano più alle opere di un autore come Orwell che a quelle dello scrittore praghese. Intendiamoci, la mia non vuole essere una stroncatura di un romanzo senza dubbio molto bello e che fa riflettere a fondo anche su aspetti del totalitarismo non scontati (tanto più nel 1934), quali il conformismo degli individui e delle masse, ma intende essere un piccolo, e del tutto personale, contributo all’analisi comparata della distopia in Nabokov e Kafka.
In questo senso credo davvero che dirimente sia la prospettiva politica nella quale si colloca Nabokov, che con Invito a una decapitazione vuole da un lato descriverci l’essenza, ma anche la stupidità, del totalitarismo (sovietico o nazista non credo faccia molta differenza in questa sede, anche se personalmente avrei molto da dire sulle differenze tra i due sistemi), e dall’altro indicarci comunque una possibile via di fuga basata sulla coscienza individuale e soprattutto intellettuale.
Nella caratterizzazione dei tratti essenziali dei membri della società di cui Cincinnatus C. è vittima abbondano, verrebbe da dire inevitabilmente, tratti caricaturali e satirici, che spesso traggono origine dalla grande tradizione russa (Gogol’, per citare l’esempio più eclatante) sapientemente mescolati con la lezione espressionista assimilata da Nabokov per esperienza diretta. Così, nel primo capitolo ci viene detto che il pubblico ministero e l’avvocato difensore del processo al protagonista erano ”… entrambi truccati e molto somiglianti tra di loro (la legge richiedeva che fossero fratelli uterini, ma non sempre era possibile, e allora si ricorreva al trucco) …”: quale modo più conciso ed efficace di descrivere una giustizia a senso unico? Un passo ci informa che, costruita una biblioteca galleggiante sul fiume, ci si accorse che i libri si inumidivano, cosìché le autorità provvidero a … deviare il fiume. Gli effetti satirici raggiungono sicuramente l’acme nelle due figure di Rodrig Ivanovi?, il direttore della prigione, e M’sieur Pierre, molto caratterizzati anche dal punto di vista fisico e il cui compito è quello di trascinare il protagonista verso una resa incondizionata della coscienza, attraverso l’uso sapiente veri e propri atti di tortura psicologica mascherati da atteggiamenti amichevoli ed applicazione di norme volte apparentemente a garantire i diritti del condannato. Si tratta forse dei due personaggi più riusciti del romanzo, nei quali Gogol’ e l’espressionismo, superficie clownesca e crudeltà di fondo sono amalgamate in una miscela irresistibile. Sicuramente più convenzionale è la figura della moglie Martha, che nelle sue brevi apparizioni è connotata come interessata solo ai suoi amori e al fatto che la disgrazia del marito non si riverberi su di lei. Questa sua preoccupazione è comunque condivisa da tutta la famiglia, che si reca in visita a Cincinnatus in una scena dai tratti quasi felliniani, divenendo il paradigma di quel conformismo sociale che è l’humus indispensabile di ogni totalitarismo ma anche, potremmo dire con il senno di oggi e sicuramente discostandoci in questo dal pensiero di Nabokov, della perpetuazione dei meccanismi del potere al di là dell’aspetto formale che questo assume.
Se questi, assieme a molti altri rinvenibili nel romanzo, sono i punti focali della critica sociale di Nabokov, ad essi l’autore contrappone la figura di Cincinnatus, lo gnostico, l’illuminato, colui che sa, e che quindi, pur tra mille paure, angosce e tentennamenti mantiene dritta la barra della sua coscienza e non cede alle lusinghe e alle minacce del potere. Egli deve la sua vita alla sua mente e al suo pensiero, tanto che una sera in cella può pensare di smontare il suo corpo, descritto peraltro come minuscolo e insignificante. Lo sdoppiamento di corpo e pensiero, la superiorità indiscussa di quest’ultimo, la possibilità di rimanere intellettualmente integri nonostante l’aggressione esterna sono il portato concreto, in questo romanzo, della concezione aristocratica dell’intellettuale tipica di Nabokov, che ritroviamo espressa in dettaglio nel lungo scritto/confessione di Cincinnatus che occupa il capitolo 8 del romanzo. Essa è come detto la sola via di fuga dalla società totalitaria che l’autore ci indica, come diverrà ancora più chiaro nel finale, non essendovi per lui alcuna possibilità di una presa di coscienza e di una azione collettiva, anzi aborrendo egli tutto ciò che ha a che fare con la collettività.
La distopia di Nabokov in Invito a una decapitazione è a mio avviso una distopia doppiamente minore rispetto a quelle kafkiane (ammesso che nel caso dei grandi romanzi e racconti di quest’ultimo si possa parlare in senso stretto di distopia). Essa mette infatti a nudo i meccanismi della società totalitaria, lasciando però trasparire che un altro mondo è possibile, cosa invece sconosciuta nell’universo kafkiano: basterà per rendersene conto confrontare il finale di Invito a una decapitazione e quello de Il processo: alla grande scenografia di cartapesta dell’esecuzione di Cincinnatus, con la sua folla e il crollo finale si contrappone la crudele intimità, l’ineluttabilità minimalista della fine di Josef K., che lascia tutto come prima. Come logica conseguenza di ciò, la distopia presentataci in Invito a una decapitazione non assume un carattere universale: se Cincinnatus in una società diversa non sarebbe sicuramente stato processato e condannato, possiamo dire che il destino di Josef K. sarebbe rimasto sempre lo stesso, perché per Kafka il problema di indicarci una società diversa semplicemente non esiste. Kafka non si fa paladino del liberalesimo aristocratico che informa la visione del mondo di Nabokov, e ciò che scrive mantiene intatta la sua validità anche rispetto alla società dell’oggi, falsamente democratica.
In conclusione, a mio avviso, sono anche queste differenze di fondo che ci permettono di apprezzare un ottimo libro come Invito a una decapitazione ma di tenerlo distinto, quanto a valore assoluto, dai capolavori di Kafka.

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