Narrativa straniera Classici Il giro di vite
 

Il giro di vite Il giro di vite

Il giro di vite

Letteratura straniera

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Una giovane istitutrice viene scelta da un gentiluomo per occuparsi dei suoi nipoti, Miles e Flora. Il compito le viene presentato come particolarmente impegnativo, sicché la donna immagina di ritrovarsi di fronte due bambini particolarmente irrequieti e riottosi. Noterà invece che Miles e Flora, oltre ad essere di una bellezza angelica, hanno maniere squisite e notevole senso della disciplina. Questo quadro mal si concilia con quanto riportato su una lettera della scuola di Miles, che dichiara di non volere più il bambino nel proprio istituto, senza spiegarne le motivazioni. In più, la donna scopre che l'istitutrice precedente era morta in circostanze misteriose, e così il suo amante, un certo signor Quint...



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Il giro di vite 2022-01-26 08:54:57 Antonella76
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    26 Gennaio, 2022
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Ossessioni e ambiguità



Grande, grandissima ambiguità.
Fantasmi o ossessioni?
Presenze paranormali autonome o entità che hanno bisogno di essere evocate? di avere un "tramite" terreno?
Bambini posseduti (consapevoli e coinvolti) o visioni della mente disturbata di un'istitutrice?
Chi sono i buoni, e chi i cattivi???
Eh, James mica te lo fa capire...

Il mistero permane fino alla fine, ed anche oltre.
È un libro che sembra scritto per "giocare" con il lettore, per instillare in lui il dubbio su ogni cosa che vi è raccontata.
Ci sono disseminate tante piccolissime anticipazioni, una sorta di "ora ti dico questo, ma poi vedrai, poi capirai...", e invece poi non capisci.
Come se l'atmosfera (sfumata) che si respira fosse più importante del fatto in sé.
Non ci saranno risposte ai mille interrogativi...
L'unica cosa certa è che Henry James ha scritto un racconto magistrale (raffinato ed elegante), gotico, ma soprattutto psicologico, dove i fantasmi, reali o immaginari che siano, ci raccontano di luoghi bui della mente, di spettri interiori, di ossessioni, seduzioni, e di innocenze perdute.



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Il giro di vite 2019-12-27 16:27:52 archeomari
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archeomari Opinione inserita da archeomari    27 Dicembre, 2019
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The turn of the screw

È il primo libro che leggo di Henri James e sicuramente ne leggerò altri appena ne avrò l’occasione. È un libro che divide il pubblico di lettori e quindi l’ho letto con grande curiosità, ma senza avere grandi aspettative.
Titolo originale “The turn of the screw” che mi ha aiutato a non confondermi con la parola “vita” al plurale, poiché non so per quale motivo, ero convinta che la narrazione avesse una “giostra” di vittime, come dire, un thriller. Lo dico perché ero proprio all’oscuro di cosa avrei letto.
Preso in prestito il libro in biblioteca, nell’edizione è Einaudi del 1985, nella traduzione di Fausta Cialente, scrittrice anch’essa, vincitrice del Premio Strega nel 1976.

L’opera di James venne pubblicata nel 1898 e si inserisce a pieno titolo nella letteratura di stile gotico, per l’ambientazione e per la presenza dei fantasmi.
La storia ruota attorno ad una istitutrice che si prende cura di due bambini, Flora e Miles, l’una sugli otto anni, l’altro più grande di qualche anno, che vivono con la vecchia governante, la signora Grose, in una magione sperduta dell’Essex, chiamata Bly.
Orfani dei genitori, i bambini sono protetti da un giovane zio molto impegnato in città per occuparsi di loro, ma che provvede alle loro necessità “a distanza”. In seguito alla morte prematura della precedente istitutrice, viene assunta l’ultima figlia di un povero parroco di campagna, che è la voce narrante della storia principale.
C’è da puntualizzare infatti che la storia ha una cornice, un preambolo, in cui la voce narrante è un’altra persona, un personaggio senza nome che partecipa con degli amici alla notte della vigilia di Natale allo scambio di storie sui fantasmi davanti al focolare. Uno di essi, un certo Douglas, riferisce di avere a casa sua, a Londra, un manoscritto con una storia di fantasmi agghiacciante raccontata dall’istitutrice di sua sorella, una donna affascinante più grande di lui, morta vent’anni prima.
L’arte di raccontare di James viene fuori già da questo espediente del manoscritto: l’uditorio di Douglas dovrà pazientare il tempo che uno dei suoi camerieri si rechi a Londra per recuperare quella lettera-confessione.

La pazienza è la dote che si richiede al lettore per poter apprezzare il libro di James, insieme alla capacità di immaginare, alla capacità di “ascoltare” attivamente senza distrarsi, nonostante le continue prove di attesa, di sottintesi, di detto e non detto che risultano talvolta sfiancanti.

Si tratta di scelte stilistiche che forse oggi danno fastidio. Lo stesso consunto espediente del manoscritto per l’autore è indispensabile, è quasi come un oggetto magico che dà valore e legittimità alla testimonianza e, con le sue imperfezioni, ci convince di più, perché ha un’aura di autenticità.

In realtà, dai taccuini di James, che sono una fonte inesauribile di spunti/appunti, una semenzaio delle opere, sappiamo che questa storia è ispirata ad un fatto narratogli dall’arcivescovo di Canterbury suo amico, in cui due bambini erano oppressi dai fantasmi dei loro inservienti morti in circostanze non precisate.
Da questo spunto James tesse una storia che, anche oggi, come ha riferito la Wolf, continua ancora a farci avere paura del buio. Certamente non siamo di fronte ai best seller del brivido moderni, con tanto di trucchi cinematografici (James non ebbe fortuna e non fu mai un autore da best seller ai suoi tempi), ma quelle pagine ti tengono incollata e sospesa e, alcune scene, come quella del fantasma che appare dalla torre, mettono addosso una spiacevole inquietudine.

Flora e Miles i due bambini che appaiono agli occhi dell’istitutrice narrante come pura bellezza e bontà, sono in realtà corrotti dalla depravazione dei fantasmi di Quint, defunto inserviente di Bly, e della signorina Jessel, l’istitutrice precedente.
La protagonista, voce narrante della storia, nonostante il grande coraggio, forza d’animo ed intelligenza, rimarrà comunque una semplice testimone delle apparizioni e non riuscirà a mettersi in contatto con il padrone di Harley Street, zio dei bambini. La mancanza di comunicabilità con lui non fa altro che caricare di più il parossismo della vicenda e dello stato d’animo dell’istitutrice, proprio come negli incubi della peggior specie. Quest’ultima, unica persona insieme ai bambini, capace di vedere i fantasmi, è delineata già dalle prime battute: “Ricordo tutto l’inizio come un succedersi di voli e di cadute, una piccola altalena di turbamenti giusti o sbagliati. Dopo lo slancio che, in città, mi aveva spinta ad accettare l’invito, passai un paio di giorni veramente pessimi da ogni punto di vista”.
Una donna che non conosce mezze misure, dagli stati d’animo altalenanti: ora vede nei bambini degli angioletti, ora vede in loro il germe della cattiveria e dell’ambiguità, ora prova ammirazione e stupore nei loro confronti, ora terrore. Il personaggio giusto per far sì che il lettore pensi a lei come ad una persona dai nervi fragili.

Sull’interpretazione di questa storia e sullo stile di James ci sono pagine e pagine di meravigliosa e illuminante critica.
Io non posso dire altro, la storia è breve e densa. A me è piaciuta molto: ho adorato i paesaggi, l’architettura della storia, la maestria con cui James ha descritto le apparizioni e, soprattutto, ho amato ed apprezzato i silenzi. Unica pecca: troppi sottintesi, troppa attesa, troppe cose dette per metà . Ma forse è un problema del lettore contemporaneo, abituato alle immagini già pronte, avvezzo a trovare una veloce gratificazione nell’attesa della lettura e disabituato ad una “costruzione immaginifica paziente”.









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Consigliato anche a chi non ha letto “La bestia nella giungla” , “L’altare dei morti “ e altri racconti di fantasmi di James.
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Il giro di vite 2019-03-13 07:26:45 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    13 Marzo, 2019
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TRE LETTURE DI UN PICCOLO CAPOLAVORO

Attenzione: Questa non è una vera e propria recensione, bensì una sorta di saggio con cui ho provato a spiegare i tanti misteri della storia, analizzando la trama, un po' come un detective, fin nei minimi dettagli. Ne consiglio pertanto la lettura solo a chi già conosce il racconto.

“Ci sono degli abissi, degli abissi!.. Non so più che cosa non vedo, che cosa non mi fa paura!”

“Nessuno finora, all’infuori di me, ne ha mai udito nulla. E’ semplicemente troppo orribile. E’ al di là di ogni immaginazione”. Con queste parole, rivolte a un piccolo gruppo di ascoltatori riuniti attorno al focolare di una vecchia casa, ovviamente di notte come nella miglior tradizione delle ghost stories, il personaggio cui James dà il nome di Douglas si accinge a raccontare la vicenda racchiusa nel manoscritto di una donna morta vent’anni addietro. La cosa che salta subito agli occhi è il gran numero di piani di narrazione stratificati nel racconto: c’è Henry James, lo scrittore, c’è l’anonimo personaggio che dice “io” e che fa parte del ristretto uditorio della storia, c’è Douglas, il narratore, e c’è la donna autrice del manoscritto, che ha vissuto in prima persona gli avvenimenti descritti. E’ difficile rimuovere l’impressione che questi differenti livelli di enunciazione siano altrettante cortine fumogene che James innalza per rendere più fitto il mistero di questo agghiacciante racconto e impenetrabile il suo autentico messaggio. Non è questo l’unico motivo che mi fa propendere per la tesi di una ambiguità consapevole e metodicamente voluta: nel “Giro di vite”, infatti, gli avvenimenti rimangono quasi sempre sospesi, non definiti, incapaci di connotarsi con gli attributi della quotidianità e di svelare fino in fondo il proprio significato. L’astrazione prevale sulla concretezza, l’illusione sulla realtà, e le stesse parole di James, nella loro ridondanza stilistica, sembrano portare non già ad una rivelazione bensì ad un ispessimento del mistero. La presenza costante di questi filtri mistificatori, se da una parte contribuisce indubbiamente ad aumentare in maniera irresistibile il fascino del racconto, dall’altra ne ingigantisce le difficoltà di lettura, rendendolo, pur nella sua brevità, un’opera ostica e impegnativa da affrontare. “Il giro di vite” è, in altre parole, uno di quei libri che richiedono, quasi obbligatoriamente, più di una lettura per poter andare al di là di una prima impressione riduttiva e insoddisfacente.

LA PRIMA LETTURA, OVVERO LA LETTURA INGENUA

L’autrice del manoscritto era stata in vita una stimata istitutrice, “piena di fascino, ricca di acume e di simpatia”, come la ricorda Douglas, che ha avuto modo di conoscerla molti anni avanti. Nel corso del prologo, Douglas racconta come, all’inizio della sua carriera di insegnante, la giovane istitutrice avesse risposto all’annuncio di un affascinante gentiluomo, il quale le aveva offerto di curare, in una piccola dimora di campagna, l’educazione dei suoi piccoli nipoti, Miles e Flora, rimasti orfani di entrambi i genitori. Nonostante la stranezza della proposta (lo zio aveva posto come condizione imprescindibile che l’istitutrice non lo avrebbe mai, per nessun motivo, dovuto disturbare), la ragazza aveva accettato, probabilmente ammaliata da quell’attraente e gentile scapolo, che le aveva presentato tutto come una specie di favore, una grazia per la quale le sarebbe stato per sempre obbligato.
E’ a questo punto, con il viaggio verso la tenuta di Bly, che si apre lo sbiadito manoscritto e la parola passa definitivamente alla governante. Ella si presenta subito in preda ad uno stato d’animo di angosciosa inquietudine, come se si rendesse conto di avere commesso un errore fatale o temesse di andare incontro a qualcosa di insicuro. L’impatto con Bly è comunque tale da dissipare ogni incertezza: lo splendido scenario della villa e del giardino, l’amabilità e la schiettezza della responsabile della casa, la signora Grose, e soprattutto l’incantevole fascino della piccola Flora trasformano in men che non si dica l’abbattimento iniziale dell’istitutrice in euforica esaltazione. La seconda sera avviene però, del tutto inatteso, il primo di una lunga serie di avvenimenti che, in capo a poche settimane, trasformeranno il soggiorno a Bly dell’istitutrice in un incubo terrificante: l’arrivo di una lettera con la quale il direttore del collegio in cui da tre mesi è ospitato Miles comunica, senza fornire alcuna spiegazione, la volontà di rimandare il bambino a casa. E’ questo un fatto che si rivelerà fondamentale nell’economia del racconto, al di là del comprensibile sconcerto che la notizia getta istantaneamente nella casa: Miles infatti si rivela un bambino tenero, delicato, affettuoso, permeato della stessa luminosa purezza che contraddistingue la sorellina. Come può una così angelica creatura essere stata espulsa ignominiosamente da scuola? Cosa può aver mai fatto di male un essere che è l’emblema stesso dell’innocenza? La prima reazione dell’istitutrice è quella di ribellarsi, indignata, alla crudele e misteriosa accusa, trovandola assurda e persino grottesca. Ma un tarlo si è intanto subdolamente insinuato nella sua mente, un dubbio che con il passare dei giorni aumenta sempre più fino a diventare un’ossessione: ella sente che qualcosa le è stato nascosto, che un enigma si cela nell’apparentemente idilliaco universo di Bly, e con l’ostinazione e l’aggressività proprie di un investigatore si mette alla ricerca di un qualsiasi indizio che possa confermarla nella propria impressione. La traccia viene scoperta nei silenzi e nei sottintesi della signora Grose, l’unica possibile interlocutrice della governante a Bly.
“Per tutto il resto di quel giorno, andai nondimeno in cerca di altre occasioni per avvicinare la mia collega, specialmente quando, verso sera, cominciai a sospettare che volesse evitarmi. La raggiunsi, ricordo, sulla scala, scendemmo insieme i gradini e giunte in fondo la trattenni, prendendola per un braccio: «Da quello che mi avete detto questa mattina, devo concludere che voi non l’avete mai visto comportarsi male».
Gettò indietro la testa; era chiaro che nel frattempo e con molta lealtà, aveva deciso l’atteggiamento da prendere. «Oh, mai visto!.. Non voglio dir questo!».
Ero turbata, di nuovo: «Allora lo avete visto…».
«Ma sì, signorina, grazie al cielo!».
Dovetti riflettere su quella risposta prima di accettarla: «Volete dire che un ragazzo che non è mai …».
«Non è un ragazzo, per me».”
Il giorno dopo, l’istitutrice torna alla carica, affrontando l’argomento della precedente governante di Bly.
“«Che tipo era la signorina che stava qui prima?».
«L’ultima istitutrice? Era anche lei giovane e carina… giovane e graziosa quasi quanto voi, signorina».
«Ah, allora spero che la giovinezza e la bellezza le siano state d’aiuto! – ricordo d’aver detto con impeto. – Sembra che ci preferisca giovani e belle!».
«Oh, è proprio così! – confermò la signora Grose. – Era quello che cercava in tutte!». Aveva appena pronunciato queste parole che volle correggersi: «Dico che questo è il suo gusto, il gusto del padrone».
Rimasi di stucco: «Ma di chi parlavate prima?».
Si sforzò di apparire disinvolta, ma arrossì: «Di chi, dunque?! Di lui».
«Del padrone?».
«E di chi altro?».”
Quando poi la conversazione scivola sulla misteriosa morte dell’istitutrice che l’ha preceduta, la signora Grose si dimostra stranamente concisa, fuggendo alla fine frettolosamente verso le sue faccende domestiche. Non deve però sembrare che questi imbarazzi e queste reticenze scalfiscano la buona fede della signora Grose: è comprensibile che, di fronte a un nuovo arrivato, ella cerchi di nascondere, magari del tutto inconsciamente, i segreti più vergognosi o compromettenti del passato. Il suo codice morale e la sua posizione le impongono infatti di adoperarsi in tutti i modi per evitare scandali o pettegolezzi, e questo atteggiamento ella adotta, senza malizia o mistificazioni, anche nei confronti dell’istitutrice.
In questo singolare frangente psicologico, nel quale tutto sommato la seduzione esercitata dai due meravigliosi piccoli allievi prevale nettamente su ogni altra considerazione, irrompe la prima apparizione. Nel tardo pomeriggio, nel corso di una delle sue consuete passeggiate nel parco, l’istitutrice vede improvvisamente di fronte a se, sulla cima della vecchia torre merlata della casa, una figura di uomo che la osserva con aria insolente e sfrontata. Il terrore provocato dalla visione, tanto più grande in quanto non le riesce di spiegarla razionalmente se non attraverso il ricorso a un’improbabile intrusione di un estraneo, induce l’istitutrice a risparmiare la signora Grose, tacendole l’accaduto. Ma quando, qualche giorno dopo, la stessa persona riappare nell’atto di guardare, dalla parte esterna della finestra, dentro la sala da pranzo, questi scrupoli scompaiono completamente e la governante, sconvolta, decide di confidarsi con l’anziana compagna. Nel lungo dialogo tra le due donne, la giovane descrive con abbondanza di particolari la figura apparsale, ricevendone in cambio la più sorprendente delle risposte.
“«Allora lo conoscete davvero?»
Esitò, ma soltanto un attimo. «Quint!» esclamò.
«Quint?».
«Peter Quint… il suo domestico personale, il suo cameriere quando lui stava qui!». (…)
«E che ne è stato di lui?».
Tardò tanto a rispondermi, che mi sentii ancor più avviluppata. «Se n’è andato anche lui» sbottò alla fine.
«Andato dove?».
Un’espressione indicibile, a questa mia domanda, le si dipinse sul viso. «Dio sa dove! E’ morto».
«Morto?» quasi gridai.
La signora Grose sembrò chiamare a raccolta tutte le sue forze, piantandosi più saldamente al suolo per esprimere l’arcano di quel fatto: «Sì. Il signor Quint è morto»”
L’angosciante scoperta che l’uomo intravisto sulla torre prima e affacciato alla finestra poi sia nientemeno che un fantasma si accompagna alla precisa sensazione che esso sia venuto per cercare il piccolo Miles. Questa impressione è antecedente al colloquio con la signora Grose, ma è indubbio che la conoscenza dei particolari della vita di Quint, sinistra figura di domestico che “si prendeva troppe libertà” con i bambini, rafforza l’istitutrice nella sua orribile convinzione. La necessità di salvaguardare i bambini dalle malefiche influenze di un corrotto abitante del regno dei morti diventa in breve lo scopo stesso della vita dell’istitutrice. In questa dimostrazione di eroismo e di spirito di sacrificio (“Io ero uno schermo… e dovevo stare davanti a loro. Quanto più avessi veduto io, tanto meno avrebbero visto loro”), la giovane riesce a provare persino brividi di autentica felicità: ella si sente investita di una santa missione, come un paladino chiamato a proteggere e a difendere le forze del Bene dall’attacco congiunto degli spiriti del Male.
E’ impressionante la capacità di James di far progredire lentamente l’orrore fino a livelli di autentico parossismo, aggiungendo sempre nuovi e inquietanti elementi allo spaventoso quadro fino a quel momento realizzato. L’ulteriore giro di vite della storia è costituito dalla spettrale apparizione della precedente governante, la signorina Jessel, sulla sponda opposta dello stagno dove l’istitutrice si è recata insieme a Flora. La cosa più mostruosa di questa inattesa apparizione non è data tanto dalla comparsa del secondo fantasma (questa volta a rivelare la sua identità non è la signora Grose, ma è la stessa istitutrice a pervenire autonomamente a questa conclusione) quanto dalla presa di coscienza che i bambini “sanno”, pur senza volerlo dare a vedere.
“Era un peccato che dovessi di nuovo farfugliare le ragioni per cui non avevo dubitato neppure per un attimo, e con mia grande delusione, che la bambina vedesse la nostra visitatrice proprio come io in quel momento vedevo la signora Grose, e che la bambina desiderasse, pur avendo una visione di quel genere, farmi credere che non vedeva nulla, ed allo stesso tempo, senza scoprirsi, cercare d’indovinare se io avessi veduto qualcosa! Era un peccato che dovessi descrivere ancora una volta le piccole, portentose astuzie con le quali aveva cercato di distogliere la mia attenzione… il percettibilissimo accrescersi della sua vivacità, il maggior fervore nel gioco, il canto, il chiacchiericcio senza senso e l’invito a ruzzare”.
I due bambini appaiono per la prima volta non più come candidi angeli ma come astutissimi demoni, in grado di dissimulare alla perfezione le proprie emozioni. Ciò che fa rabbrividire di più in questa constatazione è la percezione del pericolo che l’infanzia corre nel trovarsi esposta, senza difese, di fronte al male e alla corruzione di cui il mondo adulto è impregnato. In questo senso, Miles e Flora non sono solo i simboli astratti del conflitto tra Bene e Male, ma i rappresentanti di una condizione umana immacolata e innocente, minacciata dal contagio della perversione morale. Aver detto che i bambini del “Giro di vite” sono creature diaboliche non significa pertanto sancire la natura perversa del fanciullo, come potrebbe sembrare ad una prima frettolosa analisi, ma solo riconoscere che essi, nella fattispecie narrata, sono stati costretti ad abbassare le armi di fronte al potere della depravazione e dell’immoralità (“Non li posso né salvare né proteggere! E’ assai peggio di quanto immaginassi… sono perduti!”).
Venuta finalmente a conoscenza dalla signora Grose dei retroscena del torbido rapporto tra Peter Quint e la signorina Jessel e dei particolari (sempre molto sfumati, per la verità) del morboso legame esistito tra Quint e Miles (le lunghe ore trascorse insieme, le bugie del bambino, la sensazione che questi coprisse la relazione tra il domestico e la precettrice), l’istitutrice moltiplica le energie dedicate alla sorveglianza dei bambini. Ma quanto più aumenta l’attenzione loro riservata, tanto più ella intuisce (o crede di intuire) in ogni loro gesto e parola la traccia di qualche complotto ordito ai suoi danni. Ad onta del fatto che questi oscuri segnali, al pari delle apparizioni spettrali, si susseguono senza tregua, la vita a Bly procede in maniera apparentemente tranquilla. Improvvisamente, però, la governante riesce ad acquisire la raccapricciante certezza che i bimbi non sono solo al corrente della presenza dei fantasmi, ma si incontrano regolarmente con essi. Svegliatasi nel cuore della notte, ella si accorge che Flora è uscita dal suo letto e, rannicchiata dietro la tenda della finestra, è assorta a guardare nel giardino. Sicura che la piccola sia faccia a faccia con la stessa apparizione del lago, l’istitutrice esce senza far rumore dalla stanza e si affaccia a un’altra finestra della casa, intenzionata a smascherare quella silenziosa conversazione, ma qui scopre con sgomento che la figura sul prato non è la signorina Jessel, bensì il fratello Miles, il quale a sua volta sta immobile sul prato con lo sguardo fisso sulla cima della torre. Anziché riuscire a far loro ammettere la complice relazione coi due perversi servitori defunti, l’istitutrice è costretta a riconoscere di essere tenuta in pugno dai bambini: la storia dei fantasmi non è cosa di cui poter parlare apertamente senza correre il terribile rischio di venire accusata di instillare colpevolmente nei giovani superstizioni e paure infondate. Di fronte al falso candore di Miles, la governante è costretta a “subire” la disinvolta scusa del ragazzo, addirittura “con un formale riconoscimento da parte mia di tutte le riserve di bontà che aveva dovuto impiegare per permettersi un simile scherzo”. Le conclusioni che l’istitutrice comunica il giorno dopo alla signora Grose non ammettono repliche: la prova evidente che i bambini sono in intima complicità con le due orrende presenze è proprio il loro ostinato silenzio sulla faccenda. La loro dolcezza e bontà non sono altro che ostentazione e inganno. Miles e Flora sono in realtà impregnati di sentimenti cattivi (risuona ancora nelle orecchie della governante la ricattatoria frase di Miles: “Pensate un po’ a quello che potrei fare!”), posseduti come sono da demoni tentatori che, attirandoli negli strani luoghi in cui appaiono, forse vogliono addirittura la loro morte.
Al termine dell’estate, mentre l’istitutrice è incapace di allontanare da sè l’idea crudele che, qualsiasi cosa ella possa vedere (e da molte settimane non vede ormai più nulla), Miles e Flora vedono di più, che cioè gli intrusi siano insistentemente tra loro, percepiti dai due conniventi bambini, scoppia la “rivoluzione”. Una domenica, col suo abituale amabile candore, Miles domanda: “Per favore, mia cara, sapreste dirmi quando mai tornerò in collegio?”, lasciando intendere, dietro a questa innocente frase, di volersi svincolare dalla ferrea tutela della donna. Sconvolta dalla consapevolezza di essere in balia di Miles (e, in particolare, di avergli fatto credere di non voler affrontare la questione dei motivi della sua espulsione dal collegio, a cui si riallacciano in un modo o nell’altro tutti gli altri orrori), l’istitutrice decide di lasciare di nascosto la casa. Ma l’ennesima, e questa volta inaspettata, apparizione dell’orrenda signorina Jessel seduta al tavolo del suo studio, convince la giovane a non rinunciare alla propria missione.
Un paio di capitoli prima, l’istitutrice rivela a quale livello sia giunta ormai la sua ossessione.
“In quei momenti, se non fossi stata trattenuta dalla sola possibilità che il rimedio potesse essere peggiore del male, la mia esaltazione sarebbe liberamente esplosa. «Loro due sono qui, sono qui, piccoli disgraziati, - avrei urlato,- e non potete negarlo ora!».”
La crescente difficoltà dell’istitutrice di trattenersi emerge pericolosamente durante una lunga schermaglia psicologica con Miles, nella stanza da letto di quest’ultimo. Credendo di avvertire qualche segno di cedimento nel suo interlocutore e oscillando tra ansia di sapere e commozione, l’istitutrice va troppo oltre, lasciandosi scappare di bocca l’invocazione: “Voglio soltanto che tu mi aiuti a salvarti!”. In risposta a questo appello “proibito”, la candela si spegne, un soffio di aria gelida entra nella stanza (ma la finestra è rimasta chiusa) e il bambino lancia un urlo acutissimo di terrore, prima di ritornare perfettamente padrone delle proprie emozioni.
Il giorno dopo, mentre la governante, stregata dal fascino miracolosamente intatto di Miles, è assorta nell’ascolto del suo piccolo allievo seduto al pianoforte, Flora scompare. La donna non ha alcun dubbio: l’invito del bambino a suonare per lui era un trucco per tenerla occupata e permettere nel frattempo alla bambina di recarsi al laghetto con la signorina Jessel. Trascinandosi dietro la sempre più confusa signora Grose, l’istitutrice si precipita laggiù, in tempo per avere la conferma dei propri sospetti: Flora è in piedi, sorridente, sull’erba, come se la sua impresa fosse ormai compiuta. L’equilibrio nervoso dell’istitutrice a questa vista crolla di colpo e la coppa, che ella da molte settimane teneva colma sino all’orlo e che aveva rischiato di traboccare la sera prima con Miles, si rovescia con la violenza di un uragano alla domanda: “Dov’è, carina, la signorina Jessel?”. La smorfia di sofferenza che si dipinge sul viso di Flora, l’urlo di terrore della signora Grose e il gemito della governante si susseguono nel giro di pochi secondi e si accavallano alla comparsa, sulla sponda opposta dello stagno, del demone evocato. Lo sguardo attonito della signora Grose, rivolto al punto indicato dall’istitutrice, sembra a tutta prima la prova suprema che anche lei, finalmente, vede. Ma la situazione si capovolge in un istante: gli occhi della signora Grose sono purtroppo sigillati senza speranza e quelli di Flora non si turbano davanti alla visione, ma fissano l’istitutrice con un’espressione terribile di accusa. Il possibile trionfo si tramuta in rovina: Flora e la signora Grose sono ora dolorosamente unite contro di lei, e mentre la vecchia collega trascina via la bambina, il cui viso sembra di colpo orribilmente invecchiato, la governante si lascia andare, riversa a terra, ad una selvaggia disperazione.
La tragedia sta per consumarsi ma, prima del suo ultimo atto, si ha la sorpresa di assistere a un’inattesa manifestazione di solidarietà da parte della signora Grose. Dopo aver udito Flora pronunciare, nel delirio della febbre, orrende parole nei confronti della sua insegnante, la signora Grose si dice favorevole a portare al più presto la bambina lontano da quei malefici influssi.
“«Allora, a dispetto di quanto è accaduto ieri, voi credete…».
«A quelle cose? – La sua semplice descrizione, alla luce dell’espressione dipinta sul suo viso, non richiedeva ulteriori spiegazioni, e lei aprì il suo cuore come non aveva fatto mai – Ci credo».”
Mentre la signora Grose e Flora lasciano precipitosamente la casa, l’istitutrice cerca di salvare Miles, tentando l’ultimo assalto alla sua reticente volontà. Resasi conto che Miles è indeciso, esitante e nervoso, l’istitutrice ad un tratto capisce che il bambino si sente escluso dal suo canale privilegiato con Quint. Di fronte allo scacco di Miles, l’istitutrice prova un brivido di trionfo e prepara con cura il momento della verità, capendo di avere ormai partita vinta. Ora ella può avere il coraggio di sfidare il sinistro fantasma di Quint, che ricompare per qualche attimo alla finestra, forte della sicurezza che ormai al bambino è definitivamente preclusa qualsiasi visione. La scomparsa dello spettro è il segno del definitivo trionfo dell’istitutrice. Accecata dalla vittoria conseguita, come ubriaca di piacere, la donna imperversa sull’animo esacerbato e sconvolto del bambino, costringendolo impietosamente a rievocare i terribili momenti della sua cacciata da scuola. Ma al culmine di questa tortura, Peter Quint compare ancora: il pericolo di veder crollare la vittoria e il riaccendersi della battaglia scatenano l’irruenza dell’istitutrice.
“«Mai più, mai più!» gridai con voce stridula al mio visitatore, mentre cercavo di stringere il bambino al petto.
«Lei è qui?» domandò Miles con ansia mentre seguiva con i suoi occhi sigillati la direzione delle mie parole. Poi, mentre quello strano “lei” mi sconvolgeva, ed io lo ripetevo con un fil di voce, come un’eco, «la signorina Jessel, la signorina Jessel!» mi gridò con furia improvvisa.
Stupefatta, compresi, ad un tratto, la sua supposizione… come un seguito di quello che avevamo fatto con Flora, ma ciò mi fece soltanto desiderare di mostrargli che si trattava di meglio: «Non è la signorina Jessel! Ma è alla finestra… dritto davanti a noi. E’ là… quel vile orrore, là per l’ultima volta!».
A queste parole, dopo un momento in cui la sua testa imitò il movimento del cane deluso che ha smarrito una traccia, ebbe un moto convulso, quasi cercasse aria e luce; si voltò verso di me in preda ad una rabbia muta, disorientato, guardando invano dappertutto, senza però trovare un segno (sebbene a me la stanza sembrasse impregnata come delle esalazioni d’un veleno) di quella grande, dominatrice presenza. «E’ lui?».
Ero ormai così decisa ad ottenere la prova voluta che, per sfidarlo, mi resi di ghiaccio: «Che vuoi dire con quel “lui”?».
«Peter Quint… demonio maledetto!» - il suo viso rivolgeva ancora, a tutta la stanza, la supplica convulsa. «Dov’è?».
Ho ancora nelle orecchie la resa suprema del nome e il suo omaggio alla mia devozione. «Che cosa t’importa di lui ormai, tesoro?.. che importanza potrà più avere? Io ti ho, - gridai rivolta all’essere immondo, - mentre lui ti ha perduto per sempre!». Poi, per dimostrare che la mia opera era compiuta: «Là, là!» dissi a Miles.”
Ma Miles, gli occhi sbarrati dalla paura, non regge ulteriormente lo spavento e, con l’urlo di una creatura scagliata oltre un abisso, muore tra le braccia della governante.
Mentre il dramma sta avviandosi febbrilmente verso la conclusione, raggiungendo punte quasi insopportabili di tensione, è avvenuto un inaspettato cambiamento di prospettiva: tutt’a un tratto non siamo più così sicuri che i fantasmi di Bly siano effettivamente reali, che i bambini siano creature astute e corrotte, che l’istitutrice sia il valoroso e disinteressato paladino delle forze del Bene. L’ombra di dubbio che ci aveva sfiorato nel corso della isterica scena del lago è diventata un ingombrante e ineludibile sospetto, che mi ha spinto a spiegare la morte di Miles non già in termini soprannaturali (il piccolo cuore del bambino che non regge al fatto di essere “liberato” dal Male, in quanto ormai troppo corrotto per vivere senza di esso), ma come naturale effetto dello spavento. Per la prima volta dall’inizio del racconto, ci si accorge che tutta la storia di fantasmi si basava su una semplice ragione: che l’istitutrice racconta la storia con una convinzione tale da trascinare se stessa ed il lettore nell’orribile incubo. Non si può negare che la narrazione dell’istitutrice proceda sempre in modo chiaro e lineare, e sia sorretta da una logica ferrea e implacabile anche nei momenti in cui ella affronta i fenomeni più strani e anormali. Se a ciò si aggiunge il fatto che il lettore non ha nessun altro elemento su cui fare affidamento che la parola dell’istitutrice, è comprensibile che questi abbia potuto prendere un clamoroso abbaglio, spinto a ciò, non va dimenticato, dalla sovrumana abilità di uno scrittore che usa il sistema della “mistificazione” in maniera sopraffina. Se dunque si cessa di concepire i fantasmi di Bly come spiriti ma li si considera come proiezioni, creazioni di una mente turbata, tutto quanto detto finora finisce per non avere più valore. La prima lettura si è rivelata troppo semplicistica, in quanto ci ha fatto vedere le cose in una prospettiva manifestamente fasulla. Ci troviamo perciò costretti a prendere nuovamente in mano il libro, per tentare di rintracciare, senza ovviamente far violenza al testo, gli elementi nascosti in grado di suffragare le nuove teorie.

LA SECONDA LETTURA, OVVERO LA LETTURA INIZIATICA

La prima questione da affrontare consiste nello stabilire se la governante sia una testimone credibile oppure no, se cioè ella creda a quanto va raccontando oppure sia solo una volgare bugiarda. Il problema, a mio avviso, va risolto in questi termini: i fantasmi sono inconfutabilmente reali per l’istitutrice, la quale quindi crede, o si sforza di credere, alle esperienze soprannaturali vissute a Bly. Una risposta recisamente negativa devo dare invece alla seconda, fondamentale domanda, che solo apparentemente è simile alla prima: è l’istitutrice una testimone attendibile? Vi sono numerosi elementi, psicologici prima ancora che testuali, che depongono a favore di questo mio convincimento. Anzitutto, non bisogna dimenticare che il racconto si svolge, sia pure al di là dell’Atlantico, in piena epoca vittoriana: la giovane protagonista è figlia di un curato di campagna, è appena uscita da un vicariato dell’Hampshire e ha quindi una visione del mondo da parrocchia, con un forte senso del peccato e un rigido atteggiamento moralista. Per lei, educata in maniera presumibilmente repressiva, il soggiorno a Bly coincide con un allentamento delle proprie rigide e puritane regole di vita (“Imparai qualcosa che non avevo appreso nella mia vita modesta e limitata… Era la prima volta, in un certo senso, che mi accorgevo dello spazio e dell’aria e della libertà…”). Fin dalle prime pagine ella si rivela inoltre romantica e sognatrice, con la tendenza a ricamare sulle cose e a romanzarle (“…Bly mi sembrò un castello romantico abitato da un folletto rosa, un luogo che in qualche modo, per piacere a una mente infantile, avesse assunto forma e colori dei libri di racconti e delle fiabe. Non era forse un libro di favole quello su cui mi ero appisolata per sognare? No: era una casa grande, brutta e vecchia, ma confortevole,… in cui fantasticavo che ci fossimo smarriti come un pugno di passeggeri su un grande vascello alla deriva”). Se si aggiungono poi la tendenza a mutare d’animo in maniera alquanto repentina (un alternarsi di turbamenti, sollievi, oppressioni ed euforie caratterizzano, ad esempio, i suoi primi giorni a Bly) e una capacità di immaginazione “terribile”, come lei stessa ammette più volte nel corso del racconto, si può facilmente arrivare alla conclusione che l’istitutrice è costituzionalmente predisposta a caricare fatti, gesti e parole, anche del tutto trascurabili o secondari, di una valenza che supera di gran lunga la loro reale importanza oggettiva. Così, quando fa la conoscenza con la signora Grose, l’istitutrice nota con un pizzico di inquietudine l’evidente sollievo di costei nel vederla (“Mi ero accorta che per quasi mezz’ora la sua felicità nell’incontrarmi… era decisamente controllata perché non trasparisse troppo vistosamente”).
Nel prologo veniamo a conoscenza di un particolare che eserciterà un’influenza determinante nel prosieguo di questa rivisitazione del “Giro di vite”: l’istitutrice si era segretamente innamorata dello zio dei bambini. “Sì, era innamorata – ammette il narratore Douglas – Cioè, lo era stata. Ciò venne fuori… non poteva raccontare la storia senza che venisse fuori”. Sebbene la governante non lo ammetta mai esplicitamente, l’attrazione erotico-sentimentale esercitata su di lei dall’affascinante Master viene effettivamente rivelata in almeno due occasioni, quando confida alla signora Grose di essere stata conquistata a Londra e quando sogna di dimostrare “alla persona giusta” di essere in grado di riuscire là dove molte altre giovani avrebbero fallito. Chiaramente, con la rigida educazione puritana ricevuta in gioventù, è inevitabile che questa innocente passione venga nel subconscio connotata con un senso di peccaminosità. Si ha così una situazione che, caratterizzata da un amore inconsciamente vissuto come “impuro”, prelude a uno stato di vera e propria repressione sessuale.
A questo punto, forti di una conoscenza non più superficiale della protagonista, siamo in grado di interpretare i tragici avvenimenti del racconto in un’ottica completamente diversa. Quando a Bly giunge la lettera proveniente dal direttore del collegio, la fantasia dell’istitutrice si mette subito a lavorare. L’espulsione da scuola di Miles, i lapsus e gli imbarazzi della signora Grose, il mistero della morte della governante che l’ha preceduta, vengono caricati dalla protagonista di connotazioni esageratamente sinistre, cosicché nella sua mente si sviluppa in maniera informe l’idea che a Bly vi sia un orrendo mistero da svelare. Lo scontro tra la repressione degli istinti sessuali da una parte e le morbose inclinazioni dell’immaginazione dall’altra fa sì che il precario equilibrio psichico dell’istitutrice sia destinato a saltare alla prima occasione. L’occasione arriva nella famosa scena della prima apparizione, durante la passeggiata serale nel parco.
“Uno dei pensieri… che erano soliti accompagnarmi in quel mio vagabondare era che sarebbe stato incantevole, degno d’un romanzo affascinante, incontrare improvvisamente qualcuno. Qualcuno che mi apparisse laggiù, alla svolta del sentiero e che – fermo davanti a me – mi sorridesse con l’aria di approvarmi. Non chiedevo niente di più… chiedevo soltanto che sapesse, e il solo modo per esser certa che sapeva, sarebbe stato di leggerlo sul suo bel viso, rischiarato dalla luce di quella consapevolezza. Tutto ciò – intendo dire soprattutto quel volto – era esattamente presente al mio spirito…”.
E’ evidente che in queste fantasticherie l’istitutrice ad altri non pensi se non allo zio di Miles e Flora, oggetto di un silenzioso amore senza speranza. Il fantasma sulla torre merlata sembra quindi essere la materializzazione di una fantasia romantico-sentimentale con sottile piacere evocata. Ma a questo punto, secondo i meccanismi di una personalità contorta, scatta il complesso di colpa. Il senso di peccaminosità di un tale desiderio (con sottile ironia, James fa notare che “c’era una punta d’insolenza nella strana familiarità che dimostrava nel restare senza cappello”) non provoca il dissolvimento dell’apparizione, al contrario la fissa in una posizione antagonistica. Il lungo, reciproco e sfrontato fissarsi della governante e dell’uomo riflette il conflitto interiore tra purezza e perversione. Quest’ultima, inammissibile in una giovane coscienziosa e timorata di Dio, viene, se così si può dire, espulsa, oggettivata in una visione che, da quel momento in poi, vivrà di vita propria.
Che le apparizioni di Bly siano solamente proiezioni allucinatorie dell’istitutrice mi sembra di poter inferire anche da una sorta di insistita autoidentificazione con esse che ricorre più volte nel corso del racconto. Così, quando si verifica la seconda apparizione, l’istitutrice si ritrova affacciata alla stessa finestra attraverso la quale, poco prima, le era comparsa davanti la sinistra figura d’uomo. Ma (questo è molto strano) l’istitutrice non è in grado di precisare la durata degli avvenimenti, come se avesse perduto la nozione del tempo o se una frattura temporale (non saprei come altrimenti definirla) avesse separato i due momenti. Qualche capitolo più avanti troviamo un episodio significativamente analogo.
“Ricordo che nell’atrio, tormentata dalle difficoltà e dagli ostacoli che mi restavano da superare, mi lasciai cadere ai piedi della scala… improvvisamente sfinita, mi sedetti sul gradino più basso; poi con una violenta reazione rammentai che esattamente in quel punto, più di un mese prima, nella tenebra notturna, avevo visto lo spettro della più orribile delle donne, curva sotto il peso della sua malvagità”.
Nella scena immediatamente successiva, con uno speculare ribaltamento delle parti, l’istitutrice trova la signorina Jessel seduta al suo scrittoio, con un’espressione tale da lasciar capire che “il suo diritto di sedersi al mio tavolo valeva il mio di sedersi al suo”. Tornando ancora alla seconda apparizione, non è poi di poco conto il fatto che essa faccia venire alla mente della protagonista il seguente pensiero: “… fu come se lo avessi guardato per anni e lo conoscessi da sempre”.
Uno degli argomenti principali a favore della mia teoria è che nessuno, all’infuori dell’istitutrice, vede mai i fantasmi. Ciò che ci traeva in inganno nella prima lettura era la sicurezza che la governante mostrava, e trasmetteva in seconda battuta al lettore, nel credere che anche i bambini fossero a conoscenza delle apparizioni. In realtà, una più attenta analisi dei fatti evidenzia che non esiste alcuna prova che l’istitutrice abbia ragione. Ma di questo parlerò più avanti. L’ulteriore circostanza che la signora Grose crede fino alla fine a ciò che la giovane protagonista le racconta può essere poi spiegata mediante il ricorso a una semplice considerazione: la vecchia domestica è sì una donna dalle qualità umane eccezionali, ma è anche una sempliciotta, scarsamente istruita e, ciò che più conta, molto superstiziosa; niente di più facile, perciò, che sia stata suggestionata, fino a rimanerne plagiata, dalla sfrenata immaginazione dell’istitutrice. Ben altra capacità di resistenza ad essere piegate in termini psicanalitici offrono, invece, altre parti del racconto, prima fra tutte la scena in cui l’uomo apparso alla governante prende la fisionomia del defunto Peter Quint. Ad effettuare con sicurezza l’identificazione è, come ho già detto, la signora Grose, durante un lungo e sovreccitato scambio di battute con l’istitutrice. A prima vista, il fatto che una pura e semplice allucinazione della protagonista, risultato della sua mente turbata, venga a coincidere con una persona realmente esistita e di cui, per di più, la protagonista stessa non era nemmeno a conoscenza, sembra del tutto inspiegabile. La cosa, in realtà, non si presenta proprio in questi termini: nella prima parte, infatti, ho citato la scena, apparentemente secondaria, in cui l’istitutrice ha l’impressione che la signora Grose parli di altri che non il padrone quando le dice: “Era quello che cercava in tutte!”, correggendosi poi: “Dico che questo è il suo gusto, il gusto del padrone”. Nella memoria dell’istitutrice è probabilmente rimasta una traccia di questa originaria sensazione, inconsciamente legata a qualcosa di sordido e sinistro avente per protagonista un uomo. Dal canto suo, la signora Grose ricorda Peter Quint come una presenza inquietante, se non addirittura persecutoria. E’ logico che ella pensi involontariamente a lui quando, dopo averle confermato che non si tratta di nessuno del posto, l’istitutrice dice del misterioso uomo: “E’ un orrore”. Difatti, l’istitutrice stessa registra, qualche attimo dopo, l’apparire sul volto della compagna, di “un remoto, debole lampo di consapevolezza,… il tardivo spuntare di un’idea che io non le avevo suggerito e mi era completamente oscura”. Quando poi l’istitutrice rivela un particolare assolutamente insignificante, come quello che l’uomo non porta il cappello, è facile accorgersi che il meccanismo dell’identificazione è già scattato. Da quel momento in avanti, si può dire che la signora Grose sia psicologicamente predisposta a riconoscere in qualsiasi descrizione le venga prospettata la figura di Peter Quint. I dettagliati particolari fisici rivelati dall’istitutrice vanno quindi a posarsi sui contorni di una immagine mentalmente già delineata. Non è necessario che la descrizione sia fedele al ritratto, perché la signora Grose ha già deciso dentro di sè che quell’uomo è Peter Quint. Che i dettagli fisici siano superflui lo dimostra il fatto che gli eloquenti barlumi di consapevolezza della signora Grose non compaiono quando l’istitutrice descrive l’apparizione, ma solo dopo che ella rivela particolari non propriamente distintivi, l’ultimo dei quali (l’uomo indossa vestiti eleganti, ma non suoi), mentalmente unito a un altrettanto trascurabile ricordo (Quint aveva rubato alcuni panciotti del signore), dimostra che la signora Grose sta seguendo un suo corso di pensieri ed associazioni. La scena tra l’istitutrice e l’anziana donna assomiglia vagamente a quella in cui una chiromante, basandosi su una insignificante base di verità, ricostruisce la vita della persona che le sta di fronte, la quale, con la predisposizione a immedesimarsi in ciò che le viene detto, aiuta inconsapevolmente l’altra a svelare i propri segreti.
Quando più tardi entra in scena la seconda apparizione, l’istitutrice non ha più bisogno della signora Grose per stabilire che si tratta della signorina Jessel, perché ormai il disegno è chiarissimo nella sua mente. L’ultimo particolare di cui ella ha bisogno per perfezionare la sovrapposizione tra la coppia dei servitori defunti e le proiezioni allucinatorie dei propri complessi di colpa è sapere se Quint e la signorina Jessel erano malvagi. “Allora mi assicurate, è una cosa molto importante, che egli era assolutamente e notoriamente cattivo?”, domanda l’istitutrice nel capitolo successivo alla scena dell’identificazione. La risposta che ella riceve non lascia adito a dubbi: Peter Quint e la signorina Jessel erano “infami”. L’istitutrice non ha bisogno di altre prove; ella vede tutto “con prodigiosa chiarezza”. I due individui, che fin da quando erano in vita avevano cominciato a contaminare Miles e Flora con i loro malefici influssi, sono ritornati ora dal regno dei morti per completare quell’opera di corruzione e riprendersi le loro piccole vittime. Quale “magnifica occasione” per cercare di salvare eroicamente i due bambini dall’attacco delle forze del Male! Nei due piccoli fratelli l’istitutrice riversa evidentemente le proprie ansie di innocenza, traducendo nella lotta contro i due fantasmi il tentativo di recuperare la propria purezza perduta. L’illusione è completa e rifiuta qualsiasi spiegazione logica. Quando la signora Grose, all’istitutrice che le espone le proprie convinzioni, domanda: “Ma come lo sapete?”, ella risponde con un elusivo: “Lo so, lo so, lo so!”, che rifiuta qualsiasi controprova.
L’identificazione dei due bambini con la propria innocenza da difendere è necessariamente gravida di conseguenze. Infatti, l’istitutrice ha inconsciamente provocato la scissione delle due parti della propria personalità, quella “buona” e quella “cattiva”, proiettandole rispettivamente nei bambini e nei servitori perversi. Ma se questi ultimi sono mere allucinazioni dell’istitutrice, i bambini sono invece creature che vivono in maniera autonoma nella realtà e che, ovviamente, non hanno bisogno di essere salvate da alcunché. Come tali, essi continuano a comportarsi in maniera “naturale”, “normale”. Ma la mente irrimediabilmente paranoica della governante percepisce tali comportamenti come “inadeguati” e reagisce ad essi da una parte con un esasperato atteggiamento possessivo (al quale non mi sembra estraneo, soprattutto nei frequenti e insistiti abbracci, un rigurgito di istinti materni repressi) e dall’altra con manifestazioni molto simili alla gelosia più morbosa (la paura dell’insuccesso nella “missione” di salvare i bambini viene vista nell’ottica del tradimento). Questa situazione degenera nel sospetto prima e nella convinzione poi che i bambini sono in relazione con i diabolici fantasmi.
Le argomentazioni avanzate per supportare questa conclusione sono la prova più evidente che l’istitutrice è irretita in una inestricabile trama di allucinazioni. Nei comportamenti più normali dei bambini ella vede ora ipocrisia e dissimulazione, ora astuzia e ironica consapevolezza. Un esempio per tutti: nella scena della prima apparizione della signorina Jessel al lago, ciò che persuade definitivamente l’istitutrice che Flora ha visto tutto e voglia tenerlo nascosto non è altro, come abbiamo già visto, che “il percettibilissimo accrescersi della sua vivacità, il maggior fervore nel gioco, il canto, il chiacchiericcio senza senso e l’invito a ruzzare”, qualcosa cioè che ci meraviglieremmo di non riscontrare in una vivace bambina di otto anni. L’analisi circostanziata del comportamento dei due bambini nell’arco di tutto il racconto non può che definirli assolutamente “normali”, anche in quelle manifestazioni (la curiosità di Miles sul suo futuro scolastico, la fuga in barca di Flora) che per l’istitutrice sono i segni più evidenti di quanto essi siano ormai corrotti. E’ l’istitutrice a far sì che il loro modo di fare sembri sinistro quando invece è l’estrinsecazione di naturalissimi impulsi infantili. Dal canto loro, i bambini tentano in continuazione di adattarsi all’ottica della loro insegnante, secondandola in ogni sua fisima, anche quando non capiscono che cosa ella pretende da loro. L’istitutrice, infatti, non rivela mai i suoi sospetti e, quando lo fa, si comporta in modo così isterico da oltrepassare i limiti della loro comprensione. In questo senso deve sicuramente intendersi la scena del lago in cui l’istitutrice crede di sorprendere Flora in compagnia della signorina Jessel, ma provoca solo la comprensibile crisi di nervi della bambina.
La follia della governante, alla luce di queste considerazioni, è inoppugnabile. Ciò che nella prima lettura ci aveva indotti in errore era il fatto che la storia del “Giro di vite” ci è raccontata in prima persona da colei che di questa follia è la protagonista e che, in quanto tale, non può vederla coi propri occhi, ma solo riflessa, attraverso sentimenti come paura, perplessità e disagio, negli occhi degli altri personaggi. Ad esempio, al termine della scena, più volte richiamata, in cui l’istitutrice ripete alla finestra la spettrale apparizione di qualche minuto prima, facendo spaventare la signora Grose, ella si domanda candidamente: “Mi chiesi perché anche lei si fosse spaventata”. Nel corso del racconto si susseguono poi espressioni del tipo: “sul mio viso si stavano inseguendo prodigiose espressioni, perché le vedevo man mano riflesse sul volto della mia compagna”, “sbatté coraggiosamente le palpebre al significato delle mie parole”, “la signora Grose mi guardò sgomenta”, per non parlare degli intimi turbamenti e dei cenni di imbarazzo di Miles al cospetto della sua insegnante. Solo la semplicioneria dell’anziana signora e l’ingenuità, nient’affatto perversa, dei due bambini fanno sì che queste reazioni si manifestino esclusivamente a livello emozionale, consentendo pertanto all’istitutrice di conservare la propria credibilità fino al termine del racconto.
Un ultimo elemento che ritengo opportuno sottolineare è il seguente: dopo la famosa scena in cui Miles viene trovato in piena notte nel giardino della casa, l’istitutrice si convince di essere tenuta in pugno dei due bambini; ma la scoperta nei bambini degli “inequivocabili” segni della loro subdola scaltrezza è, guarda caso, immediatamente successiva agli ansiosi pensieri che l’istitutrice fa circa la propria delicata posizione di educatrice, esposta al rischio di possibili accuse di superstizione e di oscurantismo. Allo stesso modo, qualche pagina più avanti, l’”insubordinazione” di Miles avviene proprio mentre l’istitutrice si sta domandando come, nel caso in cui il bambino avesse preteso la sua libertà, ella avrebbe potuto tenergli testa: l’istitutrice è cioè portata psicologicamente ad interpretare ogni parola ed ogni gesto dei suoi allievi come un possibile segno di ribellione, quasi aspettandosela con affanno. Ciò che a noi, leggendo il racconto, appare a tutta prima come il progredire di un diabolico complotto, è in realtà il lento e graduale tracollo nervoso della protagonista, la quale, al termine della seconda scena del lago, si abbandona addirittura, senza neppure sapere quello che sta facendo, ad una incontrollabile crisi di isterismo.
Arriviamo così alla tragedia finale, quella che oserei definire una catastrofe annunciata. Gli istinti sessuali dell’istitutrice, per lungo tempo repressi, esplodono con inaudita violenza, e la vittima predestinata è il piccolo Miles.
“…ora sentivo di nuovo… quanto il mio equilibrio dipendesse dalla vittoria della mia ferma volontà, la volontà, cioè, di chiudere gli occhi il più possibile sul fatto che ciò che dovevo affrontare era rivoltante, contro natura. Non potevo resistere se non entrando, per così dire, in confidenza con la “natura” e tenendone conto, e considerando la mia prova mostruosa come una spinta verso una direzione insolita, ovviamente, e sgradevole, ma che dopo tutto non richiedeva, per farvi fronte serenamente, che un altro giro di vite alla comune virtù umana”.
L’istitutrice si convince che, per vincere il Male, deve mettersi sul suo stesso piano, liberandosi per “necessità” di ogni inibizione e remora morale: è una sorta di forzata legittimazione, di anticipata assoluzione dei propri impulsi “oscuri”, dei propri desideri più inconfessabili. Ora che, presa nelle spire di una irreversibile follia, si crede consacrata alla “mistica” impresa di salvare un’anima dal demonio, l’istitutrice è pronta a far violenza all’indifeso bambino. Ciò che segue è un lungo e feroce gioco al massacro, di una inaudita e parossistica crudeltà psicologica. L’istitutrice, che si immagina, insieme a Miles, "come una giovane coppia in viaggio di nozze", abbraccia il bambino con gemiti di felicità, lo bacia sulla fronte, lo stringe fortemente al suo seno. Ora lei è Quint e fa a Miles le stesse cose di cui prima rabbrividiva al pensiero che quest’ultimo le potesse fare a sua insaputa al bambino: ma ormai ella ha dato il giro di vite, e tutto è giustificato. La confessione di Miles non fa che acuire il perverso piacere del proibito, che ella assapora con intensa voluttà, fino ad ubriacarsi di un incestuoso trionfo. L’ultima apparizione di Quint è l’estremo barlume di un senso di colpa che, fin dall’inizio del racconto, l’istitutrice aveva inconsciamente cercato di estraniare, trasformandolo in un elemento conflittuale, capace, per contrasto, di far risaltare la propria personale purezza e l’indispensabilità della propria missione. Ora, nel delirio erotico-sessuale, essa si rivela come un’irresistibile attrazione verso il peccato e la depravazione, non disgiunta da un ossessivo desiderio di possesso. La lotta finale non è che il dissidio interiore tra la colpevolizzazione della purezza e la purificazione dei sensi di colpa. Col grido selvaggio rivolto all’essere immondo: “Io ti ho, mentre lui ti ha perduto per sempre!”, l’istitutrice vampirizza il bambino, lo “possiede” finalmente. Quando Miles pronuncia il nome della signorina Jessel, anziché quello di Peter Quint, ogni possibile ombra di dubbio cade: Miles non ha mai visto nulla, e se pronuncia il nome della antica governante lo fa solo perché lo ha sentito proferire dalla sorella il giorno innanzi. La sua mente sigilla, direi quasi inevitabilmente, la cupa e feroce tragedia della follia: all’orrore dell’infanzia insidiata dai fantasmi corrotti si è sostituito, non meno terrificante, l’orrore dell’infanzia esposta, senza difese, a una immaginazione malvagia.

LA TERZA LETTURA, OVVERO LA LETTURA METAFORICA

Cos’è che mi spinge a tentare una terza lettura del “Giro di vite”? Non certo, lo dico subito, l’intenzione di sconfessare quanto ho sostenuto poc’anzi; piuttosto la sensazione che altri significati, oltre a quello che è emerso nel corso del mio saggio, siano nascosti in questo piccolo libro dall’inesauribile fascino. “Il giro di vite”, nella sua ricchezza di sfumature e nella sua intenzionale ambiguità, è un po’ come un enorme spazio bianco che altro non chiede se non di essere riempito da chi ha la pazienza di soffermarvisi. E’ questa una caratteristica che contraddistingue tutti i grandi capolavori artistici. Ricordo uno stupendo, vecchio film di Ingmar Bergman, intitolato “Il volto”. Il soggetto è una storia, semplice ma non banale, di trucchi e mistificazioni, di scetticismo e ipocrisia. Interpretando i numerosi simboli del film, emerge però, inequivocabilmente, anche il conflitto emblematico tra fantasia e raziocinio, tra spirito e scienza. Ad un terzo livello, infine, esso appare come un’allegoria dell’uomo di spettacolo, esposto alla diffidenza e al sospetto dei “grandi inquisitori” dell’ordine costituito. Qualcosa del genere si riscontra, a mio avviso, anche nel “Giro di vite”. Tutto parte da una considerazione: l’elemento della corruzione si innesta nelle esistenze dei due bambini come un’entità eminentemente verbale, almeno per quanto ci è dato di sapere attraverso gli avvenimenti a disposizione della protagonista: Flora, durante la malattia, dice “cose orrende”, che superano “ogni immaginazione”; Miles è espulso dal collegio per aver “detto certe cose” a quelli che gli piacevano. Per entrambi si tratta quindi di “parole”. Ciò non ci stupisce più di tanto, perché i personaggi di Miles e Flora sembrano appartenere alla magica, eterea e disincarnata sfera dell’arte, la quale è principalmente “parola”. Non credo affatto che siano casuali i numerosi riferimenti, che James dissemina lungo tutto il racconto, alla “teatralità” della vita dei bambini.
“…si divertivano immensamente senza di me: e questo spettacolo, allestito da loro con cura particolare, mi coinvolgeva nella parte di ammiratrice appassionata”.
“Mi spuntavano davanti non soltanto mascherati da tigri o da antichi romani, ma anche da personaggi di Shakespeare, da astronomi e da navigatori”.
“Vivevamo in una nuvola di musica, di amore, di successi e di rappresentazioni teatrali tutte per noi”.
In aggiunta, lo scenario autunnale di Bly appare agli occhi dell’istitutrice “come un teatro dopo lo spettacolo… con i programmi cincischiati sparsi al suolo”. Da questi continui e, ripeto, non casuali rimandi al teatro si può dedurre che i due bambini simboleggiano la condizione dell’artista, il quale, agli occhi della società in cui vive e opera, è innocente e perfido allo stesso tempo. La malsana esposizione di Miles e Flora all’influenza dell’istitutrice è, in quest’ottica, l’esposizione dell’artista e delle sue creazioni all’influsso della critica o ai condizionamenti della censura. Non è difficile trovare nel personaggio dell’istitutrice e in quello del direttore del collegio i rappresentanti, subdolamente condiscendenti o dispoticamente intransigenti, di questa categoria. Se una valenza morale può avere questa identificazione, allora la si può ritrovare, più che in ogni altro luogo, nelle lettere che essi scrivono e che, in un modo o nell’altro, non dicono assolutamente niente. Nel piccolo universo di Bly, la signora Grose rappresenta invece il pubblico, o meglio la parte più ignorante e sprovveduta di esso. Non va dimenticato, infatti, che l’anziana donna “non sa leggere”.
Risalendo al livello di narrazione immediatamente superiore, ricordiamo che nel prologo Douglas racconta la storia a un pubblico che via via si assottiglia, si seleziona. Coloro che rimangono, dopo che le sciocche signore si sono allontanate, rappresentano la cerchia ideale di fruitori dell’opera d’arte, tra i quali si cela il lettore privilegiato, quello intelligente e sofisticato: “Continuò a guardarmi fisso. «Tu lo comprenderai facilmente, - ripeté, - tu lo comprenderai»”. Al livello ancora superiore rimane soltanto lo scrittore, Henry James. Non ci meraviglieremmo più, a questo punto, se scoprissimo che “Il giro di vite”, in fondo, di altro non parla se non di James e della sua arte, e che, attraverso le esche, le trappole e i filtri mistificatori, sparsi un po’ dovunque, l’autore si sia inteso burlare dei suoi critici e di tutti coloro che, come me, si sono appressati o si appresseranno all’esegesi del racconto. Allora è tutto inutile, potrebbe dire, saggiamente, qualcuno, sarebbe stato meglio fermarsi alla prima lettura e, almeno, non rovinare la magia e l’incanto di una storia che, letta ingenuamente, dà ancora i brividi. E se invece tentassimo una quarta lettura? Nell’affascinante e misterioso mondo di Bly potrebbe saltare fuori (perché no?) un delitto e, chi lo sa, alla fine l’assassino potrebbe essere proprio il lettore.

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Il giro di vite 2019-03-07 18:42:40 DanySanny
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    07 Marzo, 2019
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Non fa per me

Lo confesso fin da ora, e forse qualcuno riuscirà a farmi cambiare idea: questo libro non mi è piaciuto e al contrario di molti di voi, né nello stile, né nella tecnica, né nella storia, né in qualunque altro aspetto, nonostante i miei sforzi, sono riuscito a trovare qualcosa di piacevole o di sufficiente a giustificarne la lettura. Anzi, a dirla tutta, ho anche fatto una certa fatica a finirlo. In altri termini, questo Giro di Vite mi è risultato piatto, esilissimo, vuoto.

Il problema principale, almeno per me, è la prosa di James, opulenta, disequilibrata, farraginosa, inutilmente lunga. In certi tratti mi ha ricordato addirittura Jane Austen, una lingua vecchia un secolo. Il racconto di James è sì un dialogo di sguardi, un gioco di prospettive, la rappresentazione di una verità impossibile, di una realtà incerta perché fuggevole, ectoplasmica, apparente, una realtà che è puro arbitrio dell’interpretazione, ma il tessuto narrativo, la scelta del non detto, non sanno, a mio avviso, dare forza alle intenzioni, incarnare nel testo quanto di aggrovigliato, pirotecnico, e in un qual senso profondo, la trama potrebbe offrire.
Possiamo discutere di apparizioni, non apparizioni, psicanalisi freudiana, possiamo anche spingerci a definirlo un’allegoria della crescita, degli incubi dell’età adulta, o ancora una banale storia di schizofrenia, ma, e mi perdonerà chi lo ha apprezzato, non serve a niente quando il libro è difficile da leggere. Le ellissi della narrazione, i dialoghi paradossali, la comunicazione accartocciata delle due donne che si vengono a trovare sulla scena, offrono, è vero, uno spaccato dell’incomunicabilità tra le persone, ma il testo non si muove nel senso di una “pragmatica” della comunicazione, ma, in maniera più furba che intelligente, lascia alla sospensione e al lettore il peso della storia. Fatto che per alcuni è un merito di James, un meccanismo perfetto, ma che in realtà fatico a vedere come riuscito: il testo stride in continuazione (e, almeno per me, già alla prima lettura), scricchiola, richiede una fiducia al lettore che sfiora la disattenzione. Credo ci sia una differenza sostanziale tra un’opera aperta, che si completa cioè solo nell’intepretazione che ne dà il lettore o che si moltiplica su piani multipli, e un’opera che gioca invece sull’effetto straniante e a sorpresa del silenzio.

Volendo riassumere, quesi tratti che sembrano essere un valore aggiunto del libro, e che sono per certi versi oggettivi, e che pure riconosco, non riescono a compensare una lettura noiosa, ridondante, quasi indigesta. Probabilmente non sono riuscito a vedere quanto di buono c’è, forse è proprio un gusto non compatibile con il mio. Visto che molti di voi hanno dato giudizi positivi e lo hanno apprezzato, probabilmente mi sfugge qualcosa, ma ho davvero difficoltà ad entrare in sintonia con le pagine.
Detto questo, anche se con questo non è andata, mi fido ancora molto dei libri che consigliate e anzi mi avete fatto scoprire molti buon autori.

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Il giro di vite 2019-02-23 16:40:22 Chiara77
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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    23 Febbraio, 2019
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Inquietanti presenze...

“Il giro di vite” di Henry James rende chiara ed evidente l'idea che un grandissimo scrittore non deve fare tutto: quando scrive deve saper lasciare la metà dell'azione al lettore che leggerà il testo. So che è un'affermazione un po' banale e scontata, dopo che fiumi d'inchiostro di critici letterari hanno scandagliato l'opera in ogni sua parte. Eppure, secondo il mio modesto parere, la grandiosità di James e de “Il giro di vite” sta semplicemente qui: esiste una storia, una narrazione che funziona nel suo significato letterale, ma esistono anche molte altre interpretazioni che ogni semplice lettore può fare leggendo questa storia: saranno giuste? Saranno sbagliate? Chissà. La magia della scrittura si rinnova ogni volta nel pensiero di chi sta leggendo.
Un gruppo di amici sta trascorrendo i giorni delle feste natalizie riunito in una vecchia casa, passando il tempo a raccontarsi storie insolite ed agghiaccianti. Uno fra questi amici, Douglas, ne riporta una che gli era stata regalata dalla stessa protagonista che l'aveva vissuta: un'istitutrice bella ed intelligente. La donna, quando era ancora piuttosto giovane ed inesperta, aveva risposto ad un annuncio di richiesta di lavoro: un gentiluomo molto attraente le aveva chiesto di andare a fare l'istitutrice per due suoi nipoti rimasti orfani, un maschio e una femmina, nell'aperta e solitaria campagna inglese. L'uomo le ricorda che se avesse accettato il posto non avrebbe dovuto disturbarlo con gli eventuali problemi che si sarebbero potuti presentare: avrebbe dovuto assumersi tutta la responsabilità del ruolo accettato senza chiedere più il suo aiuto. La giovane istitutrice, un po' turbata per la strana richiesta, accetta e si reca nella tenuta di campagna, a Bly.
Appena arrivata conosce la piccola Flora, una bambina deliziosa ed apparentemente perfetta; tutto sembra andare bene ma una strana e sinistra inquietudine si impadronisce dall'istitutrice e voce narrante del racconto. Intanto il fratello di Flora, Miles, arriva preceduto da una strana lettera nella quale si spiega che il bambino è stato espulso dalla scuola, senza fornire spiegazioni dettagliate sull'accaduto. Ma come è possibile? Sembra così virtuoso e gentile!
Mentre trascorrono i giorni in questa irreale perfezione che nasconde sinistri presagi, l'istitutrice, una sera, passeggiando e sognando di rivedere il bel gentiluomo zio dei suoi protetti, ha una visione tremenda e scioccante. Vede un uomo, certamente non quello che avrebbe voluto vedere, che la sta fissando con insistenza. La narratrice è sconvolta dalla paura: chi è quell'uomo? E' un essere vivo oppure no? E che cosa vuole dal piccolo Miles? Ma le strane apparizioni non sono finite qui ed interesseranno anche la sorellina, Flora. I bambini sono in pericolo? Chi è che vuole fare loro del male? Degli esseri ormai morti che vogliono corrompere le loro anime? E l'istitutrice riuscirà a proteggerli e a salvarli?
Preferisco fermarmi qui e non rivelare tutta la trama del romanzo, nel caso ci fosse qualcuno che ancora non lo ha letto. Infatti è sicuramente un testo che si presta a più interpretazioni ma può essere inizialmente gustato come un racconto di fantasmi. Durante e dopo la lettura affioreranno i dubbi, le perplessità, le differenti spiegazioni: chiuso il libro, continuerete a pensarci per un bel po'.
Buona lettura.

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Il giro di vite 2019-01-09 13:45:05 Valerio91
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    09 Gennaio, 2019
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L'importanza dello stile

"Giro di vite" è sicuramente un romanzo particolare, il cui valore è aumentato notevolmente dallo stile di Henry James. L'autore ha tra i suoi pregi principali le descrizioni precise degli ambienti, che quasi bucano le pagine, e una capacità fuori dal comune di suscitare dubbi e sospetti, permettendo al lettore di sentirsi parte del racconto. Devo tuttavia dire che questa storia non mi ha esaltato: credo che se non fosse per la maestria dell'autore nel rendere viva la sua ambientazione e nel risvegliare le emozioni facendoci immaginare quel contesto cupo, mi sarei ritrovato a leggere un racconto più che normale.
Dunque non è stato "Giro di vite" a fare la fortuna di Henry James, bensì Henry James a fare la fortuna di questo libro.
Una cosa che tuttavia non ho capito molto è l'introduzione: che senso ha presentarci quel conciliabolo di persone a cui viene raccontata la storia, se poi quando questa inizia il narratore è la nostra protagonista in prima persona? Avrebbe avuto senso se, con qualche intermezzo, ci venissero presentati i pensieri degli ascoltatori, o quantomeno un epilogo che ci illustrasse le loro reazioni finali; invece li abbandoniamo fin dal principio e nella storia non trovano la benché minima utilità narrativa. Mi è parsa una cosa piuttosto strana.
Non mi linciate, si tratta sempre e comunque di una mia personalissima opinione totalmente confutabile.

Un uomo molto ricco si ritrova improvvisamente tutore di due ragazzini: Miles e Flora, figli del suo defunto fratello. Essendo un uomo molto impegnato, tuttavia, non può (e non vuole) star dietro ai due pargoli; perciò assume una giovane donna che gli faccia da istitutrice. L'uomo le offre uno stipendio più che generoso, ma le impone un'inviolabile condizione: non dovrà disturbarlo o contattarlo per nessun motivo, per quanto grave possa essere la situazione. (Piccola parentesi: questa mi è parsa una grossa forzatura).
L'istitutrice sarà la nostra narratrice e protagonista in prima persona degli strani eventi che si susseguiranno nella casa di campagna in cui vivrà insieme ai bambini e alla servitù.
Le stranezze si presentano fin dal principio, con l'arrivo di una lettera dal collegio di Miles: il ragazzino è stato espulso per cattiva condotta, seppur non vengano specificati i motivi precisi che hanno portato a questa drastica decisione. Avendo avuto modo di conoscere Miles e sua sorella, l'istitutrice non riesce a spiegarsi come un ragazzino dall'aria così educata, quasi angelica, possa aver fatto qualcosa di così grave da meritarsi l'espulsione.
Tuttavia, questa sarà soltanto la più futile delle stranezze che si troverà di fronte durante il suo impiego in quella casa.

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Il giro di vite 2015-09-24 15:34:57 Mario Inisi
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    24 Settembre, 2015
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Sesto senso

Una giovane istitutrice viene assunta per prendersi cura di due orfanelli: una bambina di 8 anni e un ragazzino poco più grande. I bambini sono adorabili ma l’istitutrice ha il cosiddetto sesto senso cioè vede aggirarsi attorno alla dimora di campagna i fantasmi di due persone defunte che hanno lavorato l’anno prima per quella stessa famiglia. La descrizione delle due persone, fatta a una donna a servizio che da anni lavora per la famiglia, è perfetta per cui dobbiamo pensare che la ragazza non si inventi nulla e che in effetti veda i due defunti. La ragazza dice anche che hanno cattive intenzione, lo sente; e sente che il loro interesse è per i bambini e che li deve proteggere. Detto questo, il racconto è preso come esempio letterario di narratore inaffidabile. Non ho capito perché. Io credo che la narratrice, cioè l’istitutrice sia affidabile come narratrice ma pessima nel suo ruolo di istitutrice. La cosa patologica non è che veda i due fantasmi ma i pensieri ossessivi che da lì prendono il loro corso per cui lei inizia a sospettare che anche i bambini vedano e che vedano più di lei in una escalation di sospetti che avrà conseguenze negative per la salute di entrambi i bambini. I dialoghi con i bambini sono belli nella loro ambiguità: nel dialogo si dicono cose cui istitutrice e bambino danno un significato diverso per cui il loro dialogo sembra tra sordi. E comunque la razionalità della governante e il suo affetto per i bambini non possono nulla contra le forze occulte del male. Nel dialogo è interessante quello che il bambino lascia capire e che la istitutrice sembra non cogliere: il desiderio di attenzione da parte dello zio e una richiesta di aiuto per problemi comportamentali derivati forse da qualche trauma. Ma a questo si allude e non se ne parla.
Interessante il fatto che la istitutrice nella sua razionalità ha un comportamento irrazionale cioè aspetta finchè non è tardi per chiedere aiuto allo zio dei ragazzi.

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E.A. Poe
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Il giro di vite 2015-03-07 17:48:21 Vita93
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    07 Marzo, 2015
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Giro di sospetti

“Il giro di vite” è un romanzo difficile da recensire.
Fornire troppi dettagli ed impressioni significherebbe adottare un punto di vista sull'opera e sul finale. Un atteggiamento pericoloso che si discosterebbe dalla concezione di un libro volutamente aperto a più congetture, e che rischierebbe di rovinare la sorpresa a coloro che non si sono ancora cimentati in questa lettura.
Ambiguo ed affascinante, "Il giro di vite" è uno dei romanzi più discussi di tutti i tempi.
Appartenente al genere narrativo della "gothic novel", ne rispetta i canoni tradizionali con una storia densa di elementi misteriosi ed un'ambientazione isolata, con pochi personaggi.

Il romanzo inizia con le parole di una donna che fa parte di un gruppo di appassionati di storie dell'orrore, racconti spettrali.
Un membro della compagnia, Mr Douglas, afferma di poter raccontare una storia straordinaria, ovvero la lettura di un diario di una giovane istitutrice contenente fatti avvenuti tanti anni prima.
La giovane istitutrice, Miss Giddens, aveva accettato il curioso incarico affidatole da un uomo d'affari residente a Londra: occuparsi dei suoi nipoti Flora e Miles, di otto e dieci anni, in una tenuta nella località di Bly.
L'incarico presentava un solo divieto: l’istitutrice doveva farsi carico di ogni responsabilità e non disturbarlo mai.
Aiutata dalla governante Grose e incantata dai modi di fare educati dei bambini, l'incarico di Miss Giddens si tinge di mistero quando la protagonista viene colpita dalle apparizioni di un uomo e di una donna.

Il romanzo presenta due caratteristiche che simboleggiano il senso di incertezza che permane durante la lettura.
Per prima cosa, manca un personaggio esterno alla vicenda che si erge a risolutore dell’intreccio. Il classico investigatore presente in ogni giallo.
Secondo punto cruciale della storia, il narratore. "Il giro di vite" non è altro che la lettura del diario dell'istitutrice, che quindi già rielabora esperienze direttamente vissute, ad opera di Mr Douglas, il tutto riportato da un'ascoltatrice.
Abbiamo quindi tre differenti narratori, con il conseguente dilemma se la storia che ci viene narrata presenti qualche carenza dovuta alle numerose rielaborazioni che potrebbero essere occorse dai fatti originari fino al resoconto della donna che introduce la vicenda.

Carenze che alimentano dubbi, risultato cercato e catturato da Henry James, abile autore statunitense capace di confezionare un profondo racconto gotico giustamente passato alla storia per i contorni piscologici, sfuggenti ed inquietanti.

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Il giro di vite 2015-02-18 16:18:32 viducoli
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viducoli Opinione inserita da viducoli    18 Febbraio, 2015
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L’inaudita ambiguità di un racconto meraviglioso

Il giro di vite è senza dubbio il racconto più noto di James, anche perché ne sono state tratte numerose versioni per il cinema e per la televisione. E’ anche una delle opere di questo autore in cui la sua peculiare capacità di affidare a ciò che non scrive, a ciò che non dice, l’essenza delle sue storie, raggiunge una delle massime vette.
James è il maestro del non detto, dell’ambiguità della scrittura, anche nei grandi romanzi della maturità in cui pure si dilunga in pagine di descrizioni su ciò che provano e pensano i suoi personaggi: questo celebre racconto lungo (o romanzo breve) gli permette – anche grazie all’ambientazione gotica – di sperimentare sino alle estreme conseguenze una modalità di comunicazione con il lettore che lascia aperte tutte le porte e tutti i livelli dell’interpretazione, compresi quelli attinenti la storia in sé. Cerco di spiegarmi. Solitamente, leggendo un’opera letteraria, si “accetta” la storia, la trama, come un dato di fatto, e si cerca di comprendere se essa sottenda simboli, metafore, rimandi ad elementi di carattere autobiografico, sociale, politico, psicologico o altro: se l’autore, attraverso quella storia, abbia voluto dirci qualcosa su di sé, sulle sue emozioni, sul mondo in cui vive.
L’elemento spiazzante de Il giro di vite risiede secondo me nel fatto che la storia stessa non è affatto univocamente interpretabile, ragion per cui i livelli interpretativi – per così dire – aumentano in misura esponenziale.
La trama del racconto è nota: una giovane istitutrice viene assunta per istruire, in una villa della campagna inglese, due bambini – Miles e Flora – orfani ed angelici. Dopo pochi giorni ella comincia a vedere due strane e silenziose figure, che scopre essere il domestico e la precedente istitutrice, entrambi morti misteriosamente poco tempo prima e che erano amanti. La protagonista si convince che i due fantasmi mirano a portar via i bambini e inizia una drammatica lotta per sottrarli al loro influsso.
Il dilemma centrale – riscontrabile nelle varie trasposizioni e anche in alcune recensioni dei lettori in rete – attorno al quale parrebbe ruotare l’interpretazione della vicenda è se i fantasmi visti dall’istitutrice esistano davvero o siano un parto della sua fantasia, delle sue frustrazioni esistenziali. James ovviamente non ce lo dice, e dissemina lungo il racconto indizi a favore sia di una tesi sia dell’altra. Sono molte altre le cose che non dice: ad esempio come siano morti i due “fantasmi”, cosa abbiano combinato per essere ricordati come malvagi, perché il piccolo Miles sia stato espulso dal collegio. Ne esce, come detto, una storia che lascia al lettore la possibilità di costruirsi un quadro personale, e credo che questo – a dispetto di chi lo ritiene un limite – sia una delle caratteristiche che fanno di questo racconto un capolavoro assoluto, un testo precursore della letteratura novecentesca e del suo rapporto con la psicologia e la psicanalisi.
Secondo me James era perfettamente consapevole di avere scritto qualcosa di inusitato per l’epoca, e la scelta del titolo ne è la prova. Nel testo il titolo viene spiegato dal fatto che la storia viene narrata – durante una serata tra amici – dopo una storia di fantasmi che coinvolgeva un solo bambino. Il giro di vite starebbe quindi nel maggior grado di terrore che questa storia, coinvolgendo due bambini ed essendo ambientata in una campagna idilliaca, farebbe provare all’uditore. Azzardo una ipotesi più nascosta: che l’autore si riferisca al giro di vite dato alla sua narrativa, nel momento in cui mette in scena una storia di una inaudita ambiguità.
Avendo detto che il racconto può dar luogo a 2^n interpretazioni (dove 2 sono i livelli – trama e contenuto – e n le possibilità interpretative) non mi sottraggo al piacere di fornire la mia personale interpretazione, pur nella consapevolezza che sfocerà nel mare delle banalità in cui confluiscono la maggior parte dei torrenti scaturiti dalla mente dei critici improvvisati (e spesso anche da quelle dei critici di professione).
A mio avviso chiedersi se i fantasmi esistono, se sono generati dalla fantasia dei bambini, da quella dell’istitutrice o dai fatti precedenti la storia narrata è un falso problema.
I fantasmi, a mio avviso, sono chiaramente un simbolo, e rappresentano la vita cui i due bambini stanno andando incontro, che inevitabilmente li attira, e di cui chi li ama ha paura. L’istitutrice indubitabilmente idealizza i due piccoli protagonisti, li vede sotto una luce angelica, e non può accettare che essi siano bambini in carne ed ossa, con le loro piccole contraddizioni destinate ad aumentare man mano che cresceranno. Lo testimonia il fatto che Miles – il vero protagonista della storia, il bambino che ormai si sta facendo ragazzo – sia stato scacciato dal collegio per alcune (non riportate nel racconto) frasi (sconce?) dette ai compagni, e che sino all’ultima pagina l’istitutrice cerchi di capire la causa di tale allontanamento, rifiutando la possibilità che Miles sia davvero colpevole. I fantasmi sono quindi la vita adulta, nella quale la componente erotica ha una capitale importanza: essi erano amanti, e il reclamare il possesso dei piccoli (azione peraltro solo immaginata dall’istitutrice, visto che i fantasmi si limitano a guardar tacendo) ha un significato direi palese.
Nel finale James ci vuole forse dire che l’ingresso nella vita adulta non può avvenire se non tramite il violento distacco dall’innocenza dell’infanzia, che per diventare grandi è necessario uccidere il bambino che era in noi. Forse, facendo un ulteriore passo, si può intendere tutta la storia come una critica di James alle convenzioni sociali e soprattutto morali dell’Inghilterra vittoriana. L’istitutrice, personificazione dell’autorità incaricata di instradare i bimbi verso una corretta morale, non può accettare che essi siano venuti in contatto con una diversa visione della vita, con un’altra prospettiva ritenuta moralmente inaccettabile. Schiava delle convenzioni, combatte questi fantasmi sacrificando a questa lotta la vita stessa di Miles.
Tante cose vi sarebbero ancora da dire, ad esempio sulla tecnica narrativa di James: l’edizione Garzanti che ho letto riporta una splendida introduzione di Franco Cordelli, che consiglio vivamente a chi volesse approfondire la conoscenza di questo meraviglioso, enigmatico racconto.

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Il giro di vite 2015-01-07 14:38:25 siti
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siti Opinione inserita da siti    07 Gennaio, 2015
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Sospetti

Ho sospettato di tutto e di tutti, me compresa. Non vorrai mica credere ad una storia di fantasmi? Ridicolo, sono portata ad apprezzare altro, sicuramente non questo genere.
E invece...arrovellata, persa, sbattuta, presa in giro e infine affascinata da questo gioiellino. La mente ha vagato spinta dal sospetto che si è insinuato.
Uno zio poco amabile affida, noncurante, i nipoti orfani all’ennesima istitutrice: perfetto! È affascinante, misterioso e assente: perfetto!
Una presenza fissa, vecchia governante, ingenua e sempliciotta ma detentrice di tanti segreti e portatrice di tante allusioni: perfetta! È il classico elemento deviante: perfetto!
Presenze misteriose, già date per morte, si materializzano apparendo con la loro influenza passata e presente: non possono essere semplici fantasmi! Ci lavoro su parecchio, con la fantasia.
Un’istitutrice giovane e apparentemente sprovveduta che, in un crescendo entusiasmante, pur non essendo finemente caratterizzata, parla in prima persona di sé, del suo lavoro, della sua esperienza in un manoscritto che viene presentato in un’ammaliante cornice iniziale. Si trasforma, la ragazza di campagna, man mano diventa da abile osservatrice padrona di tutta la scena: i miei sospetti ora cadono su di lei. Giro pagina e un episodio mi fa cambiare nuovamente idea, un incontro, un’apparizione, una sparizione, un non detto, un già sentito...turbine: giro come una trottola.
Abile James.
E poi loro, i due bambini, un maschio e una femmina. Vivono in una casa di campagna, il loro destino è quello dell’abbandono o della perdita; hanno perso i genitori, chi si occupava di loro prima, Miles, il maschietto, anche il contatto con l’esterno. La scuola che frequenta lo rispedisce al mittente: nessuna spiegazione...perfetto! Volgi lo sguardo anche lì. I bambini sono rappresentati angelici, ineccepibili, solidali, fuorvianti, subdoli: vittime o carnefici? Il dubbio lavora peggio di un tarlo.
E la prosa? Mi ingarbuglia, mi rimanda al detto, al pensato, al sospettato, al già so ma lo saprai dopo, anche tu. Mai chiara, sempre allusiva, sempre misteriosa, sempre da dipanare.
Un piacevole tormento.
Insomma un racconto scritto ad uso e consumo immediato, pubblicato a puntate e fonte di facile guadagno ma che arriva, consapevole l’autore, alle alte vette del genere, volutamente.
Interpretato in vari modi, ne consiglio semplicemente il godimento.

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