Il giardino dei ciliegi
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La fine di un'epoca
Secondo tentativo che faccio, a breve distanza dal primo, con il teatro di Anton Cechov (1860-1904), ma anche stavolta non sono stata catturata pienamente dallo stile di questo grande nome della letteratura russa, cosa che mi dispiace molto poiché era da tanto che desideravo leggere “Il giardino dei ciliegi”.
Dopo aver letto questo e, ancor prima, “Tre sorelle”, posso dire di trovare la scrittura di Cechov chiassosa e dispersiva, affollata assai spesso di personaggi che – per lo meno ai miei occhi – tendono a confondersi. E tra i personaggi, appunto, non ne ho visti di memorabili al pari di quelli creati da altri autori che, dal teatro antico a quello contemporaneo, passando attraverso quello del mitico Goldoni, ho amato parecchio.
Tuttavia, dei quattro atti di cui si compone “Il giardino dei ciliegi” ho apprezzato alcune scene, tra cui in particolare quella finale nella quale il cameriere ultraottantenne Firs, ormai malato, si ritrova solo in casa, dopo che tutti sono partiti per sempre, mentre le scuri iniziano ad abbattersi senza pietà sugli alberi del giardino; ed è costui a pronunciare un’amara considerazione, del tutto condivisibile, che sembra rammentare il nostro dramma di esseri umani: “La vita è passata, e io… è come se non l’avessi vissuta.”
Rappresentata per la prima volta, a Mosca, all’inizio del 1904 (lo stesso anno in cui morì l’autore), l’opera pone al centro della rappresentazione i cambiamenti sociali dell’epoca, con la decadenza di classi un tempo agiate e l’avanzare di quelle che si sono arricchite di recente (impersonate, rispettivamente, da Liubòv Andriéievna con i familiari e il commerciante Lopachin) e ora possono acquistare addirittura grandi proprietà, finite all’asta per debiti, dove gli antenati erano stati schiavi. Insomma, un mondo che finisce per sempre, mentre il nuovo inesorabilmente avanza, preludio dei grandi stravolgimenti che si verificheranno con la rivoluzione anni dopo.
Indicazioni utili
Una commedia?
Liubov Andreieivna Ranievskaia torna in Russia con sua figlia Ania, dopo aver soggiornato per un lungo periodo a Parigi.
Ritorna nella sua casa natale, ritrova, in una danza di emozioni crescenti, le stanze dove ha trascorso la sua infanzia e soprattutto rivede il meraviglioso e immenso giardino dei ciliegi che circonda la proprietà.
Liuba, che cela nel suo nome l’etimologia della parola “amore”, non ha avuto una vita semplice. Viene definita dal suo stesso fratello come una donna poco seria; e questo perché non si è mai concretamente interessata alle questioni materiali ma si è come dispersa alla ricerca di quella felicità che può portare solo l’amore.
“ Liuba: Oh, i miei peccati… Io ho sempre buttato via i soldi senza ritegno, e ho sposato un uomo che non sapeva far altro che debiti. Mio marito è morto di champagne – beveva da far paura – e per mia disgrazia mi sono innamorata di un altro, ho ceduto, e proprio in quel preciso momento – e questo è stato il mio primo castigo, una mazzata in testa – ecco che lì nel fiume… si è annegato il mio bambino, e io me ne sono andata all’estero, andata via proprio per non tornare più, non vedere più quel fiume… Ho chiuso gli occhi, sono fuggita, come un’indemoniata, e lui dietro… spietato, brutale. […]”
Liuba e il fratello Gaiev fanno parte del ceto dei ricchi possidenti russi, siamo nei primissimi anni del Novecento, la servitù della gleba è stata abolita nel 1861.
Cechov rappresenta questi proprietari terrieri come una classe sociale sulla via della decadenza, Liuba non ha assolutamente la capacità di far fronte in qualche modo alle difficoltà economiche che le si presentano davanti. E’ solo in grado di crogiolarsi in sentimenti di dolce nostalgia, in sogni effimeri, in poetici voli dell’immaginazione. Ritiene volgare e gretto doversi preoccupare di problemi economici. Sarà Lopachin, un servo che è stato capace di emanciparsi che invece approfitterà della situazione e trarrà vantaggio dall’inconcludenza di quelli erano stati i suoi ricchi signori.
Un personaggio che sicuramente getta luce interpretativa sull’intera opera è Firs, l’anziano servitore della famiglia, colui che ha accudito Liuba e Gaiev fin da quando erano bambini e che, incredibilmente, viene dimenticato nella casa ormai vuota dai suoi padroni che se ne vanno via. Mentre si sente l’inquietante rumore della scure che abbatte uno dopo l’altro gli alberi del giardino dei ciliegi, a Firs non rimane che esclamare con triste meraviglia: “Chiuso. Partiti… Di me si son dimenticati… Non importa… io mi siedo qui… E vuoi vedere che sua signoria non ha neanche messo su la pelliccia, è partito col soprabito… Io non ci ho pensato… Gioventù scriteriata! La vita è passata, e io è come se non l’ho vissuta.[…]”
Nel teatro di Cechov è difficile dare una definizione univoca e precisa delle sue opere ed “Il giardino dei ciliegi” non fa eccezione: si tratta davvero di una commedia?
In realtà leggendo o vedendo rappresentata questa pièce dobbiamo considerare che la ricerca del nostro autore consisteva essenzialmente nel meravigliarsi del quotidiano e cercare di rappresentarlo nelle sue opere. Ecco perché il teatro di Cechov è caratterizzato da una trama quasi evanescente, dalla quale emerge, più che forte comicità o tragicità, quel senso di malinconica e poetica ineluttabilità che spesso è proprio della vita reale.