Il castello
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L'irraggiungibile verità
Ho trovato molto impegnativa la lettura di quest'opera di Kafka, tuttavia la lettura di alcuni capitoli ha prodotto dentro di me le stesse sensazioni di quello che considero il vero capolavoro di Kafka, ovvero "Il Processo". In questi capitoli vengono trasmessi al lettore i brani di intere conversazioni della nostra quotidianità, dove le continue "tesi" messe in atto dai personaggi diventano prima plausibili, poi inaccettabili, poi nuovamente plausibili. La prosa, pur essendo notevolissima, risulta spesso appesantita a causa dei lunghi periodi e delle complicate riflessioni dei protagonisti. Rimane un'opera densa di significati, corposa e molto strutturata dove, attraverso l'atmosfera livida del villaggio e di un castello, anche metaforico, irraggiungibile per il protagonista, si producono le tematiche care all'autore, quali il senso di angoscia del vivere quotidiano, la mancanza di chiarezza nei rapporti umani, la ricerca della verità e della giustizia, la lotta e l'accanimento per raggiungere uno scopo, il senso vanificato delle proprie azioni prodotto dai comportamenti dell'uomo coinvolto nei meccanismi della burocrazia ma, si vorrebbe dire, dell'uomo coinvolto nei rapporti con l'uomo e con le sue limitatezze. Un romanzo che merita senza dubbio un'attenta rilettura, per cogliere con maggiore chiarezza il senso ineludibile delle angosce tipiche del nostro vivere.
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Anelito alla verità
Kafka non si smentisce mai, e soprattutto in alcune delle sue opere emerge il suo punto di vista estremamente surreale sulla realtà, che per quanto mi riguarda è un elemento piuttosto determinante nell'apprezzamento dei suoi lavori da parte del lettore. I racconti brevi sono forse, da questo punto di vista, le opere più emblematiche, ma anche "Il Castello" ne è un esempio lampante.
Anche qui, come ne "Il processo" e ne "La metamorfosi" ci troviamo di fronte a un intreccio surreale che ha come protagonista K., un uomo che si ritrova presso un villaggio al centro del quale si trova il Castello, edificazione la cui assenza di grazia estetica (non aspettatevi infatti il Castello di Praga) è probabilmente riflesso dell'influenza ossessiva che esso esercita sulla vita e sulla psiche degli abitanti del villaggio. Il Castello infatti è dimora della fervida attività politica e amministrativa del luogo, un'attività di cui tuttavia non verremo a sapere nulla se non tramite racconti di terzi. Il Castello e i suoi appartenenti sono entità percepite come quasi divine, irraggiungibili, parte di un ingranaggio perfetto il cui effettivo compito, tuttavia, non è chiaro.
E' proprio su questo paradosso che girano il romanzo e le conseguenti domande del lettore: cosa determina questa venerazione nei confronti del Castello e delle sue figure eminenti? Non è per niente chiaro e non è detto che Kafka volesse esserlo, anzi, è come se la considerazione ossessiva e la fama del Castello e dei suoi appartenenti, in particolare Klamm, venga alimentata dall'ossessione stessa che gli abitanti hanno per esso, e da questa ossessione viene presto contagiato anche lo stesso K. All'inizio del racconto, prima di entrare nelle dinamiche malate di questo villaggio, K. sembra condividere un po' le perplessità dello stesso lettore, ma non ci vorrà molto prima che questa realtà lo coinvolga e lo porti a comportarsi così come fanno gli altri abitanti del villaggio, con questo desiderio spasmodico di ottenere un contatto col Castello, la cui desiderabilità resta sempre un mistero per il lettore. L'amministrazione tanto osannata è infatti di una farraginosità spaventosa che viene tuttavia paradossalmente esaltata, che tiene impegnato un numero di persone che appare spropositato ma la cui mole non può essere accertata perché di questo meccanismo non vedremo nemmeno la superficie, ma solo i racconti di quei pochi che hanno avuto "l'onore" di varcare le soglie di quest'entità quasi soprannaturale. K. passerà tutto il tempo della narrazione a cercare di aprirsi una strada verso di essa, di effettuare una scalata della quale faremo tuttavia fatica a capire le motivazioni.
Non negherò che questa ricerca ossessiva da parte di K., la profusione di dettagli e la ripetizione ossessiva di concetti in certi momenti diventa pesante, sebbene questo tipo di narrazione è chiaro abbia l'intento di creare un'atmosfera e una vicenda, ovviamente, kafkiane.
Il manoscritto non è completo, e difatti si interrompe bruscamente nel bel mezzo di un periodo, ma sembra che nell'intento dell'autore gli sforzi perpetrati da K. siano destinati a sfinirlo fino a portarlo alla morte, senza aver conseguito alcun tipo di risultato. Altro elemento centrale di questo romanzo, infatti, è la vanità degli sforzi umani volti al miglioramento della propria posizione; l'anelito continuo a una realtà superiore ma che in realtà è solo edulcorata, immeritatamente esaltata, che rende frustrati con la propria irraggiungibilità e, nei rari casi in cui venga raggiunta, comunque non garantisce realizzazione e soddisfazione.
La pluralità d'interpretazione dell'opera kafkiana si conferma anche in questo romanzo, che tuttavia non è di facile lettura e in certi momenti mette a dura prova il lettore col proprio surrealismo, con la propria cripticità e con la profusione di dettagli e ripetizioni. Beh, ora sapete a cosa andate incontro ma parlando di Kafka, probabilmente lo sapevate già.
"[...] si vedeva soltanto il suo sorriso, ma non giovava a nulla, come le stelle lassù in cielo non giovano contro la bufera che infuria quaggiù."
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Agonia parte seconda
Agonia parte prima: l'America
Agonia parte seconda: il Castello
Agonia parte terza: il Processo
Il Castello, con la C maiuscola, poichè non dovete immaginare un placido castello sopra una collina, bensì un vero è proprio regno dotato di vita propria, di proprie leggi e soprattutto di una predilezione a sottomettere e far impazzire i propri sudditi.
Come sempre il buon Kafka decide che per il lettore deve essere una lenta agonia trovarsi al cospetto dei propri scritti.
Essendo egli un genio della letteratura riesce talmente tanto a far immedesimare chi legge i suoi romanzi con il proprio protagonista principale (come sempre con la K iniziale e spesso solo con questa lettera) che alla fine della lettura ci si sente proprio esausti, come se fossi davanti a una lenta e inesorabile agonia.
In questo romanzo, che per altro, è molto voluminoso, come le altre due agonie, il povero K, viandante si ritrova per sua enorme sventura in un villaggio, dal qual troneggia inaccessibile un Castello.
Il nostro eroe per una serie di sfortunatissime circostanze si troverà a dover fronteggiare il potere assoluto e autarchico di chi abita in quel castello.
Chiaro atto di accusa dello scrittore contro la ottusa, vergognosa e senza animo oppressione che il potere esercita contro i suoi sottoposti e sui cittadini.
L'agonia è lenta, implacabile, senza speranza. Come negli altri due romanzi citati, sin dalla prima pagina si entra in una dimensione da incubo, che poi sfocerà appunto nei disastri finali.
Io credo che il caro Kafka avesse degli incubi ricorrenti, una visione pessimistica e senza speranza che lo ha portato a scrivere, si dei capolavori, ma anche dei mattoni micidiali di angoscia e disperazione che si trasmettono inevitabilmente nel lettore.
Utilizza una tecnica, ben cara anche ai russi dell'ottocento, la descrizione minuziosa, dettagliata, precisa, sia del pensiero dei vari personaggi, sia dei luoghi in cui l'azione volge.
In questa maniera, ci si trova catapultati nella dimensione dello svolgimento dell'azione.
Si ha come la sensazione di essere proprio dentro al romanzo, fianco a fianco con i vari personaggi della storia.
Va da se, che se la trama è tragica e senza speranza, si provocherà un senso di angoscia e frustrazione che ci accompagnerà per tutta l'opera.
Quindi se avete un momento di malinconia, sconforto, depressione oppure vi è morto il canarino, ecco io eviterei questo romanzo.
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l'America
L'INAFFERRABILITA' DEL DIVINO
Il tema del sofferto adeguamento dell’essere umano alle incomprensibili leggi divine, che già era il fulcro tematico de “Il processo”, è trattato in maniera ancora più penetrante ne “Il Castello”. Questo romanzo è una compiuta evoluzione non solo del “Processo” ma anche del breve racconto kafkiano “Durante la costruzione della muraglia cinese”. Rispetto alla “Muraglia cinese”, “Il Castello” rappresenta lo sviluppo coerente della cosmogonia in essa accennata. Laddove al centro dell’universo descritto nel racconto c’è l’Imperatore, circondato da innumerevoli stanze e cortili e palazzi, ai quali fanno seguito la capitale “piena colma della sua feccia” e lo sterminato impero cinese, ai confini del quale la purissima luce imperiale non riesce a fare arrivare neppure un fioco bagliore, al centro della struttura del mondo del romanzo c’è, arroccato sulla collina, Il Castello del Conte West-West, attorniato dalle case del villaggio, verso le quali irradia i suoi riflessi divini, e da un immenso, desolato deserto di neve. La somiglianza, come si vede, è impressionante e non certo casuale. Della vicenda di Josef K. “Il Castello” è invece, per così dire, il logico e necessario completamento. Se nel “Processo” la grande avventura “religiosa” del procuratore veniva brutalmente interrotta dalla sua morte, nel “Castello” Kafka sembra voler riannodare le fila del discorso per spostare le proprie conclusioni un poco più avanti. Per farlo, egli sceglie di sviluppare la vicenda dell’agrimensore K. su un piano eminentemente metafisico, con lo scopo di trasformare più facilmente i valori immediati della esile trama in cifre e simboli del destino.
Nel “Castello” viene affrontato in primo luogo il problema dell’inadeguatezza del razionalismo umano ad affrontare quel fenomeno tipicamente irrazionale che è la fede. Anzi, “Il Castello” può essere senza mezzi termini definito, pur tenendo conto della sua sorprendente poliedricità, un romanzo sulla fede. La fede è sviscerata da Kafka in tutte le sue possibili sfumature, con l’ausilio dei numerosi personaggi che popolano la storia, ognuno dei quali rappresenta un diverso modo di rapportarsi a Dio. La fede è per Kafka un sentimento problematico e sofferto: essa non corrisponde mai a qualcosa di reale od oggettivo, non garantisce neppure un rapporto con il suo oggetto, ma è una adesione totale e senza riserve a qualcosa di incomprensibile. Viene subito in mente, a questo proposito, il capolavoro di Søren Kierkegaard, “Timore e tremore”, al quale Kafka si è senza dubbio ispirato per rappresentare l’enigmaticità del divino, che l’uomo deve accettare anche quando ciò comporta il sacrificio delle più elementari norme etiche. Come Abramo, che in nome di un mostruoso decreto celeste accetta di immolare il figlio Isacco, così gli abitanti del villaggio si piegano a tutte le arbitrarie decisioni del Castello, sforzandosi di sentirle come necessarie e provvidenziali. Questa fede, lo si capisce subito, non è apportatrice di felicità: l’atmosfera del villaggio è infatti tetra e malinconica, e la disperazione con cui i suoi abitanti attendono che un messaggio qualsiasi giunga dal Castello o la feroce caparbietà con la quale essi si tengono avvinghiati al loro credo riflettono ad ogni istante questa sensazione.
Quando K., giunto in paese come un viaggiatore solitario, riceve dal messaggero Barnabas la prima comunicazione del funzionario Klamm, egli si trova di fronte ad un’alternativa angosciosa: accettare passivamente e acriticamente la legge del Castello, senza avere la certezza immediata di esservi un giorno ammesso, o cercare di raggiungere il Castello con le proprie forze, cioè razionalmente. K. sceglie la seconda strada, ben sapendo che la sua decisione sarà giudicata sia dal Castello sia dai membri del villaggio come un atto di aperta ribellione nei confronti di un comandamento ritenuto inviolabile. Per poter sostenere questo sforzo, che è poi una inesausta e mortificante coazione a ripetere ciò che fino ad allora si è dimostrato vano, K. è costretto a rinunciare a tutte le allettanti profferte della vita, prima fra tutte l’amore di Frieda. Nel descrivere il rapporto tra K. e Frieda, Kafka mette in scena tutti i sentimenti e le ipocrisie, le speranze e le paure, gli slanci e gli egoismi della vita di coppia. K. è un uomo come tanti, un po’ eroe e un po’ vigliacco, ama la sua donna ma capisce, senza del resto riuscire a confessarlo apertamente, che questo amore lo intralcia nel suo tentativo di stabilire un contatto con il Castello, rappresentato dal misterioso Klamm (“Se egli perseguiva queste speranze, e non poteva essere altrimenti, doveva concentrare su di esse tutte le forze, non più curarsi d’altro, né del cibo né dell’alloggio, né delle autorità del paese e neppure di Frieda”). Non solo, Kafka avanza addirittura l’ipotesi che K., nel momento in cui ha deciso di sedurre Frieda, sia stato più o meno consciamente affascinato dal fatto che ella era l’amante ufficiale di Klamm e dall’idea che fosse possibile usarla come un ostaggio da riscattare solo ad altissimo prezzo. L’acuta sensibilità femminile di Frieda intuisce un simile calcolo e, in un momento di sconforto, lo dichiara a K.: “Tu calcoli tutte le probabilità: purché tu ottenga il prezzo che vuoi, sei pronto a fare qualunque cosa; se Klamm mi vuole mi cederai a lui, se vuole che tu mi scacci mi scaccerai; ma sei anche disposto a far la commedia, se ne vedrai vantaggio fingerai di amarmi”. L’unione tra Frieda e l’agrimensore, che per il secondo è stata soprattutto una sospirata pausa nell’assillo della sua esasperante ricerca, affoga quindi tra le reciproche incomprensioni dei due: Frieda non riesce a capire l’ostinata irreligiosità di K. e K., a sua volta, non è in grado di percepire la grandezza del gesto di Frieda, che ha abbandonato volontariamente Klamm, preferendo alla luce del divino la precarietà dell’amore terreno.
Oltre a perdere Frieda, K. è costretto anche ad inimicarsi la gente del villaggio, la quale considera empio e blasfemo il suo tentativo e irriverente la spavalderia con cui egli nomina il Conte: “«Lei conosce il Conte, naturalmente?». «No» disse il maestro, e fece l’atto di andarsene. Ma K. non si diede per vinto e ripeté la domanda: «Come? Lei non conosce il Conte?». «Come potrei conoscerlo?» disse il maestro piano, e aggiunse forte, in francese: «Abbia riguardo alla presenza di bambini innocenti»”. Dal maestro al calzolaio Brunswick, dal mastro conciatore Lasemann al carrettiere Gerstacker, l’atteggiamento nei confronti di K. è costantemente improntato ad ostilità e ad insofferenza. Ma è l’ostessa Gardena, con i suoi continui e franchi rimproveri, a stigmatizzare maggiormente la sfrontata sicumera di K. Gardena, che è stata vent’anni prima l’amante di Klamm e da questi è stata poi abbandonata senza un cenno di spiegazione, simboleggia, con la sua fedele devozione al Castello, la mistica della distanza e della separazione dal mondo celeste. Ella è una figura patetica e straziante, incapace com’è di dimenticare il doloroso passato, ma di fronte all’atteggiamento miscredente di K. diventa una spietata e violenta accusatrice. La sua calorosa schiettezza di donna di mondo inquadra la situazione dell’agrimensore meglio di qualsiasi pacata analisi razionale. “Come vuoi che lui capisca – dice a Frieda – quello che per noi è tanto naturale, vale a dire che il signor Klamm non gli parlerà mai, che dico «non gli parlerà»? non gli potrà mai parlare. Ascolti, signor agrimensore. Il signor Klamm è un signore del Castello, ciò indica di per sé, lasciando stare le sue attribuzioni, una posizione molto alta. E cos’è invece lei…? Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre fra i piedi, uno che vi procura un mucchio di grattacapi… Io le dico che lei è spaventosamente all’oscuro della situazione, vengono i sudori freddi a chi l’ascolta… Questa sua ignoranza non si può correggere in una volta sola, e forse non si può correggere affatto, ma molte cose andrebbero meglio se lei mi credesse almeno un poco, e tenesse sempre presente la sua insipienza".
L’accettazione del mistero, il rito religioso sono chiaramente insufficienti alla mente umana, eppure costituiscono l’unica possibile salvezza, l’unica via percorribile per accedere all’Assoluto. Si tratta chiaramente di una illusione, ma l’uomo ha assolutamente bisogno di questa illusione per vivere. Nel racconto “Una relazione per un’Accademia”, la scimmia Pietro il Rosso comprendeva, dopo essere stata catturata e rinchiusa in una gabbia, che l’unica via d’uscita non risiedeva nella fuga verso la vera libertà, che era diventata impossibile, ma nella creazione di un simulacro di libertà: “No, non volevo la libertà. Soltanto una via d’uscita: a destra, a sinistra, purché fosse; non avevo altre esigenze, anche se la via d’uscita fosse risultata un’illusione”. Così egli sceglieva di soffocare in sé la propria consapevolezza animale, decidendo di diventare un uomo, anche se questa evoluzione appariva nient’altro che una patetica rinuncia. Trattandosi di una fragile illusione, Pietro il Rosso non poteva sopportare alla luce del sole lo sguardo spiritato della scimpanzé con cui si intratteneva la notte, perché quello sguardo era la presa di coscienza della frattura tra la mitica libertà dell’inconscio e l’angusta prigionia del mondo. In maniera non dissimile, gli abitanti del villaggio rifiutano K. perché la sua smania di assoluto minaccia di far saltare il precario e illusorio equilibrio su cui si regge la loro misera vita.
Pur essendo costretto ad assistere impotente alla continua vanificazione dei suoi sforzi e all’accanito diffondersi del malanimo nei suoi confronti, K. non rinuncia a perseguire il suo obiettivo e si adopera in tutti i modi per trovare uno spiraglio, per aprirsi un piccolo varco. Egli è disposto, come si è visto più sopra, ad usare qualsiasi stratagemma gli capiti tra le mani. Avendo scoperto, ad esempio, che il piccolo Hans è figlio della “ragazza del Castello”, una malinconica figura di Madonna incontrata in una capanna di contadini nel corso del suo febbrile girovagare, K. si sforza di conquistare la sua infantile fiducia per riuscire ad avvicinare la madre. Anche questi astuti e maliziosi tentativi con cui K. cerca di penetrare tra le maglie del divino sono però pateticamente votati al fallimento: il Dio del “Castello”, come un vero e proprio deus otiosus, continua a rimanere chiuso nella sua glaciale indifferenza, assente e refrattario a qualsivoglia rivelazione. Eppure, verso la fine del romanzo, il miracolo inaspettatamente accade. Trovatosi solo nella Locanda dei Signori e sfinito dall’insonnia, K. entra per errore nella stanza di un bizzarro ed enigmatico individuo, il segretario Burgel, il quale, svegliatosi di soprassalto, lo invita a fermarsi un poco. Incorreggibile chiacchierone, Burgel inizia a parlare di cose curiose, come delle “occasioni che non concordano con la situazione generale, occasioni nelle quali una parola, uno sguardo, un cenno confidenziale possono ottenere di più che non certi sforzi estenuanti prolungati per tutta la vita”, oppure delle udienze notturne, così invise ai segretari ma altrettanto inevitabili per ragioni di regolamento. In questi dibattimenti notturni, i segretari rivelano una insospettata debolezza: essi perdono la loro facoltà di giudizio, diventano inclini a considerare le cose da un punto di vista più privato e, cadendo completamente in balia delle parti, sono portati ad arrogarsi compiti ben superiori ai loro uffici e ad esaudire le richieste più inaudite. La barriera tra gli uomini e gli dei, che sembrava così sconsolatamente insormontabile, di notte si incrina e vacilla. La Legge si indebolisce, le distanze e le separazioni cadono, Dio ci viene compassionevolmente incontro. Per questi motivi, i segretari cercano di evitare gli interrogatori notturni o di prendere contro di essi delle precauzioni. Ma esiste per gli imputati la possibilità, anche se “nota solamente per sentito dire e mai confermata dai fatti”, di sfruttare la debolezza notturna dei segretari, sorprendendoli nel sonno. Vinto da una irresistibile stanchezza, K. però si assopisce e non ascolta più il soliloquio di Burgel, il quale continua a spiegare che, quando quell’occasione unica si realizza, la parte in causa ritiene ingenuamente di essere entrata nella stanza sbagliata e si lascia sfuggire il momento magico in grado di fargli padroneggiare gli eventi: “Stanca, delusa, inconsiderata e insensibile per sfinitezza e disinganno ritiene di essere penetrata, per chi sa quali motivi indifferenti e casuali, in una stanza che non è quella dove voleva recarsi, sta lì ignara, e i suoi pensieri, se ne ha, s’aggirano intorno al suo errore o alla sua stanchezza. E non si potrebbe lasciarla così? Non lo si può. Con la loquacità di chi è felice, si è sforzati a spiegarle tutto, a descriverle con minuzia e senza nulla tralasciare tutto quel che è avvenuto e per quali ragioni, come l’occasione offerta sia straordinariamente grande e stupenda, come la parte si sia in essa imbattuta con quella spensieratezza che le è propria, ma come ormai, se vuole, essa possa dominare gli eventi, signor agrimensore, e perciò non abbia altro da fare che manifestare i suoi voti, di cui è già pronto, anzi le vola intorno, l’adempimento”. Immerso nel sonno, K. non capisce che Burgel gli sta annunciando la salvezza, che è proprio lui l’agile e sottile pesciolino sgusciato tra le fitte maglie della rete del Castello. Egli non solo non è in grado di sfruttare l’occasione tanto attesa, ma non ha neppure la possibilità di sapere di averla avuta tra le mani: il Cielo lo ha addormentato, facendolo cadere proprio quando potrebbe vincere. Pur ammettendo per la prima volta esplicitamente l’esistenza di una possibilità di realizzare una autentica unione mistica con Dio, Kafka raggiunge in queste pagine una delle sue conclusioni più pessimiste. La situazione dell’agrimensore è identica a quella di Josef K., incapace di decifrare il senso riposto della parabola narratagli dal cappellano, dietro alla quale si nasconde nientedimeno che la sospirata salvezza. Come Tantalo nella leggenda, l’uomo kafkiano si vede sfuggire il lenimento di tutte le sue pene proprio nel momento fatidico il cui è in procinto di possederlo definitivamente. Il senso dell’esistenza è destinato così a rimanere ignoto come un inviolabile segreto, e la morte coglie il procuratore K. e l’agrimensore K. (stando almeno a quanto racconta Max Brod circa il modo in cui Kafka aveva in mente di far terminare “Il Castello”) senza che essi siano riusciti ad acquisire una sia pur minima certezza.
Nella impari sfida che l’uomo lancia a Dio e che Dio accetta con irridente sufficienza, Egli non esita ad avvalersi dei mezzi più infidi e sleali. Spesso e volentieri, infatti, il Cielo si mostra subdolamente conciliante e arrendevole, per non dire addirittura benevolo: nell’episodio della telefonata al Castello, per esempio, a K. che insiste nel voler presentarsi come il vecchio aiutante dell’agrimensore, l’impiegato Oswald non nega soddisfazione e gli risponde, secondandolo con voce profonda e reverente: “Sei il vecchio aiutante”. Oltre a ciò, in un capitolo successivo, K. riceve una lettera dell’ineffabile Klamm, con la quale quest’ultimo si congratula dello zelo dimostrato nei lavori di agrimensura fino ad allora eseguiti: in realtà questi lavori non sono mai stati iniziati, neppure lontanamente. K. intuisce qual è il pericolo di questa situazione all’apparenza favorevole e soddisfacente: “poteva ben accadere, se non stava costantemente in guardia, che un bel giorno, nonostante la cortesia dell’autorità e il totale adempimento di tutti i suoi doveri esageratamente lievi, egli, illuso dal favore che all’apparenza gli si dimostrava, regolasse la sua vita privata con tanta imprudenza da fallire in pieno, così che l’autorità, con la solita dolcezza e cortesia, quasi a malincuore ma in nome di un ordine pubblico a lui ignoto, fosse costretta a toglierlo di mezzo”. L’agrimensore, pur sbagliando nel credere di poter riuscire a controllare gli eventi stando continuamente in guardia, ha capito perfettamente qual è il gioco del suo avversario: l’arrendevolezza iniziale del destino ha il solo fine di blandire l’uomo, illuderlo e poi, una volta indebolite le sue capacità di reazione, schiacciarlo sotto il peso di sofferenze insostenibili. Se anche l’uomo riesce a guadagnarsi una piccola vittoria nella partita contro il destino, si può essere certi che si tratta di una vittoria sterile, di una libertà inutile. Nel “Castello” si trova un episodio molto illuminante a questo riguardo. Una sera K. si reca all’Albergo dei Signori per incontrare Klamm e, venuto a sapere dalla ragazza della mescita che Klamm sarebbe dovuto uscire con la slitta di lì a poco, si intrufola nel cortile interno per coglierlo di sorpresa. Nella lunga attesa, mentre la penombra diventa fitta tenebra, K. trova il modo di penetrare nella slitta del Castello, violando così un rigoroso tabù. Klamm però non esce dalla locanda, la slitta viene fatta rientrare nella stalla e K. rimane completamente solo a contemplare quell’assurdo trionfo: “Certo adesso era più libero che mai, poteva aspettare là nel luogo proibito quanto gli pareva e gli piaceva; si era conquistato la libertà come nessun altro avrebbe saputo, e nessuno aveva il diritto di toccarlo o di scacciarlo e nemmeno di rivolgergli la parola, ma – e questa convinzione era almeno altrettanto forte – nulla era così assurdo, così disperato come quell’indipendenza, quell’attesa, quell’invulnerabilità”.
Il Dio kafkiano non solo è ingannevole e calcolatore, ma è anche beffardo e irridente. Ho già fatto notare come Egli raccolga il guanto di sfida gettatogli da K. con un atteggiamento di canzonatoria indifferenza. Quando poi il Castello invia all’agrimensore i due aiutanti, Artur e Jeremias, capiamo presto che il suo scopo è quello di deridere gli sforzi sovrumani di K. Gli aiutanti sono infatti due burattini da commedia dell’arte, due coboldi in perenne e frenetico movimento, puerilmente importuni e goffamente pedanti. K. se li trova sempre fra i piedi, rannicchiati negli angoli delle stanze nell’atto di sorridergli ironicamente o seduti sul banco della mescita mentre fa l’amore lì sotto. Grazie ad essi, Il Castello trasforma l’epica lotta di K. in una ridicola clownerie. Quando però il Castello inizia a fare sul serio, ecco che gli aiutanti si trasformano e, da buffi pagliacci dall’aria spensieratamente infantile quali erano, diventano implacabili nemici di K., giungendo perfino a rubargli la donna.
Dio è infine indefinibile e inafferrabile. Egli non si rivela mai all’uomo, e questo gli abitanti del villaggio, allenati ad una dura ginnastica di sottomissione e di obbedienza, lo sanno bene, al punto che il desiderio di K. di poter parlare con il Conte pare loro più compassionevole che blasfemo. Quando, nonostante tutto, questa rivelazione sorprendentemente avviene non dobbiamo essere tratti in inganno: Dio può scendere fino all’uomo solo per comunicargli che non può esserci alcuna comunione tra umano e divino, solo per sancire il suo ineluttabile e definitivo distacco. All’uomo è dolorosamente preclusa la via della grazia. Nella migliore delle ipotesi, il suo destino è quello di vivere in un mondo senza Dio, non certo per il motivo che Dio non esiste (raramente Kafka si è abbandonato a una simile suggestione), ma perché Egli è infinitamente lontano, apaticamente rinchiuso nel suo impenetrabile regno e completamente insensibile alle miserie dell’umanità. In uno dei primi capitoli del “Castello”, Frieda, approfittando di un buco nella parete, fa vedere a K. il signor Klamm assiso davanti alla sua scrivania. K. non può sapere ancora che quella a cui ha assistito è una ennesima, fuorviante illusione. In realtà nessuno conosce il vero volto di Klamm. Chi come K. lo ha visto dà di lui una descrizione ogni volta diverso: “quando egli viene in paese ha un aspetto, e un secondo ne ha quando va via, un altro prima di bere la sua birra, e un altro ancora dopo averla bevuta, nella veglia cambia, e cambia di nuovo nel sonno, e quando è solo e quando parla”. Come il Proteo della mitologia, Klamm è un personaggio ineffabile e inesprimibile, simbolo tangibile della inafferrabilità del divino.
In Kafka il mondo è sovvertito, rovesciato. Il trascendente si rivela nelle forme imperfettissime della realtà finita, il sacro dimora negli ambienti più infimi e degradati. Così come le cancellerie del Tribunale de “Il processo” erano ospitate nelle opprimenti e squallide soffitte di lerci casermoni di periferia, dove l’aria è pestilenziale e le piccole finestre lasciano a malapena filtrare un po’ di luce fosca, anche l’irraggiungibile Castello è alla vista una deludente “accozzaglia di casupole senza nessuna caratteristica”. L’insieme delle case raggruppate ha un che di fatiscente e di disordinatamente affastellato, e il goffo campanile rivestito di edera, le cui merlature diroccate sembrano disegnate da una mano infantile timorosa o negligente, appare come “un tetro abitatore… che avesse sfondato il tetto e si fosse levato su per mostrarsi al mondo”. Certo è che se un visitatore fosse venuto soltanto per vederlo – pensa tra sé K. – sarebbe stato un viaggio sprecato. Kafka capovolge la nozione del divino: il divino non possiede né leggerezza e libertà, né ordine e armonia. Forse esso non è così, ma si nasconde, occulta per chissà quali arcane ragioni il suo vero aspetto agli occhi degli uomini, e l’uomo può vederlo solo in quel modo orrendo e deformato: in ogni caso, non c’è dubbio che si tratta di una ingannevole illusione.
Un aspetto molto importante del “Castello” è rappresentato dalla burocrazia, che diventa il simbolo stesso di qualcosa che trascende di gran lunga le possibilità di comprensione umane. L’assurda coerenza e la paradossale infallibilità che caratterizzano ogni sua manifestazione rappresentano per gli eroi kafkiani un ostacolo praticamente insormontabile. Si prenda come esempio l’episodio della visita di K. al sindaco del villaggio, nel corso del quale quest’ultimo rivela l’equivoco che ha condotto alla nomina di un agrimensore del quale non c’è alcun bisogno. Anche se la presunzione assoluta di infallibilità attribuita all’organizzazione del Castello è solo la goffa copertura di un immenso guazzabuglio umano, il contraddittorio tra l’agrimensore e il sindaco, così come nel “Processo” era avvenuto in occasione del colloquio tra Josef K. e il cappellano, non ha alcuna possibilità di concludersi a favore del primo. Troppo ferrea e inoppugnabile è la logica dell’assurdo che regola l’Amministrazione per non irretire anche la buona volontà di K. I suoi sforzi di confutare il meccanismo che disciplina l’apparato del Castello e di scardinarne le motivazioni si rivelano solo dei patetici proponimenti. Il sindaco può così sostenere, con totale candore, che il caso di K., anche se ha comportato una enorme mole di lavoro e l’interessamento di svariate persone, è uno dei più insignificanti, che la lettera di Klamm e le telefonate al Castello non hanno alcuna importanza ufficiale ma al tempo stesso hanno una grandissima importanza ufficiosa, che nessuno trattiene K. al paese ma neppure qualcuno lo caccia via, e così di seguito, all’infinito. Similmente, l’ostessa Gardena è in grado di affermare senza contraddirsi che l’unica possibilità per K. di avere un qualche rapporto con Klamm è il verbale del segretario Momus e, contemporaneamente, che non esiste alcuna speranza di giungere fino a Klamm, neppure per caso. In fondo a tutte le sottilissime disquisizioni di funzionari, segretari e avvocati rimane l’amara evidenza che il meccanismo dell’ingranaggio non può mai essere svelato nella sua interezza all’uomo.
Nella burocrazia kafkiana non è ammessa la possibilità dell’errore, anche laddove esso appare palesemente evidente, come nel caso della nomina dell’agrimensore. All’obiezione di K. che un errore è stato indubbiamente commesso dal Castello, il sindaco risponde che “errori non se ne commettono e, anche se ciò per eccezione accade, come nel caso suo, chi può dire alla fin fine che sia davvero un errore”. La sconcertante aporia è così risolta alla radice: errori non ce ne sono perché non possono esserci. Anche la perfezione dell’Amministrazione insistentemente vantata contrasta con il caos regnante un po’ ovunque: i documenti del sindaco sono ammucchiati disordinatamente nel granaio oppure legati come fascine e stivati nell’armadio, le pareti dello studio del funzionario Sordini scompaiono dietro pile di incartamenti che crollano ad ogni momento, e così via dicendo. Ciononostante, attraverso l’infinita e grottesca serie di equivoci e di qui pro quo in cui si dibatte l’amministrazione del Castello, è possibile leggere come in filigrana un disegno immutabile e coerente, quello del destino dell’uomo al quale è per sempre preclusa una sia pur piccola possibilità di salvezza.
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impressioni sul castello
Il castello è l’opera più complessa e poliedrica di Franz Kafka, il suo testamento letterario. La trama essenziale (dopo un viaggio “senza fine” l’agrimensore K giunge in un villaggio troneggiato, è importante che la parola rimanga in un contesto avalutativo, da un grande castello, situato su una collina, apparentemente irraggiungibile; la sua chiamata si rivelerà un errore dell’infallibile macchina burocratica che struttura il misterioso castello, forse per questo motivo il protagonista viene accolto dalla popolazione come uno straniero da cui tenersi alla larga) è lo scheletro su cui si sviluppa una prosa stratificata dal punto di vista contenutistico, allusiva ed aperta ad un’infinità di significati (secondo Benjamin anche soggettivi) e di un teatro simbolico e filosofico su cui si muovono personaggi straordinariamente ardui. L’incipit è notevole: “Era sera tarda quando K arrivò. Il paese era sprofondato nella neve. Il colle non si vedeva, nebbie e tenebre lo circondavano, non il più debole chiarore rivelava il grande castello. K sostò a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al paese e guardò su nel vuoto apparente”. Secondo un celebre schema di lettura, la struttura del romanzo si avvolge su due possibili ‘vie’ che K può scegliere di percorrere: la prima consiste nell’integrarsi nella comunità, in questo senso risulta al protagonista particolarmente utile il fidanzamento con Frieda, fino a scomparire, con la consapevolezza della perdita di ogni possibilità e speranza di entrare in contatto con il castello, nel tentativo di capire e legittimare la propria chiamata; l’altra consiste nel misurarsi direttamente con il castello, e soprattutto con i suoi funzionari. Ed il romanzo segue la battaglia inutile che K intraprende per riuscire a spezzare l’aura di densa inviolabilità che ammanta l’edificio e chi ci lavora. Ciò che tiene viva la speranza del protagonista sono alcuni messaggi inviati dal funzionario Klamm, una delle grandi autorità del castello, che tuttavia vogliono dire tutto e niente, da una parte assicurano a K che presto potrà cominciare i lavori di agrimensura, dall’altra gettano ancora più ombra sul suo incerto futuro. I personaggi che popolano la narrazione sono memorabili, su tutti aleggia il fantasma di Klamm, la personificazione delle spirali burocratiche del castello, personaggio che non compare mai (solo una volta viene osservato dallo spioncino di una porta da K, nel suo forse perenne immobilismo) ma è ovunque, su tutto il paese ed in ogni casa, arrivando a determinare le decisioni degli abitanti; eppure K non arriverà mai a parlare con lui. È certamente un personaggio allegorico, appunto allegoria, assieme al messaggero Barnabas (che ha l’ordine di recapitare a K le sue inutili lettere) dell’incomunicabilità del potere, delle parole e dell’esistenza, chiuse su se stesse ed impenetrabili; Frieda invece, oltre che fidanzata di K, precedente amante di Klamm, è un personaggio notevolmente complesso, che acquista spessore ed ambiguità mano a mano che la storia procede, rappresenta parzialmente, assieme ai due aiutanti che il castello ha messo a disposizione a K, la sordida essenza della sessualità, che è per Kafka bassa espressione dell’animalità e contaminazione dell’amore, anche se nutre per K una fedeltà snaturata e purissima, e tuttavia verso la fine abbandona il protagonista per uno dei due aiutanti; e nelle ultime pagine del romanzo, con un processo di analisi psicologica impressionante, tramite le parole dell’ingenua Pepi, Kafka insinua il dubbio circa l’onestà ed il disinteresse della sua angelica e demoniaca persona. Il vertice dell’incarnazione del tema della colpa ed inconciliabilità con il mondo è rappresentata da Amalia, sorella di Barnabas, schiacciata (ricorda a tratti, anche se il paragone è imbarazzante, Giuseppe K) dalla condanna implicita, nell’indifferenza di tutti, per una definitiva onta con cui aveva macchiato il suo nome anni addietro. Il romanzo è incompiuto, la narrazione si interrompe bruscamente, facendo precipitare nell’indeterminatezza, che appare come naturale prosecuzione di quell’inquietudine frustrata, di incolmabile distanza che separava K dal castello, che non raggiungerà “né oggi né un’altra volta”, la vicenda; forse Kafka aveva creato un’opera infinita, un’allegoria della società e dei rapporti umani (personalmente l’interpretazione teologica che vede il castello come simbolo della grazia divina non la trovo convincente) per cui non può esistere una conclusione. K è la più riuscita espressione dell’uomo kafkiano, più del famoso Samsa della Metamorfosi, oscuro e senza passato, alle prese con una lotta inutile, ogni cui sforzo è vano e si spezza dinanzi ad un divinità immobile ma non ostile, pigramente indifferente, come l’architettura che sorregge l’edificio, attorno cui persiste una specie di perpetuo inverno, il destino (o la condanna) dell’uomo contemporaneo sembrerebbe essere questa: perdersi nella propria invincibile solitudine, in attesa di un segno liberatorio (come nella parabola finale del Processo) che sbricioli la propria condizione, anche se non arriverà mai, essendo ogni cosa vivente e non avviata a sfumarsi fino a non esistere più. O forse la morte fece visita allo scrittore praghese prima che questi terminasse il suo ultimo romanzo, degna conclusione di un lungo percorso narrativo, la cui ultima parola è, come per Musil, il nulla.
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L'INSOSTENIBILE PESANTEZZA DI ESSERE K.
Sono passati due mesi da quando ho finito di leggere "Il castello" del nostro benemerito Kafka ma scrivere di getto un commento non si può. Nel suo caso, proprio non si può.
Ma riassumiamo in breve la trama: il signor K giunge in una misteriosa città con una lettera di convocazione per un lavoro: quello dell’agrimensore. La città si presenta come un velo opaco sovrastato da un imponente castello e ornato da un numero esiguo di abitanti ostili agli stranieri e diffidenti nei confronti di chiunque non faccia parte della piccola comunità. K aspetta di ricevere l’incarico ufficiale ma la situazione è ambigua. Non c'è dubbio che il vero centro del potere è il castello, un macchina perfetta di burocrati che parlano, scrivono e vivono immersi in piramidi di carte. Buttandosi il velo alle spalle K. tenta di comunicare con il misterioso signor Klamm, unico suo contatto di rilievo. Ogni tentativo però fallisce miseramente, ogni volta che K allunga il braccio per toccare Klamm egli si allontana istantaneamente e il senso di frustrazione aleggia nell'aria inerme. Determinato a risolvere la sua attuale situazione K. si adopera affannosamente ma scopre ben presto di essere vittima di un errore di valutazione, il lavoro di agrimensore non è più disponibile (lo è mai stato?), in cambio gli viene offerto un posto come bidello della scuola dove viene costantemente umiliato dal maestro che lo disprezza profondamente. K. è disorientato e amareggiato, unica sua consolazione è l'amore per Frida, ex amante di Klamm e capocameriera presso la Locanda. E' solo per lei infatti che decide di accettare il lavoro da bidello e di trasferirsi a vivere nella scuola, pur non mostrando particolare interesse né per la posizione lavorativa né tantomeno per le persone che vi dimorano.
Anche su questo punto si aprono più porte, con il passare del tempo la certezza dell’amore di K. per Frida diventa incertezza, l’autore ci trasforma in esseri sospettosi che seguono le vicende di K con livelli di attenzione non sempre adeguati.
Il libro scorre lentamente, a tratti con picchi più intensi. Con Kafka non possiamo prendere punti di riferimento, l’ambientazione fuori dallo spazio colloca il protagonista in una dimensione astratta dove il centro pulsante è l’angoscia, l'uomo perso nel mondo incapace di collocarsi.
K. (abbreviazione dello stesso Kafka?) è determinato ad avere un ruolo nella società, ad essere rispettato dalla comunità ma nella sua corsa ossessiva inciampa più volte nella sua afflizione lasciandosi dietro la meta agognata.
Se la Metamorfosi mi aveva appassionato per l’ironia dell’assurdo il Castello è una pietra che tenti di sollevare dal piede destro per poi ricadere miseramente sul sinistro. Va bene l’alienazione dell’uomo, va bene lo sgomento esistenziale ma perché indugiare nel dettaglio, in descrizioni fini solo a se stesse? Kafka è un maestro della parola in grado di creare ambientazioni uniche ma avrei apprezzato una sintesi maggiore in alcuni tratti e più spazio alla sfera introspettiva di K.
Un ultimo avvertimento: sulla parola dell’ultima pagina del romanzo lancerete un imprecazione.
Tutto ok.
Siete giunti al castello.
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L'insensatezza frustrante di un'attesa che dura un
Quando ho visto "Il castello" di Kafka sullo scaffale della libreria sono stata sopraffatta dalla curiosità per l'ombra di fascino e di mistero che emana il titolo e che suscita sempre il suo autore. Così piena di aspettative ho iniziato a leggere e più andavo avanti, maggiore era il senso di disorientamento e assurdità che mi pervadeva. Un uomo senza nome, che viene identificato da una semplice lettera giunge in un bizzarro villaggio e tenta continuamente, con ogni mezzo di comunicare con il castello, con un'autorità nota a tutti ma allo stesso tempo così riservata a misteriosa da non dare mai risposte, insinuando un lacerante dubbio sulla sua effettiva esistenza. Il protagonista attende, persevera nei suoi vani tentativi, instaura anche relazioni con gli abitanti del villaggio ed è costretto a sopportare l'invadenza opprimente dei due aiutanti che, in realtà, si rivelano degli antagonisti. Tuttavia ci si rende conto progressivamente che è lo stesso eroe ad essere antagonista di se stesso, condizione inevitabile di ogni essere umano. L'impegno che dimostra nella speranza di trovare un significato, una regola che dia un senso all'oscura burocrazia del castello è fallimentare e, alla fine, la sua esistenza, come quella di ognuno di noi, non è altro che un'attesa insensata ed eterna che culmina nel nulla. Lo stesso finale incompleto del libro, l'impressione che ci sia sempre qualcosa in sospeso mi ha ricordato il "nonsense" beckettiano di "Waiting for Godot": individui privi di identità che cercano risposte in un mondo dominato dal vuoto di un'autorità assente.
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L'illusione di una prospettiva
Leggi “Il castello” di Kafka e, se conosci Dino Buzzati, ti balena per un attimo l'idea di assistere ad un meraviglioso riflesso... E' come essere, rispetto a “Il deserto dei tartari”, dall'altra parte dello specchio.
In quest'ultimo romanzo, il giovane tenente Drogo è rinchiuso in una fortezza militare, nell'attesa spasmodica di affrontare un nemico che, nella visuale del suo binocolo, non appare mai. Mentre l'attesa si prolunga di giorno in giorno, per settimane, mesi, anni...
Al contrario e allo stesso modo, l'energico agrimensore K. giunge nel villaggio da forestiero, ed aspetta ogni giorno di fare ingresso in quel castello che domina dall'alto il paesino, tanto da ridurlo a sola sua appendice. E' K., stavolta, a provare ad entrare... senza riuscirci. Come se l'avanguardia dei Tartari sia finalmente arrivata, ma – beffa delle beffe – non riesca a trovare il modo di assalire la fortezza.
Ancora una volta la burocrazia. Che già aveva fermato l'altro famoso K. di Kafka – il bancario de “Il processo” – sino a ridurlo strumento nelle mani di una giustizia tanto impersonale quanto inesorabile. Adesso è altrettanto precisa nel respingere l'agrimensore K. quanto più egli prova a farsi ammettere nella ristretta cerchia dei lavoranti al Castello.
E sì che, per quel che risulta, era stato proprio il Castello a chiamarlo, giacché c'era bisogno di un agrimensore. Poi, tra portinai, sottoportinai, telefonisti, burocrati di alto livello (come l'ineffabile Klamm), sindaci e aiutanti di sindaci, anche questa minima certezza svanisce: forse di un agrimensore, in quel posto, non c'è affatto bisogno... forse il buon K. non risalirà mai da quel “sottobosco” di rassegnati contadini, calzolai, irascibili maestri di scuola, coriacee ostesse e servitori d'osteria che a prima vista doveva aver considerato così lontani da sé.
La materia con cui Franz Kafka plasma i propri incubi non è la paura: è la frustrazione. La ripetizione continua di un tentativo che finisce per avvitarsi in una spirale, per perdersi in un labirinto, in un luogo al quale il fallimento stesso si attacca come un qualcosa di fisico, prendendo i volti di persone che parlano parlano parlano, e sembrano sapere tutto quello che i protagonisti kafkiani non sanno... ma in realtà ne sanno anche meno. E' quanto basta, però, perché agrimensori e bancari si smarriscano, perdano il loro tempo, fino ad esaurirlo del tutto.
All'uscita dei labirinti kafkiani non c'è una soluzione (per quanto lontana), ma un orologio che suona il rintocco: perché quella – in verità (e grazie ad un'altra illusione dello scrittore praghese) – non è l'uscita, ma il pieno centro del labirinto, dal quale nessun K. riuscirà mai ad evadere...
Intanto, nel loro inesorabile scorrere, il tempo e l'attesa calano come fitta nebbia, tanto alle pendici di un castello quanto nel bel mezzo del deserto... L'uomo e la sua esistenza, in tutto questo, non sono che un trascurabile accidente...