Il tesoro della Espiritu Santo
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Piccolo gioiello per entrare nei mondi dell’autore
Nel 1883 Robert Louis Stevenson, allora trentatreenne, dà alle stampe il suo primo romanzo, L’isola del tesoro, destinato ad essere, soprattutto nelle sue riduzioni per ragazzi, uno dei libri capaci di far innamorare della grande letteratura intere generazioni di giovani lettori. Sino ad allora aveva pubblicato solamente alcuni racconti, e tra questi vi era 'The merry men', edito nel 1882.
Questo volumetto dell’editore Stampa alternativa, fortunatamente ancora disponibile, ha il grandissimo merito di proporci questo autentico piccolo gioiello della produzione stevensoniana, la cui lettura, a mio modo di vedere, è fondamentale per entrare negli scenari e nei mondi interiori di cui l’autore ci parlerà nei suoi successivi capolavori.
Vi è subito da dire che questa edizione del racconto, ancorché come detto meritevole, perpetra nei confronti dell’originale una sorta di alto tradimento, traducendo il titolo originale in Il tesoro della “Espiritu santo”. Le motivazioni di tale scelta possono essere facilmente comprese: legare in qualche modo il racconto al capolavoro più conosciuto di Stevenson al fine di renderlo più appetibile per il lettore. E’ tuttavia una scelta non giustificata, sia perché il titolo originale era facilmente traducibile (precedenti edizioni italiane lo hanno reso con 'Gli allegri compari'), sia perché di fatto sposta il fulcro del racconto su un soggetto che, sia pure non secondario, non era certo, come vedremo, elemento narrativo cui l’autore avesse conferito centralità assoluta nell’economia del racconto. Tra l’altro il titolo originale, rimandando direttamente al mito di Robin Hood, aggancia immediatamente il racconto alla tradizione narrativa britannica, e questo elemento viene perso completamente nel titolo arbitrariamente attribuito. Ancora, si perde il tragico contrasto insito nell’attribuire un titolo giocoso ad un racconto che, come vedremo, si caratterizza per la cupezza dei toni e per la drammaticità.
Il racconto è ambientato nel XVIII secolo, in una piccola isola delle Ebridi, nel Nord-ovest della Scozia. Il protagonista che narra in prima persona, studente universitario di Edimburgo, vi si reca come ogni anno per passarvi l’estate dallo zio, che vive stentatamente con la figlia (la moglie è morta di parto), un servitore e poche pecore. Lo zio Gordon è un fanatico presbiteriano, chiuso e rozzo, dedito al bere, che si esprime in uno stretto dialetto scozzese, ma lo studente è innamorato della bella e sensibile cugina e vorrebbe sposarla per portarla via di lì.
Egli è inoltre convinto, da ricerche svolte, che una delle navi della 'Armada invencible' di Filippo II, la Espiritu santo, si sia inabissata con il suo favoloso carico d’oro proprio in una delle baie dell’isolotto, ed è deciso a trovarla per arricchirsi e poter sposare Mary Ellen.
Giunto alla solitaria fattoria apprende dallo zio che pochi mesi prima una goletta ha fatto naufragio nei pericolosissimi scogli semisommersi che circondano l’isola, chiamati popolarmente The merry men, ed è andata ad arenarsi, ormai spezzata in due e senza alcun superstite, nella baia ove lui ritiene di poter trovare ciò che resta della Espiritu santo. In casa vi sono infatti delle suppellettili nuove e di un certo lusso, che lo zio ha recuperato dal relitto. Lo zio Gordon quella sera parla a lungo del mare come dell’inferno, un luogo pieno di morti e di mostri.
Quando il giovane si reca nella baia trova il relitto ma anche una tomba fresca, che lo colpisce molto, anche perché lo zio non vi aveva accennato. Si immerge nudo nelle acque della baia per cercare la Espiritu santo, ma recupera solo una fibbia ed un osso umano, convincendosi presto che la nave non c’è. Mentre rientra, vede dall’alto alcuni uomini sbarcare nella baia e consultare delle mappe. Si convince che siano gli avventurieri spagnoli, anch’essi alla ricerca della Espiritu santo, di cui aveva sentito parlare ad Edimburgo. Quando questi ritornano sulla goletta attraccata al largo della baia, sta per scatenarsi una delle terribili tempeste estive che caratterizzano quei mari. Dalle alture dell’isola, quella sera, assieme allo zio assiste all’inevitabile naufragio, con la goletta che si inabissa dopo avere urtato i terribili Merry men. Lo zio, che attribuisce ciò che sta accadendo alla volontà divina, passa la notte all’aperto, sotto la tempesta, bevendo e scrutando il mare, deluso perché il naufragio al largo non gli darà modo di recuperare alcunché dal relitto. Mary Ellen, intanto, rifiuta l’offerta di matrimonio fattale dal giovane dicendo che è suo dovere rimanere accanto al padre.
Il mattino seguente zio, nipote e servitore si recano alla baia: il giovane è convinto che la tomba da lui trovata sia il frutto di un assassinio perpetrato dallo zio. Dal relitto sulla riva emerge misteriosamente un nero che si esprime in un idioma incomprensibile, forse uno schiavo lasciato a riva dall’equipaggio della goletta naufragata la sera prima. Questa apparizione porta alla follia lo zio, e il racconto giunge alla sua tragica e repentina conclusione.
Come detto, in questo bellissimo, breve testo di poche decine di pagine si ritrovano molti degli elementi che Stevenson svilupperà nelle opere maggiori, che scriverà nel decennio successivo.
Innanzitutto vi è l’ambientazione storica, che caratterizza molte delle sue opere: Stevenson è un profondo cultore della storia britannica, ed anche in questo caso, senza peraltro che ciò sia dichiarato esplicitamente, l’atmosfera culturale del racconto è immersa nel clima di divisione politica ed intolleranza religiosa che caratterizzava la Scozia all’indomani della battaglia di Culloden. Gli sconnessi discorsi in dialetto di zio Gordon, tradotti in un linguaggio un po’ artificioso (di cui peraltro si deve notare la difficoltà intrinseca di traduzione) ci dipingono con grande efficacia lo spirito di un’epoca, di una terra e di una cultura ancestrale, nel quale il male è espressione della volontà divina, dove non c’è spazio per redenzione alcuna. A questa cultura si contrappone quella razionale e urbana dello studente: vedremo come questa contrapposizione si risolverà.
Vi è poi, dominante, il tema della natura primigenia, del mare, e del rapporto dell’uomo con questi elementi. Le descrizioni dell’isola, delle maree e delle correnti che la circondano, degli insidiosi Merry men che sembrano rimandare sull’isola un allegro canto da osteria quando i flutti si frangono su di loro e la schiuma bianca delle onde si innalza gioiosamente ad altezze incredibili, essendo in realtà strumenti inconsapevoli di terrore e morte per i marinai, sono pagine memorabili di grandissima letteratura.
A mio avviso appare anche in questo racconto, sia pure in forma forse criptica, anche un altro dei temi cardine della letteratura di Stevenson: il tema del doppio.
I due protagonisti, lo studente e lo zio, sono l’uno la negazione dell’altro: uno giovane l’altro vecchio; uno colto l’altro ignorante; uno cittadino l’altro solitario. Durante il racconto, tuttavia, il loro profilo cambia profondamente. Lo zio è stato marinaio, conosce sino in fondo il rispetto che si deve al mare, il timore che deve ispirare e l’orrore che genera. Tradisce però questo sentimento puro nei confronti del grande inferno e profana la memoria dei morti del relitto per appropriarsi di pochi mobili e di argenteria: per prenderli è giunto forse sino ad uccidere. E’ questo atteggiamento mercantile che lo condurrà al suo tragico destino. Al contrario il giovane protagonista giunge sull’isola proprio con l’intento di strappare al mare i suoi tesori (sia pure per un nobile scopo). Quando però, immergendosi nudo – particolare secondo me molto significativo, indicativo di una sorta di nuovo battesimo purificatore – afferra, tra le alghe viscide, un osso umano, si rende conto non semplicemente dell’inutilità della sua ricerca, ma di come essa fosse in qualche modo blasfema, di come calpestasse – per un desiderio di ricchezza – la sacralità di quello che viene più volte definito come un grandissimo cimitero.
E’ quindi come se i due protagonisti compissero un viaggio in direzioni opposte: l’uno – lo zio – verso il tradimento delle proprie convinzioni profonde, l’altro – il giovane – verso la comprensione delle ragioni della natura e della necessità del limite nel comportamento umano di fronte al rispetto che dobbiamo alla natura e ai drammi che provoca e nasconde. Il doppio, che in questo racconto viene declinato come contrasto tra un atteggiamento strumentale e predatorio nei confronti della natura e degli uomini – tipico della società industriale e positivista – e una visione più sacrale dei rapporti sociali e con la natura, si interseca quindi durante il racconto, e le figure che lo incarnano quasi cercano di scambiarsi i ruoli; ma Stevenson ci dice, con lo zio inseguito dai suoi neri demoni, che rinnegare – al fine di accumulare ricchezza – i principi morali che ci devono guidare porta alla distruzione.
La natura di Stevenson anche in questo racconto assume tratti che si potrebbero chiamare leopardiani: è una natura indifferente e matrigna, tremendamente bella, e l’uomo può solo tentare di esorcizzare il fascino orrifico che suscita attribuendole nomi gioiosi: ecco perché gli scogli più insidiosi, quelli sui quali si frangono le navi sono gli Allegri compari (o le Teste matte in questa edizione), ed ecco perché è grave, a mio avviso, che il titolo del libro sia stato cambiato.
Vent’anni dopo questo racconto, quando Stevenson era ormai morto da più di un decennio, un altro grandissimo narratore (quasi) britannico si confronterà con i temi del mare, della natura selvaggia e del rapporto profondo e contraddittorio tra questa a l’uomo: Joseph Conrad. Quanto deve un capolavoro come Cuore di tenebra ad uno scrittore come Stevenson? Forse la risposta sta anche in una piccola frase che lo zio Gordon pronuncia durante uno dei suoi apparentemente sconnessi discorsi: "Oh signorimei – gridò – l’orrore, l’orrore del mare!"
Indicazioni utili
Joseph Conrad