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Giulio Cesare

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Con il "Giulio Cesare" opera che prelude al periodo delle grandi tragedie, Shakespeare rivisita il confitto esemplare e sempre attuale tra democrazia e autoritarismo, tra repubblica e impero, e svela magistralmente la dimensione teatrale della politica, la sua retorica, la sua finzione. In questo dramma marcatamente politico ogni azione risulta inestricabilmente legata alla volontà di far prevalere le proprie opzioni ideologiche e alla conseguente necessità di persuadere il popolo per farlo aderire ad esse. La storia si svela quindi come una grande arena della persuasione in cui la forza della parola, la simulazione e la dissimulazione forgiano i destini degli uomini.



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Giulio Cesare 2020-01-08 09:30:28 siti
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siti Opinione inserita da siti    08 Gennaio, 2020
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Di necessità virtù

A dispetto del titolo, questo dramma in cinque atti non fa di Giulio Cesare il protagonista; si assiste invece alla rappresentazione del passaggio dall’apoteosi cesariana alla successiva ed ennesima piega assolutistica che prenderanno gli ormai agonizzanti statuti repubblicani. In mezzo, l’eversivo tentativo di difesa del repubblicanesimo maturato da Cassio e dai suoi compagni che passeranno alla storia per aver ucciso Cesare.
Egli muore nel terzo atto, autocelebrandosi come irremovibile nelle sue decisioni, unico fra gli uomini, inattaccabile, un uomo che non si piega alla piccolezza delle relazioni umane ma vede oltre, con lo sguardo sagace, lo stesso che attonito si spegnerà constatando il tradimento del suo Bruto. “Tu quoque, Brute, fili mi!” reso nel dramma con “Eh tu, Brute? Allora muori, Cesare!”
I primi due atti sono invece funzionali a descrivere l’ opportunismo della plebe urbana che inneggia a Cesare e al suo trionfo, dimentica di aver reso lo stesso omaggio prima a Pompeo, o ancora a imbastire la congiura ai danni di Cesare cercando di convincere Bruto, limandone le sue ultime resistenze. È proprio la rappresentazione del dissidio interiore di Bruto ad occupare l’intero secondo atto. Solo, Bruto medita, pondera i fatti, gli atteggiamenti, i comportamenti del suo caro amico e condanna insieme al lui il genere umano quando mostrandosi umile sta in realtà salendo i gradini della nota scala chiamata ambizione. Lui seguirà i cospiratori ma si porrà anche come il mediatore fra la brutalità dell’omicidio e la necessità del suo compiersi, gestendo infine di fronte ai concittadini e ad Antonio le sue ragioni: “… ho ucciso il mio migliore amico per il bene di Roma, ma serberò lo stesso pugnale per me, quando il mio paese riterrà necessaria la mia morte”.
Il dramma, dopo il memorabile discorso di Antonio che con fine arte oratoria afferma ciò che nega, si avvia alla conclusione rappresentando il costituirsi del secondo triumvirato e il decisivo scontro a Filippi, e non tanto per evidenziare il conflitto tra Antonio e Bruto quanto per confermare quella lontananza di intenti che già emergeva nel primo atto tra Bruto e Cassio.
Intenso dramma che rappresenta la distanza fra il fine e il mezzo quando in gioco ci sono alti ideali quali la libertà e l’uguaglianza che per essere garantite hanno necessità della violenza.

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Giulio Cesare 2019-10-21 17:31:34 Cathy
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Cathy Opinione inserita da Cathy    21 Ottobre, 2019
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L’ambiguità e l’inafferrabilità del reale

Molti critici hanno osservato che il "Giulio Cesare" è una tragedia senza protagonista: Cesare muore all’inizio del terzo atto, pronuncia meno del sei per cento delle parole del dramma ed è presente in scena per poco più di un decimo della durata dell’azione. Più che la figura di Cesare, al centro del dramma ci sono la morte di Cesare, non come protagonista della vicenda, ma in quanto sovrano che va eliminato prima che diventi un tiranno, e il sangue di Cesare, anche se, per ironia della sorte, egli si dimostrerà più pericoloso da morto che da vivo. A Filippi, davanti ai corpi degli amici Cassio e Titinio, morti suicidi perché erroneamente convinti della disfatta, Bruto esclama: «O Giulio Cesare, sei ancora potente!/Il tuo spirito cammina, e pianta le nostre spade/Nelle nostre stesse viscere». I veri protagonisti dell’opera sono i suoi uccisori e i loro avversari, due schieramenti che incarnano quindi la contrapposizione tra regime repubblicano e regime monarchico.
Eppure nessuno di loro è un eroe. Lungi dall’evidenziarne le qualità eccezionali, Shakespeare ne sottolinea invece gli aspetti umani, a cominciare dal personaggio di Cesare, che, come scrive Agostino Lombardo, è oggetto di una vera e propria demitizzazione e diventa un uomo che quasi annega nel Tevere, grida come una ragazzina quando è in preda alla febbre e sviene tra la folla per il mal caduco, un uomo che è sordo dall’orecchio sinistro, è preda delle superstizioni, si lascia spaventare da segni e presagi, ama essere adulato e definisce «un pazzo» o «un sognatore» chi tenta di avvertirlo del pericolo.
Tale processo di demitizzazione non coinvolge soltanto Cesare, ma tutti i personaggi, presentati non come statue, ma come uomini, e in quanto tali essi svelano una vasta gamma di sentimenti, debolezze, paure, preoccupazioni. Commettono errori, bramano l’oro e il potere, sono deboli e irresoluti, hanno incubi, paure, allucinazioni.
Perfino Bruto compie, tra gli altri, due errori fondamentali. Il primo consiste nel lasciar vivere Antonio, nonostante il parere contrario di Cassio, che è la mente e l’anima della congiura, il primo a mostrare tutta la durezza della politica e che una rivoluzione, anche se nobile, libera inevitabilmente gli istinti più oscuri. Poi, subito dopo l’uccisione di Cesare, Bruto acconsente alla richiesta di Antonio di parlare al funerale, ancora una volta non ascoltando Cassio, che lo mette in guardia a ragione sul rischio che lo scaltro Antonio rappresenta per tutti loro.
Scopo del "Giulio Cesare" è mostrare l’umanità dei personaggi, offrire un’immagine della fragilità umana, della mutevolezza del mondo, della relatività del reale. Se non ci sono eroi, è perché non esistono certezze né valori assoluti. Tutto cambia, si trasforma e si muove incessantemente. I miti non sono statue di pietra, ma sono fatti di carne e sangue: nascono, crescono, muoiono e sono sostituiti da altri miti che a loro volta, un domani, tramonteranno. La realtà, scrive Lombardo, è inafferrabile, sfuggente, osservabile da mille punti di vista come un’opera manieristica, oggetto di mille interpretazioni. La ricorrente immagine del fuoco e della Terra che «si muove come una cosa malferma», i congiurati che non riescono a trovare i punti cardinali, la morte del poeta Cinna scambiato per l’omonimo congiurato e brutalmente ucciso dalla plebe impazzita al funerale di Cesare, la stessa volubilità della folla, quella «marmaglia» la cui natura «vile» e volubile viene sottolineata fin dalla prima scena del dramma, sono dimostrazioni emblematiche dell’instabilità e della mutevolezza del reale. Durante la battaglia di Filippi, poi, si moltiplicano i fraintendimenti con conseguenze talvolta disastrose.
Secondo Giorgio Melchiori, Shakespeare racconta un episodio della storia romana, ma al tempo stesso porta sulla scena alcuni nodi cruciali della condizione contemporanea. La Roma del "Giulio Cesare" è specchio dell’Inghilterra subito prima della morte di Elisabetta. I protagonisti, proprio come l’uomo sulle soglie dell’età moderna, si scontrano con un mondo oscuro, sfuggente, problematico, incoerente. Un mondo che l’uomo del Rinascimento deve affrontare con le proprie forze, tentando di dargli un significato senza potersi appoggiare alle certezze dell’universo medievale. Il personaggio di Bruto è una delle maggiori incarnazioni della crisi elisabettiana: se da un lato è rivolto al passato, alla tradizione, all’autorità, come dimostra il suo attaccamento per Cesare, dall’altro è proiettato verso il futuro, con il suo desiderio di libertà e il suo rifiuto del potere assolutistico. La sua esitazione, come quella di Amleto, non nasce dalla viltà, ma dal dibattito interiore dell’uomo moderno, diventato responsabile del proprio destino. Bruto è un intellettuale, definito dai critici il primo vero intellettuale che si incontra nel corpus shakespeariano, un uomo schivo, più bravo a leggere il proprio animo che di quello altrui (e la sua incapacità di comprendere e indirizzare l’umore della folla lo dimostra), consapevole della nuova, difficile realtà che si presenta all’uomo quando l’ordine tradizionale scompare, così come scompare Cesare, e impegnato nello sforzo di decifrarla e chiarirla tanto a se stesso quanto agli altri anche per mezzo del teatro, esaltato attraverso le sue parole e quelle di Cassio subito dopo l’uccisione di Cesare. E ciò che più di ogni altra cosa rende Bruto così emblematico della modernità a cui appartiene è che gli elementi in conflitto dentro di lui non trovano una ricomposizione armonica: il dubbio di Bruto, non si risolve o si risolve solo in superficie.
Il "Giulio Cesare", redatto da Shakespeare mentre compone l’"Enrico V", ha una posizione chiave nella produzione shakespeariana: da un lato sviluppa e conclude il tema della legittimità della deposizione e dell’uccisione di un sovrano, filo conduttore del precedente ciclo di opere (da "Riccardo II" a "Enrico V") dedicate alla storia inglese, dall’altro prepara la grande stagione tragica aperta dall’"Amleto", che riprende questo tema per esplorarlo ad un livello più profondo. Già le "Vite" di Plutarco (fonte principale del "Giulio Cesare") affrontano il problema dell’uccisione del sovrano e delle sue conseguenze da diversi punti di vista: se da un lato il tirannicidio è giustificato, dall’altro né Cassio né Bruto si salvano da quello che Enrico IV morente definisce “il fango” dell’impresa. Il motivo della sconfitta dei cesaricidi sta qui, ma il riscatto sta nella forma della loro morte, il suicidio, considerato un atto di romana fermezza e nobiltà. In età elisabettiana, infatti, l’aggettivo “romano” si associa alla nobiltà d’animo, ma anche al suicidio, la più elevata espressione di tale nobiltà. È chiara ancora una volta l’importanza del "Giulio Cesare" per l’"Amleto": i dubbi e le esitazioni del principe danese culminano nel più celebre dei suoi soliloqui, una meditazione sul suicidio che diventa il nucleo delle sue interrogazioni senza risposta.
Secondo la leggenda, in fondo, gli inglesi discendono da un pronipote di Enea, Bruto. Gli elisabettiani, quindi, avvertono uno stretto legame con il mondo romano: romani e britanni discendono dalla stessa stirpe e condividono gli stessi alti ideali di onore, nobiltà, risolutezza, lealtà, coraggio. Se per gli spettatori del Cinquecento l’antica Roma è una sorta di controparte ideale del loro mondo, i drammi classici sono una vera e propria storicizzazione del presente. Nelle opere romane di Shakespeare la riflessione sulla storia si proietta nella dimensione della Roma antica, liberandosi dai vincoli politici imposti dalla rappresentazione di episodi della storia nazionale recente, e affronta temi che il drammaturgo non avrebbe potuto trattare apertamente nei drammi di storia inglese senza incorrere nella censura.
Attraverso episodi e personaggi della storia romana, Shakespeare riflette sulla natura e sul comportamento umano. Nei discorsi di Bruto l’uccisione di Cesare è presentata sia come un atto necessario e preventivo, finalizzato ad evitare che in futuro egli si lasci trascinare dall’ambizione e diventi un tiranno, sia come un sacrificio, un dono agli dei, eppure Bruto sembra non rendersi conto del fatto che il loro sarà un sacrificio umano, un’azione terribile che contrasta con il proposito da lui espresso di essere «sacrificatori», non «macellai». Il personaggio di Bruto si mostra così perfettamente in accordo con l’intera opera: la stessa forma del Giulio Cesare è una costruzione solo apparentemente solida, lineare, perfetta, insomma, “romana”. Appena sotto questa superficie fremono le spinte che la disgregheranno.
Nell’"Amleto" la domanda di Bruto, solo davanti al problema dell’uccisione di Cesare, è posta al centro del dramma e ad essa cercano di rispondere le tragedie successive, conducendo una riflessione a tutto tondo sulla condizione umana e tentando di costruire un mondo adatto ad accogliere l’uomo moderno. Tale tentativo ha inizio proprio con il "Giulio Cesare", che apre così la massima stagione dell’arte di Shakespeare.



Le citazioni sono tratte da:
W. SHAKESPEARE, Giulio Cesare, a cura di A. LOMBARDO, Feltrinelli, Milano, 2014.

Testi di riferimento:
A. LOMBARDO, L’eroe tragico moderno. Faust, Amleto, Otello, Donzelli, Roma, 2005; S. MANFERLOTTI, Rosso elisabettiano. Saggi su Shakespeare, Liguori, Napoli, 2017; S. MANFERLOTTI, Shakespeare, Salerno Editrice, Roma, 2010; G. MELCHIORI, Shakespeare. Genesi e struttura delle opere, Laterza, Roma, 2005.

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Giulio Cesare 2018-11-03 16:10:49 Valerio91
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    03 Novembre, 2018
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Lo spartiacque

Come viene detto nella prefazione di Agostino Lombardo, nell'edizione Feltrinelli, con "Giulio Cesare" si apre la stagione di massima arte per William Shakespeare. A quest'opera, infatti, seguiranno molte delle sue opere più importanti tra le quali Amleto, personaggio che, coi suoi conflitti e le sue domande sulla condizione umana offre uno spaccato della nascita dell'uomo moderno.
Amleto viene praticamente annunciato dal Bruto di questa tragedia, che rappresenta l'embrione dell'uomo che deve abbandonare tutte le sue convinzioni antiche: che deve imparare a farsi carico del proprio destino; smettere di credere nelle superstizioni e mettere ogni spiegazione che non riesce a darsi sul groppone delle divinità; che deve farsi carico del suo nuovo status di "uomo copernicano".
"Il passaggio da un mondo all'altro, richiede passi audaci" (non è Shakespeare); ma anche il passaggio da un uomo all'altro, devo dire.
Seppure le opere di Shakespeare siano sempre meravigliose da leggere, Giulio Cesare non mi ha colpito ed emozionato come altre opere, nonostante raggiunga vette di rara bellezza; ma da Shakespeare ci si attende sempre molto, dunque il fatto che possa avermi "deluso" è un fatto piuttosto relativo.

Questa tragedia shakespeariana ha come fulcro, com'è ovvio pensare, il cesaricidio perpetrato dai congiurati romani come Cassio e Bruto. Tuttavia, pur dando all'opera il proprio nome, Giulio Cesare non compare quasi mai, se non citato dagli stessi personaggi che lo temono, lo odiano, lo invidiano. Giulio Cesare è l'ultima divinità dell'età antica, per questi uomini, e per ottenere la libertà loro vedono un unico finale: l'assassinio di quella divinità. "Libertà!", è il grido che si solleva dai congiurati. Eppure... neanche da morto il grande Cesare smetterà di gettare la propria ombra sul mondo e sugli uomini.
"Et tu, Brute", è il grido che Cesare leverà alla sua morte, e come un virus contagioso e spietato, si insinuerà nella psiche di quest'uomo che si è fatto carico del peso del mondo, uccidendo un uomo che amava per il bene comune, un bene che, comunque, non è detto che arrivi.

"Il codardo muore mille volte prima della sua morte, il coraggioso gusta la morte una volta sola."
"The coward dies a thousand deaths, the valiant tastes the death but once."

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Giulio Cesare 2017-06-02 07:42:56 viducoli
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viducoli Opinione inserita da viducoli    02 Giugno, 2017
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La svolta del Bardo verso la modernità

In generale ritengo che leggere opere teatrali sia esercizio più complesso rispetto alla lettura di opere letterarie propriamente dette, in quanto l’opera teatrale è solo in parte un’opera scritta, e per essere gustata appieno deve passare attraverso la mediazione della rappresentazione, cui il testo scritto è funzionale.
Non so se ciò sia completamente vero per le opere teatrali di William Shakespeare, in quanto queste hanno nel corso dei secoli assunto una tale importanza letteraria da acquisire una sorta di autonomia rispetto alla loro rappresentazione in teatro: siamo infatti oggi forse più abituati a leggere Shakespeare che a vederlo a teatro. Indubbiamente, però, le commedie e le tragedie shakespeariane sono nate prima di tutto sulla scena, ed è ancora oggi sulla scena che si possono offrire a noi completamente. Il loro essere tuttavia, quanto a testo scritto, quasi unicamente costituite da dialoghi tra i vari personaggi e monologhi, quindi pressoché prive di indicazioni sceniche da parte dell’autore, da un lato le rende indubbiamente più compatte e dirette nei confronti del lettore, dall’altro accentua le possibilità interpretative di registi ed attori, che sono pressoché liberi di arricchire secondo la loro sensibilità i testi shakespeariani degli elementi di contorno che, oltre al testo, rendono tale un’opera teatrale. Questa libertà interpretativa non può che accentuare il distacco tra il testo e la sua rappresentazione, rispetto a quanto accade per altre opere teatrali, soprattutto moderne, più puntigliose nel fornire elementi scenici che guidino l’interpretazione teatrale.
Per questo autore, quindi – ma credo che ciò valga in generale per gli autori teatrali antichi – ritengo si possa dire che la critica letteraria, se indubbiamente analizza solo una parte della complessità dell’opera come concepita dall’autore, può comunque in qualche modo legittimamente astrarsi dal fatto che l’oggetto cui si rivolge non sia stato destinato dall’autore ad essere letto ma ad essere rappresentato.
Deve comunque assolutamente notarsi che probabilmente la maggiore problematica che il critico dilettante affronta quando intende parlare di un’opera di Shakespeare sta nelle difficoltà oggettive di analisi dell’opera di uno dei massimi intellettuali di tutti i tempi, già sviscerata sotto innumerevoli punti di vista dalle più svariate scuole di pensiero critico. Ma tant’è, questa difficoltà si presenta quasi ogni volta che egli intende scrivere di un classico, e l’unica giustificazione per farlo, peraltro nobilissima, consiste nel fatto che ciò che egli scrive attiene a quello che l’opera gli ha trasmesso, e questo egli intende fissare sulla carta, indipendentemente dal rischio, più che probabile, di cadere nel baratro del già detto e della banalità.
Della lunga teoria di opere shakespeariane che fa bella mostra di sé negli scaffali della mia libreria ho deciso di affrontare per prima una delle tragedie più celebri, il 'Giulio Cesare'.
Shakespeare scrive 'Giulio Cesare' tra il 1598 e il 1599, e questa tragedia rappresenta una tappa fondamentale nell’evoluzione della poetica del bardo. Essa segna infatti il passaggio dalle commedie o tragedie cosiddette romantiche e di influsso classico italiano, che avevano caratterizzato la produzione teatrale shakespeariana negli anni ‘90 del XVI secolo, a quelli che verranno definiti i drammi dialettici, al cui centro sono le problematicità dell’agire umano, l’individuo con le sue contraddizioni. Molti critici individuano per questo nel 'Giulio Cesare' il testo con il quale l’opera di Shakespeare entra a pieno titolo nella modernità: più propriamente si può forse affermare che con questa tragedia l’autore, che non dimentichiamo è stato anche un grande manager teatrale, sempre attento a cogliere i mutamenti di gusto del suo pubblico, inaugura un teatro che fa sue le istanze culturali più profonde di quest’epoca di profondo cambiamento nella società britannica, ed espressamente quelle della nascente società borghese, che circa quarant’anni dopo, con la rivoluzione di Cromwell, conquisterà definitivamente il potere nell’isola. Con 'Giulio Cesare' infatti Shakespeare introduce esplicitamente nel suo teatro – soprattutto per mezzo del personaggio di Bruto, che come vedremo gioca un ruolo centrale nel dramma – il tema, tipicamente moderno perché legato alla concezione borghese del mondo, della responsabilità dell’individuo di fronte alle proprie azioni, rompendo così definitivamente con la visione squisitamente medievale del fato come causa ultima degli avvenimenti, che ancora in gran parte caratterizzava una tragedia di poco anteriore come Giulietta e Romeo.
La grandezza di una tragedia come Giulio Cesare emerge soprattutto dalla sua complessità, dal fatto che in essa possono essere rintracciati, oltre a quello già citato, altri temi portanti, tutti testimoni della grandezza dell’autore quanto a capacità di cogliere le problematiche emergenti del tempo in cui viveva.
La tragedia è infatti un’opera dal contenuto fortemente politico, perché trasla al tempo della fine della repubblica romana il clima di incertezza che caratterizzava la società britannica dell’epoca, non solo per l’accennato scontro in atto (anche se ancora latente) tra privilegi dell’aristocrazia e spinte borghesi al rinnovamento socio-politico, ma anche perché il futuro stesso della monarchia inglese era all’epoca incerto: siamo infatti negli ultimi anni di regno di Elisabetta I Tudor, ed è da tempo chiaro che la regina, ormai quasi settantenne, morirà senza eredi. La prospettiva di una guerra civile, di una lotta per il potere era quindi una concreta possibilità nell’Inghilterra del volgere del XVI secolo, ed indubbiamente la tematica scelta da Shakespeare per questa sua tragedia riflette quel clima di incertezza, nell’ambito del quale l’autore si interroga sul conflitto tra tirannia e libertà, rifiutandone peraltro una visione ideologica e calandolo nella concretezza delle problematiche scelte fatte dai protagonisti.
Un altro elemento di modernità della tragedia è dato, a mio modo di vedere, dalla sua stessa struttura, dalla capacità dell’autore non solo di caratterizzare indelebilmente i personaggi principali, ma anche di giocarli sulla scena in un modo che può apparire inusitato ma che è perfettamente funzionale ai messaggi che Shakespeare voleva trasmettere al suo pubblico. Egli compone la tragedia avvalendosi della fonte storica di Plutarco: anche se oggettivamente sono pochi gli elementi che cambia rispetto all’autore delle Vite parallele – anzi, alcuni passi sono ripresi quasi letteralmente – la costruzione dell’opera, il succedersi delle scene e degli atti le conferisce il segno della più grande originalità. La prima scena è in questo senso emblematica: per descrivere l’atmosfera di duro contrasto che si vive a Roma nei giorni in cui Cesare dovrebbe ricevere di fatto la legittimazione imperiale Shakespeare ricorre ai dialoghi farseschi e pieni di doppi sensi tra un ciabattino, un falegname e due tribuni del popolo. Ma il vero perno del gioco di Shakespeare con i suoi personaggi è proprio la figura di Cesare, che pur dando il titolo all’opera non ne è affatto il protagonista, ed inoltre, come fa giustamente notare anche Agostino Lombardo nella sua bella introduzione, viene presentato come un uomo stanco, sordo ad un orecchio, indeciso e sorretto ormai solo dalla sua sconfinata ambizione per il potere.
La sua prima apparizione, nella seconda scena del primo atto, è quasi grottesca: egli, camminando tra la folla, si preoccupa solo che la moglie Calpurnia venga toccata da Antonio mentre questi correrà durante i Lupercali, perché così possa – in base ad un antico detto – perdere la sterilità. Quando torna in scena, nel secondo atto, è in camicia da notte: si lascia inizialmente convincere dalla moglie – che ha fatto un sogno premonitore – a non andare in senato (sono le idi di marzo) ma poi, di fronte alla prospettiva di ricevere la corona imperiale, subdolamente instillatagli da Decio Bruto, uno dei congiurati (da non confondere con il più famoso Marco Bruto), cambia idea. Solo nella prima scena del terzo atto, in cui muore sotto i colpi di pugnale dei congiurati, assurge in qualche modo alla dignità di uomo di stato. Quello che dovrebbe essere il protagonista della tragedia, quindi, compare solo in tre scene, anche piuttosto brevemente, e muore all’inizio del terzo di cinque atti.
Il vero protagonista della tragedia è infatti, a mio avviso, Marco Bruto, di cui Shakespeare riprende, da Plutarco, l’indecisione e gli errori per farne il prototipo dell’uomo moderno. Il Bruto shakespeariano è amato dal popolo, che riconosce la sua autorità morale, (in realtà la carriera politica del Marco Bruto reale fu tutt’altro che limpida) ed ama Cesare, per lui quasi un padre: egli però ama più le istituzioni repubblicane, e per questo si lascia convincere da Cassio e dagli altri cospiratori, dopo un tormento interiore che coinvolge anche la moglie Porzia, ad unirsi a loro per salvare lo stato e al contempo Cesare dalla sua stessa ambizione, uccidendolo. L’errore fatale Bruto lo commette, per un insieme di sopravvalutazione di sé e di incapacità di valutazione degli altri, quando decide che Antonio, fedele luogotenente di Cesare, non debba essere ucciso e gli permette, contro il parere di Cassio, di esporre il corpo di Cesare e di parlare al popolo, sia pure dopo di lui. La celebre orazione di Antonio ("Io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo") è un vero capolavoro di retorica e perfidia oratoria, nel quale le parole perdono progressivamente il loro significato letterale per assumere quello opposto, come emerge nella ripetizione quasi ossessiva della frase Bruto è uomo d’onore. Antonio riuscirà con questo discorso a far rivoltare i romani contro i cesaricidi, segnando l’inizio della loro fine. Bruto sarà sempre più tormentato dalle conseguenze di ciò che ha fatto, soprattutto dalla coscienza dell’incapacità di gestire tali conseguenze: la celeberrima scena dell’apparizione dello spettro di Cesare segna il culmine metaforico del suo tormento interiore. I due atti finali descrivono il compiersi del dramma di Bruto e Cassio come una china infernale di incomprensioni tra i due cesaricidi e di incapacità di valutare oggettivamente la situazione, con conseguenti errori e decisioni sbagliate nelle fasi cruciali della guerra civile contro Ottaviano e Antonio.
Altro personaggio chiave della tragedia è proprio Antonio, lo spregiudicato Antonio, che inganna Bruto fingendo di approvare l’assassinio di Cesare, potendo così tessere la sua trama di scalata al potere. Egli rappresenta in qualche modo l’opposto di Bruto: se quest’ultimo ama profondamente Cesare, e lo sacrifica per salvarlo da sé stesso, Antonio in realtà usa Cesare da morto, come lo ha usato da vivo, per raggiungere i suoi fini, per conquistare il potere. Come detto il suo discorso funebre, che con grande sapienza psicologica Shakespeare contrappone a quello pronunciato poco prima da Bruto, è sicuramente uno dei punti più alti dell’intera produzione del bardo. Anche Antonio presenta tuttavia una sua complessità morale, che emerge appieno quando davanti al corpo di Bruto non potrà sfuggire dal riconoscimento del suo valore, dicendo che era il più nobile dei Romani, e che solo lui uccise Cesare non per odio ma per il bene comune.
Antonio del resto è sicuramente un personaggio che affascinò particolarmente Shakespeare, che qualche anno dopo come noto gli dedicò un’altra tragedia, Antonio e Cleopatra.
Cassio, il terzo personaggio chiave della tragedia, ha sicuramente, rispetto a Bruto, una visione più razionale degli avvenimenti: è lui il vero ispiratore della congiura, e lucidamente vede in Bruto un alleato essenziale. Tuttavia sarà proprio questa eccessiva lucidità a perderlo, perché non tiene conto della personalità tormentata e dell’eccesso di umanità di Bruto: in una sorta di contrappasso, si ucciderà per un malinteso, causando di fatto con il suo gesto il disastro finale.
I discorsi funebri di Bruto e Antonio permettono anche di osservare come Shakespeare dimostri poca fiducia nelle capacità critiche del popolo, rappresentato come una folla indistinta che prima assolve Bruto per poi lasciarsi convincere dalle subdole parole di Antonio – significativamente soprattutto quando egli svela che per testamento Cesare ha lasciato alla città soldi e terreni – a scatenare la caccia ai congiurati: l’episodio dello scambio del poeta Cinna per l’omonimo congiurato la dice lunga sui sospetti nutriti da Shakespeare rispetto ai moti popolari.
Grande sapienza teatrale, capacità di descrivere l’uomo e le sue contraddizioni contestualizzandole rispetto al periodo storico in cui viveva, finezza psicologica nel tratteggiare il carattere dei personaggi, importanza data all’elemento onirico, piena coscienza dell’ambiguità del linguaggio e della sua funzione come arma di creazione del consenso sono altrettanti elementi che testimoniano la grandezza imperitura di questa magnifica opera teatrale, che anche se solo letta e non vista ci restituisce appieno tutto il suo splendore.

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Giulio Cesare 2015-10-22 17:09:02 FrankMoles
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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    22 Ottobre, 2015
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Uomini e potere

Tra le più apprezzate opere shakespeariane, anche per la particolare potenza stilistica e linguistica dei versi in questione, si ritiene che il Giulio Cesare utilizzi materiale della storia antica per stimolare la riflessione sulla storia contemporanea; in particolare, si ritiene che il dramma rifletta l’inquietudine del regno inglese all’avvicinarsi della morte della regina Elisabetta I, che, non avendo questa eredi, avrebbe rischiato di gettare l’Inghilterra in analoghi conflitti interni.

Protagonista della tragedia non è dunque Giulio Cesare in sé, o Bruto come da molti ritenuto, ma è proprio la morte di Cesare, con ciò che la precede e ciò che essa provoca. Decisamente in secondo piano appare dunque, in realtà, proprio il personaggio che dà il titolo all’opera, in particolare in relazione agli altri personaggi. Magnanimo, coraggioso e ambizioso (“I paurosi muoiono mille volte prima della loro morte, ma l'uomo di coraggio non assapora la morte che una volta. La morte è conclusione necessaria: verrà quando vorrà.”), Cesare è vittima del mero malanimo dei congiurati e di Cassio, spinti ad ucciderlo perlopiù da motivi di onore personale e da interessi propri dei Senatori, timorosi di essere esautorati da un potenziale dittatore (“Non so quel che pensiate, tu ed altri, di questa vita, ma, per conto mio, meglio vorrei non essere mai nato che viver nel terrore d'un mio simile, d'un uomo in carne ed ossa come me.”). Ben diverso è il discorso da fare a proposito di Bruto, che, come egli stesso dichiara, ama profondamente suo padre adottivo, ma ama ancor di più la sua patria, che egli ritiene in pericolo a causa di Cesare (“L'abuso di grandezza si avvera quando essa disgiunge la tenerezza d'animo dal potere.”). Bruto, dunque, non è mosso da interessi personali né tantomeno da odi privati e preesistenti, ma è suo malgrado costretto a unirsi alla congiura in nome del suo forte senso di giustizia e amor di patria. D’altronde, la moralità e l’onore incarnati da Bruto emergono anche nel momento in cui questi accusa di corruzione il fidato amico Cassio, mostrando di aver a cuore la giustizia e il bene di Roma più di ogni altra cosa. Un riconoscimento al suo valore, rispetto a Cassio e agli altri congiurati, è la concessione delle onoranze funebri da parte di Antonio, che gli dedica, in chiusura del dramma, un memorabile e meritato encomio: “La sua vita fu onesta e così piena delle sue qualità che la natura potrebbe alzarsi e dire all'universo: "Questi era un uomo! "”. Marc’Antonio poi, come accadrà tanto nella storia reale quanto nel dramma shakespeariano Antonio e Cleopatra, si presenta anche qui come un personaggio ambiguo. Il suo astuto e veemente discorso al pubblico (“Il male che gli uomini compiono si prolunga oltre la loro vita, mentre il bene viene spesso sepolto insieme alle loro ossa.”), a tradimento degli accordi pattuiti con Bruto, è evidentemente finalizzato a rivoltare l’opinione pubblica contro i cospiratori; tuttavia, se in un primo momento poteva sembrare che la sua motivazione fosse l’incrollabile fedeltà verso Cesare, gli accordi presi segretamente con Ottaviano, nipote di Cesare, lasciano trapelare con forza il più che fondato dubbio di interessi di potere anche da parte sua. E’ dunque evidente che la tematica principale del dramma sono gli scontri a cui il potere può condurre; e a farne le spese sono anche uomini non colpevoli di nulla, come Cesare, o mossi da buone intenzioni, come Bruto, gli unici personaggi del dramma rispondenti al ritratto del vir romanus. A questi personaggi principali bisogna poi aggiungere la massa informe costituita dal popolo e dai soldati: questa, nel limitato spazio del funerale di Cesare, evidenzia tutta la sua incapacità e influenzabilità, cambiando idea al cambio dell’oratore; si tratta certamente di un terreno fertile per gli aspiranti dittatori, pertanto anche il popolo entra a buon diritto nel novero dei colpevoli degli scontri intestini e della rovina della patria.

Oltre al potere, altre tematiche tipicamente shakespeariane che si possono rintracciare nel dramma sono: l’importanza il rapporto dell’uomo con la fortuna e col destino, espresso da Cassio in una frase molto significativa (“C'è una marea nelle cose degli uomini che, colta al flusso, mena alla fortuna; negletta, tutto il viaggio della vita s'incaglia su fondali di miserie.”); la riflessione sul teatro, presente in una battuta sul comportamento dei congiurati, paragonato al ruolo dell’attore, che, secondo Shakespeare, deve recitare con animo solido e nobile fermezza, senza lasciar trasparire i pensieri reali: strettamente connesse a ciò sono l’importanza dell’arte della parola e la dissimulazione, elementi tipici di una situazione politica confusa, in cui tali fattori possono rivelarsi determinanti e vincenti.

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