Gita al faro
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Un lampo tra le tenebre del tempo
Se un libro è considerato un capolavoro, un motivo ci sarà. I libri belli non sono quelli che piacciono per forza a tutti, ma sono quei libri talvolta difficili che ti lasciano addosso qualcosa che sa di eterno.
“Al faro” non è per tutti, il lettore va avvisato. Il focus del libro non è assolutamente una piacevole ed agognata gita fuori porta che profuma di mare e risuona dei versi dei gabbiani. Se cercate questo nel libro, chiudetelo. Chiudetelo, assolutamente, perché siete a quanto di più lontano dall’opera della scrittrice.
Non è un libro di trama, è invece un libro di stile. Uno stile equilibrato, dove il virtuosismo non è troppo ardito e, quindi, accettabile.
Ho riscontrato una sola difficoltà. I flussi di coscienza sono multipli, ora entriamo nei pensieri di un personaggio, ora nei pensieri di un altro e questi voli pindarici, che talvolta si accavallano, richiedono concentrazione altrimenti si rischia di non seguire la scrittura. Io ho riletto le prime trenta pagine almeno due volte, poi sono riuscita ad armonizzarmi con lo stile e da allora è stata solo una piacevolissima scoperta.
Avevo già letto La signora Dalloway, ed apprezzato con immenso piacere lo stile della scrittrice. Ho trovato originale e particolare il romanzo “Orlando”, ma “Al faro” mi rende concorde con coloro che lo ritengono il capolavoro della Woolf.
Per apprezzare pienamente quest’opera secondo me, sarebbe interessante leggere il diario della scrittrice, perché è lì che lei spiega la concezione di To the lighthouse, tradotto ultimamente con il titolo “Al faro”, titolo più vicino all’idea del testo.
Non è la gita al faro il cuore della narrazione, ma la tensione verso un qualcosa incarnato da un faro, che potrebbe significare la verità, il senso del tempo, la realizzazione delle aspirazioni personali disattese.
Il faro potrebbe essere il ricordo della madre di Virginia Woolf, qui rappresentata dalla signora Ramsay.
Nel diario Virginia Woolf scrive:
“the presence of my mother obsessed me. I could hear her voice, see her, imagine what she would do or say as I went about my day’s doings. She was one of the invisible presences who after all play so important a part in every life […], It is perfectly true that she obsessed me, in spite of the fact that she died when I was thirteen, until I was forty-four”
Un giorno, la scrittrice, illuminata da una specie di correlativo-oggettivo, pensa a sua madre e immediatamente immagina un faro. Scrive velocemente il libro, libera un fiume in piena. La scrittura diventa la terapia per elaborare il lutto dopo tanti anni.
Ma “Al faro” è un concentrato di materia letteraria: non solo la figura centrale della madre che tiene unita la numerosa famiglia, ma anche il tema dello scorrere del tempo, della precarietà delle nostre vite, delle tensioni umane, dell’amore, delle ipocrisie, del non detto che rode le viscere, dei pensieri che scorrono più vivi e veri del meccanicismo delle azioni quotidiane. È un libro che parla di attese, di bellezza, di natura, di ricordi, di consuetudini di una famiglia che ad un certo punto perde il suo “faro”, e tutto questo è raccontato in una esplosione di immagini e di puro lirismo. Perchè il signor Ramsay e la signora Ramsay, tratteggiati magnificamente dalla penna della scrittrice, corrispondono grosso modo al padre e alla madre della Woolf!
Il padre, filosofo, con le sue idiosincrasie, le sue letture preferite, le sue concezioni sul sesso femminile, innamorato della bella moglie, odiato dai figli perché ama quasi contrariarli
“…i figli generati dai suoi lombi, dovevano rendersi conto sin dall’infanzia che la vita è difficile, la realtà intransigente, e il passaggio a quel paese favoloso ove le nostre speranze più vivide s’estinguono e le nostre frali scorze naufragano nella tenebra(…)”
(Traduzione Giulia Celenza, ediz. Garzanti)
La signora Ramsay, come la madre dell’autrice, rappresenta ciò che c’è di buono e di bello, è amata da tutti, mette una buona parola sempre per gli amici e muore prematuramente.
“Tutti ricorrevano a lei, da mattina a sera, così, perché era donna; chi voleva una cosa, chi un’altra; i ragazzi crescevano; e a lei pareva ormai d’essere niente più che una spugna inzuppata d’emozioni umane”.
Il libro è diviso in tre parti, un trittico di tre pannelli dove poesia e colori incontrano flussi di coscienza e talvolta epifanie liriche: La finestra, Il tempo passa, Il faro.
Interessante anche il personaggio di Lily Briscoe, che probabilmente è l’alter ego della Woof, nubile, pateticamente legata al sogno di dipingere bei quadri, che riflette sui rapporti tra i sessi:
“Ella non avrebbe mai capito quel giovanotto. Quel giovanotto non avrebbe mai capito lei. Le relazioni umane erano tutte così, ella pensava, e peggio ancora (fatta eccezione per il signor Bankes) quelle fra uomini e donne. Quelle poi erano estremamente ipocrite”.
Ah, l’amore, quel sentimento così “puerile, eppure così necessario!”
Raramente ho trovato pagine così intense, non serve leggere un libro di trama, i grandi autori non sarebbero grandi se avessero scritto libri “facili”. I grandi autori hanno fatto proprie le sensibilità del tempo in cui sono vissuti, le hanno rielaborate, hanno corretto centinaia di volte i loro scritti non punti dalle esigenze di mercato, ma dalle esigenze della letteratura. Quella vera.
Al faro è un libro pieno di luce e di colori, quelli ad acquerello che usa Lily Briscoe per dipingere la cara amica ormai estinta e quelli della letteratura che usa Virginia Woolf.
“Di scatto, come se qualcosa la richiamasse laggiú, si girò verso la tela. Eccolo – il suo quadro. Sí, con tutti i suoi verdi e i suoi azzurri, le linee che correvano verticali e di traverso, la sua aspirazione a qualcosa. L’avrebbero messo in soffitta, pensò, sarebbe andato distrutto. Ma che importanza ha? si chiese, prendendo di nuovo il pennello. Guardò i gradini; erano deserti; guardò la tela; era confusa. Con repentina veemenza, come se per un attimo lo vedesse distintamente, tracciò una linea là, al centro. Era fatto; era finito. Sí, pensò, posando il pennello stremata, ho avuto la mia visione.”
Voglio terminare con una piccola citazione di Hisham Matar (introduzione, edizione Einaudi):
“…l’intero romanzo è come un lampo che per un istante inonda la foresta. Invece di disperdere l’oscurità, ne lascia una traccia indelebile”.
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Le onde
Mi aspettavo di più
Ecco che finalmente sono riuscita a leggere il famoso romanzo di Virginia Woolf, "Gita al faro". Talmente famoso che molti tendono a iniziare proprio da esso e sono contenta di non averlo fatto e questo perché, a mio gusto personale, non rientra tra i migliori che ho letto. Mi ha lasciata una sensazione di incompletezza con un messaggio che non sono riuscita a captare nel suo insieme. Tra le tre parti che compone l'opera ho amato la parte centrale in cui fa da personaggio la natura, che si impossessa del tempo e della materia, natura viva e piuttosto ostile ma immensamente bella. Questa parte l'ho trovata molto poetica e anche godibile come lettura. Ciò che ho apprezzato meno in essa è come l'autrice ha gestito l'inserimento dei fatti avvenuti nel tempo come per esempio la morte della signora Ramsay o di Prue, che vengono intercalati tra una descrizione e altra tra parentesi quadre. Ora non so se è una scelta editoriale della mia edizione o il volere della Woolf ma personalmente l'ho trovato poco armonico. Magistrale il flusso di coscienza della prima parte ricco di dettagli che l'autrice riesce a portare avanti, tuttavia un flusso di coscienza abbastanza "elementare" a mio avviso- infatti si seguono tranquillamente i pensieri intercalati dei vari personaggi. Molto bella anche la terza parte, con un finale che sa di un cambio di prospettiva e molto simbolico per come l'ho interpretato, sembra quasi che l'intera storia sia il quadro finalmente finito di Lilly Briscoe ma anche l'atto creativo dell'opera in sè.
I temi trattati sono molti, quello che più mi ha colpita e che l'ho trovato molto incisivo e ben descritto è quello della nostra vita interiore, c'è un bellissimo passaggio in cui si parla della signora Ramsay, figura misteriosa per questa sua duplice vita interiore ed esteriore, in cui si dice che siamo immersi in pozzo oscuro, profondo ma ogni tanto saliamo in superficie e questo rappresenta ciò che gli altri sanno di noi. Anche il romanzo stesso gioca non tanto sui fatti veri e proprio, essendo esente quasi di trama e nemmeno su dialoghi ma su profondi monologhi interiori. Ha anche una sottile vena macabra, crudele, con James che in più occasioni ha pensieri omicidi sul padre, pensieri piuttosto violenti. Lascia un senso di tristezza e nostalgia.
Riassumendo, mi è piaciuto molto ma non moltissimo, me lo aspettavo più armonioso e a tal proposito non posso non nominare "Le Onde", scritto qualche anno dopo dove regna l'armonia perfetta, poesia vibrante e un flusso di coscienza davvero magistrale.
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Dispersivo
Difficile dire se sia principalmente dovuto alla concomitanza della lettura con un periodo di forte stress, ma ho fatto davvero molta fatica ad apprezzare questo romanzo di Virginia Woolf. In primis per la tecnica narrativa, sicuramente dall’impronta innovativa ma che io non sono riuscito ad apprezzare: il flusso di coscienza è già di per sé complicato da seguire, già quando si concentra solo su di un personaggio in particolare, figurarsi quando si passa da un personaggio all’altro come se fossimo all’interno d’una mente collettiva. Troppo dispersivo, confuso, quasi richiede l’attenzione che si dovrebbe riservare a un’opera poetica e questo è una caratteristica che in un’opera di prosa non apprezzo.
Opinione strettamente soggettiva, ma tant’é.
È stato proprio il capitolo centrale del romanzo a farmi capire che questi sbalzi tra i pensieri dei personaggi erano il motivo di tanta fatica: è quello che ho apprezzato di più proprio perché v’è la scomparsa della componente umana e dunque del brulichio confuso dei loro pensieri; tutto si concentra sul decadimento e sulla nuova presa di potere della natura, che soppianta quel che l’uomo ha lasciato vuoto e sembra prosperare in sua assenza. Le descrizioni della Woolf in tal senso sono molto evocative (sebbene talvolta eccessive e molto astratte).
Riguardo a quel che ci viene raccontato all’interno del romanzo non c’è molto da dire: non v’è una vera e propria trama, ma soprattutto il delineamento di alcuni caratteri sui quali spicca quello della signora Ramsay, vero perno della famiglia che fa sentire la propria presenza anche in seguito alla propria dipartita. È lei la vera presenza costante del romanzo, una donna dalle spiccate qualità relazionali, un fermo appiglio per tutti gli elementi della famiglia, motore d’un cambiamento radicale anche in personalità apparentemente granitiche e che dalla sua morte hanno acquisito la consapevolezza della bellezza della sua figura, della sua importanza.
Credo sia una lettura che gli amanti della poesia potranno apprezzare molto più di me.
“Inseguire la verità con tale stupefacente mancanza di rispetto per i sentimenti altrui, lacerare i veli sottili della cortesia in modo così gratuito, così brutale, era per lei un oltraggio così orribile alla decenza umana che, senza replicare, annichilita, chinò il capo come per evitare una gragnuola di taglienti chicchi di grandine, uno scroscio d’acqua sporca. Non c’era nulla da dire.”
«Se domani fa bel tempo»
"Gita al faro" di Virginia Woolf è una lettura tutt’altro che semplice, piacevole o scorrevole. Per la maggior parte del tempo è incredibilmente complessa, confusa e sfuggente. La trama, esilissima, lascia spazio (anche troppo) alla minuziosa introspezione psicologica dei personaggi. Il flusso di coscienza ininterrotto che mette a nudo ogni singolo pensiero è difficile da seguire e in un attimo si perde il filo e ci si ritrova smarriti in riflessioni che appaiono senza né capo né coda. La lentezza estrema della narrazione, poi, non aiuta a tenerne le fila, ma anzi appesantisce la lettura e favorisce la distrazione.
Per il virtuosismo stilistico, una prosa che quasi sfiora il lirismo della poesia, la struttura sperimentale che riduce al minimo la trama e lascia spazio al mondo interiore dei personaggi, "Gita al faro" è senza dubbio un classico di importanza innegabile per la storia della letteratura, travagliato frutto delle fatiche di una dei più grandi autori del XX secolo che proietta le vicende della propria infanzia nella vacanza alle Isole Ebridi della famiglia Ramsey. La scrittura è raffinatissima nel tracciare quasi con commozione il ritratto dei coniugi Ramsey, specchio dei genitori dell’autrice: lui un intellettuale debole, egoista, vanitoso, che nega una gita al faro al figlio bambino con la scusa del tempo, lei madre dolce, amorevole, attenta ai bisogni di tutti («Sì, certo, se domani fa bel tempo» promette al piccolo James, che chiede ansiosamente se l'indomani potrà vedere il faro), una figura statuaria, seducente, dalle mille sfaccettature, vero perno della narrazione che lascia dietro di sé un vuoto desolato quando svanisce, forse incarnazione del senso classico del racconto che il romanzo novecentesco sta ormai perdendo a favore dell’esplorazione di nuove strade.
Intorno ai Ramsey, nella loro casa delle vacanze, ruotano diversi personaggi secondari tra i quali spiccano Charles Tansley, piccolo studioso discepolo del signor Ramsey, convinto che le donne non sappiano eccellere in nessuna forma d’arte e costantemente impegnato ad autocelebrare se stesso per essersi "fatto da solo", forse portavoce di convinzioni maschili che Virginia Woolf deve aver ascoltato più volte nel suo percorso di scrittrice e intellettuale, e la giovane e tormentata pittrice Lily Brascoe, personificazione dell’autrice e testimone di quanto il travaglio che genera la creazione artistica possa essere difficile e avvilente. L’immersione nelle loro menti è altrettanto faticosa, pesante, farraginosa, e tuttavia il risultato è arte. In questo romanzo Virginia Woolf mostra la capacità straordinaria, come tutti i "grandi", di scandagliare l’animo umano fin nelle pieghe più sottili e nascoste, portando alla luce tormenti, desideri, paure, amarezze, inquietudini, tutta la banalità di quella massa viva e pulsante che è l’esistenza umana. "Gita al faro" non sarà una lettura piacevole e scorrevole, dunque. Non sarà il romanzo ideale se si cercano divertimento, evasione e vicende appassionanti. Ma un capolavoro che scava l’anima, questo sì, lo è.
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Tempo e vita
È all’età di quarantatré anni di quel 1925 che Virginia Woolf sente tornare ad emergere dentro di sé la presenza di quel fantasma, di quella presenza invisibile che colora la vita di ogni essere umano quando protagonista è la perdita. Per lei, quello spettro, non è altro che la madre, venuta a mancare quando aveva appena tredici anni e veduta morire con quella incredulità propria di occhi innocenti ancora incapaci di comprendere davvero quell’inesorabilità della separazione per mortis causa sino a cui sopraggiunge quella insopportabile consapevolezza, realizzazione del pre e post lutto, che va dalla trasformazione dell’affetto da bello e onnipresente a spezzato dalle circostanze a spirito la cui presenza è un ricordo che è fattore centrale nella mente per moralità e insegnamenti.
E così passano gli anni ma non passa mai la figura di questa donna e del suo esser stata. Da qui il bisogno di scrivere, di interrogarsi sul mistero dell’esistenza, del fato, delle certezze e delle insicurezze, di quegli avvenimenti inspiegabili con cui soventemente dobbiamo far i conti. Un senso di precarietà, di bilico che percepiamo con tutta la sua forza dirompente in “Gita al faro”, un’opera che ha inizio con una constatazione dal doppio riverbero essendo condizionata la sua riuscita al sopraggiungere o meno di fattori esterni, quali il fare o meno bel tempo. Un po’ come nel quotidiano, nell’esistenza che si perpetra giorno dopo giorno in un alternarsi di temporali (che come la metafora della luce del faro è la colonna portante dello scritto) e attimi di quiete. Dette antitesi, si susseguono per l’intero narrato e ben si coniugano con le singole personalità introdotte che, seppur riunite in un luogo comune, la villa dei Ramsay, agiscono e operano come particelle indipendenti, ovvero con una straordinaria autonomia che li porta a coesistere esclusivamente che per brevi anfratti per poi nuovamente tornare alla propria intima condizione di solitudine.
Tre le parti in cui l’elaborato è suddiviso. Nella prima, “La finestra”, conosciamo la famiglia Ramsay e apprendiamo della sua vacanza sull’isola di Skye nelle Isole Ebridi. A seguito della prima contrapposizione dettata dall’incertezza della gita prevista per il giorno successivo e alla tensione che ne emergerà tra coniugi, conosciamo tanti colleghi e amici della famiglia per giungere all’ultimo capitolo ove ha luogo la cena che al suo interno racchiude molteplici aspettative di fatto disattese.
Nella seconda, “Il tempo passa”, la Woolf si sofferma sullo scorrere del tempo. Il ruolo di questa sezione, a mio avviso, è quella di collegare la prima alla terza passando tra gli anni del Primo Conflitto Mondiale sino al presente.
Infine, nella sezione intitolata “Il faro”, vi è un ritorno al passato dei membri superstiti della famiglia Ramsay, che si recano alla loro casa delle vacanze progettando nuovamente quella gita al faro non compiuta dieci anni prima.
Tante le tematiche care all’autrice che è possibile ravvisare all’interno dell’opera e che vanno dall’ambivalenza tra cuore e mente, ragione e istinto, il tempo, le illusioni, il sogno, la vita che per quanto cerchiamo di trattenere è un flusso inarrestabile che non agisce in virtù delle nostre speranze, delle nostre aspettative, che non trattiene il desiderio per lasciarlo andare, l’amicizia, la famiglia, la memoria che non cura bensì rimarca il dolore, il rimpianto, il disequilibrio, l’introspezione.
Il tutto è avvalorato da una penna quasi poetica che ha la capacità di disegnare nella mente del conoscitore immagini di grande pregio e che al contempo tesse un legame indissolubile tra ogni singola parte del libro poiché ciascuna è perfetta conseguenza e successione dell’altra facendo integrare elementi tra loro diversi che coabitano senza mai tra loro prevaricare. I protagonisti rappresentano invece l’emblema di quell’emozione che è propria dell’umanità.
In conclusione, una perfetta tradizione del romanzo modernista in cui alla trama prevale l’introspezione psicologica dei personaggi, con una forte nota autobiografica e dalle molteplici riflessioni sul vivere, sul nostro essere.
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APPUNTAMENTO FALLITO CON IL DESTINO
“La vita – ha scritto Virginia Woolf – è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che avvolge completamente la nostra coscienza”. Della coscienza, appunto, di questo impalpabile e inafferrabile mistero quotidiano, la grande narratrice inglese ha descritto gli intimi riverberi e chiaroscuri, gli aneliti appassionati e i riflessivi ripiegamenti, dando alla sua lirica prosa le fragili sembianze della poesia. Straordinariamente recettiva, la penna della Woolf ha assorbito e registrato il fluire sconnesso e disordinato delle impressioni, dei pensieri e delle emozioni dei suoi personaggi e su questo inconsistente terreno ha edificato come per incanto una costruzione armoniosa ed equilibrata: “Gita al Faro”.
Fin dalle prime parole, fin dalla breve e lapidaria frase che, con l’annuncio dell’imminente escursione al Faro, apre in minore il romanzo (“«Sì, di certo, se domani farà bel tempo»”) veniamo introdotti nel cuore del mondo woolfiano. E’ un mondo in cui ogni impressione di gioia, di serenità e di sicurezza si rovescia in qualcosa di triste e di precario, pervaso da un’ombra di cupo fatalismo. L’iniziale affermazione (“Sì, di certo”), la quale procura al piccolo James una felicità immensa, è infatti significativamente corretta da una condizione (“se domani farà bel tempo”) che increspa, irrimediabilmente rovinandolo, il piacere dell’attesa; e un senso di occasione sciupata, di appuntamento fallito con il destino, si insinua nel romanzo, condizionandone tutto lo sviluppo futuro. L’andamento contrappuntistico è tipico di quest’opera. Termini come “oscurità e luminosità”, “ombra e splendore”, ad esempio, si alternano ritmicamente tra loro, con una intermittenza per molti versi simile a quella del fascio di luce del Faro, il quale non a caso rappresenta una delle fondamentali metafore del libro. Vi è poi il contrasto tra le singole, non amalgamabili, entità individuali: i numerosi personaggi riuniti nella villa dei Ramsay si muovono come particelle indipendenti e disaggregate, che solo raramente e per breve tempo riescono a trovare un momento di coesione, prima di disperdersi nuovamente nel vuoto. Gli stessi coniugi Ramsay, i quali esprimono la contrapposizione, abituale in Virginia Woolf, tra cervello e cuore, tra ragione e istinto, sono incapaci di comprendersi o aiutarsi, e sotto l’usurata superficie dei gesti quotidiani si comportano come due perfetti estranei. Esemplare, a questo proposito, è il dialogo che essi intrattengono nel giardino, quando si aggirano lungamente intorno agli argomenti che stanno loro a cuore, ma, senza risolversi mai (per mancanza di coraggio o eccesso di riguardo) ad affrontarli, si accontentano di conversare futilmente dei fiori e delle borse di studio dei figli; o il momento di intimità che segue la lunga cena, durante il quale la signora Ramsay capisce che il marito “desiderava qualcosa; desiderava ciò che a lei riusciva sempre tanto difficile concedergli; desiderava che lei gli dicesse che lo amava… Ma ella non poteva accontentarlo; non poteva dir certe cose”.
Molte altre significative antitesi sono disseminate nel romanzo (ad esempio, il contrasto tra aspirazioni e realizzazioni o quello tra illusione e realtà – ne parlerò più avanti -, e ancora la contrapposizione tra razionalità soggettiva e irrazionalità oggettiva), ma il fondamentale contrappunto, quello su cui si regge l’intera impalcatura di “Gita al Faro”, è quello temporale. La Woolf sembra catturare il tempo e restituircelo nelle sue implicazioni emotivamente più forti. I dieci anni che separano la prima parte dalla terza sono una tormentosa frattura che invano i protagonisti ancora in vita cercano di colmare con il ricordo. La vivida sovrapposizione, nella memoria, di passato e presente, il periodico riaffiorare di reminiscenze lontane (il sogno di Camilla, il rammarico di James provocato dalla mancata effettuazione della gita) si scontrano infatti con una realtà in cui è avvertibile (anche fisicamente: i gradini vuoti della casa) la mancanza delle persone amate, che un giorno avevano trasmesso agli altri il loro inconfondibile fluido vitale e che ora sono scomparse, per sempre. Non c’è strazio né disperazione in queste riflessioni sul passare del tempo, ma solo una contenuta commozione, un delicato struggimento. Nel passato ci si illude spesso di trovare conforto, di poter contemplare, fissandolo per sempre, il flusso inarrestabile della vita, come ama sognare la signora Ramsay (“…giudicò di poter ritornare nel mondo dei sogni, in quel luogo irreale e incantevole che era il salotto dei Mannings di vent’anni prima; e dove era possibile aggirarsi senza fretta o ansietà, perché non v’era da pensare al futuro. Ella sapeva quanto era accaduto allora a quegli amici e a lei. Era come rileggere un bel libro di cui si rammentava la fine; perché l’accaduto era di vent’anni prima e la vita, che sgorgava a fiotti perfino da quella mensa per fluire Dio sa dove, lassù era suggellata, placidamente conclusa, come un lago fra le sue rive”); ma appunto di sogni si tratta, perché in Virginia Woolf la memoria non ha la funzione consolatoria della Recherche proustiana, ma è, come scopre a sue spese Lily Briscoe, richiamando alla mente l’amata signora Ramsay, una lama che trafigge dolorosamente il cuore. “Il rimpianto vano, il desiderio struggente, come, quanto stringevano il cuore!… Sembrava così innocuo pensare a lei. Ella pareva uno spirito, un alito, qualcosa con cui giocare facilmente e senza pericolo in qualunque momento del giorno e della notte, ed ecco, all’improvviso allungava una mano per stringere a quel modo il cuore altrui. All’improvviso, i gradini vuoti all’ingresso del salotto, gl’intagli della sedia all’interno, il cucciolo scherzoso sul piazzale, tutta l’onda di bisbigli che aleggiava sul giardino divenivano curve e arabeschi volteggianti attorno a un centro d’assoluta vacuità”. Il passato, lungi dal consentire di raggiungere l’agognato equilibrio, la bramata pacificazione, svela impietosamente il disordine, il caos, la mancanza di senso della vita, ricordandoci “che ogni persona è sostanza effimera; che nulla permane, che tutto si trasmuta”. L’invocazione della persona amata che non c’è più, anziché dare sollievo, diventa così un vano tendere le braccia brancicando nel buio o un singhiozzo che ci soffoca e che non riusciamo a trattenere.
Questa complessa e affascinante elegia della memoria è tradotta in immagini elaborate e musicali, fitte di rispondenze e di suggestioni ritmiche, mediante le quali Virginia Woolf (in questo sicuramente debitrice del quasi contemporaneo Joyce) si sforza di descrivere l’ininterrotto flusso di coscienza dei suoi personaggi. La scrittrice, che pur non rinuncia a narrare in terza persona, indaga a fondo la realtà interiore di ciascuno, registrando, per mezzo di un fitto e ininterrotto monologare, l’intersecarsi di differenti piani temporali e l’alogico fluire di richiami e associazioni di idee (valga per tutti questo esempio: “…a un tratto egli s’avvide che si trattava di questo, sì di questo: ch’ell’era la più bella donna che avesse mai veduta. – Cogli occhi stellati e veli alle chiome, con ciclamini e viole – che sciocchezze gli venivano in mente? Ell’aveva almeno cinquant’anni; aveva otto figli. – Andando su prati fioriti e stringendo al seno bocciuoli recisi e agnelli smarriti, cogli occhi stellati e le chiome al vento… Le prese la borsetta”). Questa acuta e delicata esplorazione delle coscienze è modulata in tre tempi, ognuno dei quali è caratterizzato da un proprio inconfondibile ritmo: il primo è un lunghissimo piano sequenza, in cui dal rigoroso rispetto del tempo reale scaturisce, per mezzo di una raffinata tecnica di raccordi ed interconnessioni che lo moltiplica nelle coscienze dei personaggi, un effetto di dilatazione; il secondo, al contrario, condensa dieci anni di vita in poche decine di pagine ed è simile, musicalmente parlando, ad un elegiaco adagio; il terzo tempo, infine, riprende le fila del primo, però con una importante differenza: la vicenda (se di vicenda si può parlare, data la mancanza di un vero e proprio intreccio narrativo) abbandona l’unità di spazio e si sviluppa parallelamente tra il giardino della villa dove è rimasta a dipingere Lily Briscoe e il mare su cui veleggia, in direzione del Faro, l’imbarcazione del signor Ramsay.
Le tre parti del romanzo interagiscono perfettamente tra loro, e il fattore connettivo è rappresentato dalla riuscita simbiosi tra l’attività psichica dei personaggi e la realtà esterna. Più che svilupparsi su due piani distinti, il romanzo lascia che i due elementi si integrino, si sovrappongano, influenzandosi a vicenda. E’ sorprendente, ad esempio, come la Woolf segua il corso di pensieri dei personaggi senza per questo perdere mai di vista ciò che essi stanno facendo. Quando la signora Ramsay riflette sullo stato malandato della casa e nel contempo misura la lunghezza del calzerotto sulla gamba del figlio, l’effetto che si ricava non è di semplice parallelismo, ma di vera e propria contemporaneità. Ancora più significativo è il fatto che nel mondo woolfiano l’ambiente e la natura non hanno solo una funzione scenografica e decorativa, ma condizionano attivamente, spesso modificandoli, gli stati d’animo degli esseri umani. “Andavano lì regolarmente ogni sera, quasi per una necessità. Pareva che l’acqua portasse al largo, facesse navigare sull’onde pensieri stagnanti in terraferma, dando così ai loro corpi una specie di fisico sollievo… Sorridevano entrambi, sostando lì. Entrambi sentivano una comune ilarità, eccitata dalle mobili onde; eppoi dalla rapida netta corsa d’una nave, che, dopo aver stagliato una curva nella baia, sostava, fremeva, abbiosciava le vele; e allora… entrambi, al quietarsi di sì rapido moto, guardavan le dune lontane, e invece di gaiezza sentivano calar sull’animo una vaga malinconia: parte perché qualcosa aveva compimento, parte perché il remoto paesaggio sembrava dover sopravvivere per migliaia d’anni (così Lily pensava) allo spettatore, esser già in comunione con un cielo contemplante una terra in estremo riposo”.
I personaggi di “Gita al Faro” sono tutti straordinariamente permeabili all’evocativo potere delle cose, dei suoni e dei colori (al signor Ramsay, ad esempio, una determinata siepe è in grado di far scaturire una conclusione filosofica, un vaso di gerani definire i processi del suo pensiero), così che le loro emozioni nascono prevalentemente da una trasformazione dell’”oggettivo” in “soggettivo”. L’animo umano è una sensibilissima antenna puntata verso l’universo, e ogni minima irradiazione esterna (come il volo di un uccello o la vista di una nuvola) vi si rifrange in una miriade di vivide e indelebili impressioni. Esemplare è la scena in cui “il monotono sciabordio delle onde sulla spiaggia… di solito… accompagnava i pensieri della signora Ramsay con un tamburellio misurato e blando, simile a parole d’antica ninnananna mormorate dalla natura… ma altre volte, a un tratto, inopinatamente,… non aveva senso sì benigno, ma, quasi spettrale rullio di tamburi, batteva spietato il ritmo della vita,… ed ammoniva lei, i cui giorni erano dileguati in rapida successione di doveri da compiere, che tutto era effimero come l’iride”.
L’essere umano può essere definito, generalizzando ciò che la Woolf dice riferendosi alla signora Ramsay come “una spugna imbevuta di emozioni”. Il suo rapporto con le cose non è però, come potrebbe sembrare a prima vista, un fenomeno involontario o inconscio, ma è il risultato di una ben precisa, ancorché non del tutto decifrabile, tendenza, quella di “volgersi in solitudine verso le cose, le cose inanimate – alberi, torrenti, fiori -, come a forme d’espressione, col senso d’assimilarle, d’esserne inteso, di farne parte”. In questa brama di autoannullamento l’uomo esprime soprattutto il desiderio di stabilire un rapporto pacificato con la realtà e di ottenere una risposta ai quesiti esistenziali che lo assillano, come se egli intuisse che se solo fosse in grado di mettere insieme le cose come parole in una frase esse sarebbero capaci di svelare l’inafferrabile mistero della vita.
Anche la fede nelle cose, così come la fede nella memoria, è destinata però a venire presto disillusa. Virginia Woolf non lo dice chiaramente, neppure a mezze parole, ma lascia intendere che l’unico mistero che le cose custodiscono è la precarietà dell’uomo, la mancanza di senso della vita, la fuggevolezza del tempo. Il sogno che la felicità prevalga, che il bene trionfi, e la speranza di trovare nella natura una spiegazione sono qualcosa di ingannevole, sono solo i riflessi di uno specchio che ogni uomo porta dentro di sé e che deforma le sue percezioni reali. Il senso di inquietudine che si affaccia talvolta nei personaggi di “Gita al Faro” è la malinconica intuizione di questa verità negativa: “«Tutto è finito», pensò la signora Ramsay, mentre gli ospiti entravano… le sembrò che sulle cose fosse caduta un’ombra la quale, cancellandone il colore, gliele mostrasse nel loro aspetto più vero”. Quando poi lo specchio si infrange del tutto, la contemplazione delle cose, che prima sembrava promettere la salvezza, diventa intollerabile: all’uomo, tradito dalla vita, non resta forse che sperare nella morte.
I personaggi di “Gita al Faro” si sforzano in continuazione, con patetica fiducia, di aderire alla vita, ma fra loro e la realtà si frappone sempre uno scarto, una piccola, insanabile frattura: il signor Ramsay cerca la Verità ultima e indiscutibile, ma è consapevole di non essere in grado di arrivare fino in fondo (cioè alla lettera Z, lui che è giunto con immensi sforzi solo fino alla Q); la signora Ramsay si avvicina maggiormente a un armonico accordo con la realtà, ma la sua premonitrice paura di vedere distrutto da un momento all’altro il suo equilibrio (“ma non può durare” è il suo pensiero ricorrente) le impedisce di raggiungere una autentica felicità; Lily Briscoe, infine, tenta di trasferire sulla tela il mondo intorno a lei, di tradurre concretamente il sublime riflesso che le cose proiettano nel suo animo, ma lo sforzo artistico è palesemente inadeguato e solo qualche misero, imperfetto avanzo della sua visione può essere fissato per sempre nel dipinto. In un romanzo ricco di simbolismi (basti pensare al Faro, che, dopo essere stato per lungo tempo un luminoso e irraggiungibile punto di riferimento, alla fine del libro appare a James come “una torre nuda sopra una squallida roccia”), il quadro di Lily rappresenta certamente lo sforzo di estrinsecare il proprio io, il tentativo di aprirsi al mondo, in parole povere la vita umana, la quale riesce quasi sempre molto diversa da ciò che si vorrebbe essa fosse, vuoi a causa della distruttiva consapevolezza che “non si può esprimere ciò che si pensa” vuoi per il fatto che in questo sforzo di conoscenza l’uomo è necessariamente solo (Lily, ad esempio, difende strenuamente la sua intimità, pur sapendo che, in fin dei conti, da essa non riceverà in cambio che solitudine e infelicità). Se la grande rivelazione è irraggiungibile o non esiste affatto, al suo posto, nella ripetizione infinita della natura che l’uomo chiama tempo, egli trova solo brevi istanti di visione, “piccoli miracoli quotidiani, illuminazioni, fiammiferi accesi all’improvviso nel buio”. Quella della Woolf può essere definita, a mio parere, come una vera e propria poetica del momento. “Quel momento appariva estremamente fecondo. Ed ecco, la signora scavava una buchettina nella sabbia; eppoi la ricopriva, come per racchiudervi la perfezione di quel momento. Ed esso era pari a goccia argentea, che rendesse luminosa, irrorandola, l’oscurità del passato”.
Solo quegli istanti di accecante perfezione possono dare un senso alla vita, e su uno di essi (la visione che permette a Lily di terminare il quadro) si chiude il romanzo. Non bisogna però credere che la conclusione di Virginia Woolf sia del tutto serena e rassicurante. Ricordiamoci che alla fine della prima parte c’è un analogo momento di appagamento, quando la fusione tra i commensali che si sono riuniti intorno alla tavola di casa Ramsay è finalmente completa: “(La signora Ramsay) si librava, come un falco sospeso sull’ali, come bandiera sventolante, in un elemento di gioia che compenetrava ogni fibra del suo corpo soavemente, senza strepito, quasi solennemente: esso proveniva… dal marito, dai figli, dagli amici; e, levandosi in quella profonda pace…, sembrava fluttuare, senza special motivo, come un fumo, come un vapore esalante verso l’alto, e racchiudere la comitiva in un’atmosfera di sicurezza. Non occorreva dir nulla; non c’era da dir nulla. Una placida gioia era diffusa intorno, ricingeva tutti”. Eppure qualche pagina dopo c’è la triste, dolente elegia di “Passa il tempo”, in cui assistiamo all’implacabile distruzione di questa visione da parte del tempo. La vita – sembra dirci la Woolf – è una sommatoria di momenti, alcuni insignificanti, altri importanti, altri ancora addirittura decisivi, ed essi sono indubbiamente l’unico motivo per cui valga la pena di vivere; ma alla fine – e questo è forse l’unico grande, doloroso mistero dell’universo – il risultato per tutti dà sempre, sconsolatamente, zero.
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Tempo perduto e ritrovato.....ù
La famiglia Ramsey, otto figli sempre critici soliti raggiungere il rifugio inespugnabile delle proprie stanze, il signor Ramsey, meschino, vanesio, egocentrico, viziato, timoroso dei propri sentimenti, un tiranno, la signora Ramsey, una donna che possiede la fiaccola della bellezza, spesso silente perché non c’è nulla da dire, con l’ impressione di essere una spugna intrisa di sensazioni umane, che sa senza avere appreso.
Lui e’ quello famoso, voluto, ricercato ma tutti si rivolgono a lei naturalmente, in quanto donna e necessaria. Una solitudine, la sua, alla costante ricerca di equilibrio, spesso indignata ed angosciata, mentre i figli crescono, il tempo scorre, e si trova a reggere con imperturbabile calma destini che assolutamente non capisce.
Vive un rapporto speciale con il figlio James, le piacerebbe conservare ed accudire un bimbo piccolo per sempre, ma sa bene che i bambini non dimenticano e quanto sia importante ciò che si fa e si dice loro.
Una gita al Faro prospettata, attesa, sempre rimandata, rincorsa per dieci lunghi anni, quel venerando Faro austero e distante, epicentro di illusioni, ricordi, rimpianti, ora immobile e vicino, ora distante e lontano, un raggio di luce divenuto il proprio raggio.
E poi la vita, sorprendente, inattesa, sconosciuta, impressioni deposte dal tempo nel cervello senza potersi opporre alla fertilità ed alla indifferenza della natura, a tutte le sensazioni vissute, in solitudine, a momenti di cui è fatto ciò che rimane per sempre.
Una vita spesso spaventosa, ostile, pronta a colpirti e così, anni dopo, quella dimora è stata abbandonata, disertata, coperta da un’ ombra di morte ed indifferenza mentre una lunga notte sembra esservisi insediata per sempre.
Ora possiede il volto dei superstiti e di chi l’ ha frequentata per anni, relazioni iniziate ed interrotte nel cammino della vita, immagini ancora vivide, ricordi sbiaditi, un nome urlato nel silenzio per riesumare una vecchia presenza, ma la signora Ramsey, che aveva programmato tutto, è morta, e le cose sono cambiate.
Il signor Ramsey conserva la propria imperturbabile presenza-assenza, poco interessato agli altri ed agli eventi, immerso, come sempre, in pensieri e parole, mentre i figli, ormai adulti, continuano a guardarlo, con attimi di indulgenza, ed Il Faro, una volta raggiunto, potrebbe rappresentare l’ epilogo desiderato ma, come sempre, sono i ricordi, i sogni, ed il fluire del tempo ad esprimere la pura essenza.
Un romanzo memorabile, il capolavoro della grande autrice inglese, una caleidoscopica rappresentazione ed interrogazione sul senso primario della vita, sulla natura delle cose, in un viaggio oltre il tempo, in una dimensione parallela, un soffio intriso di dolore e vuoto esistenziale .
Una scrittura densa, ricca, che abbraccia una profondità intellettiva unica e stupefacente in una perfetta fusione tra stile e contenuto, come solo i grandi autori sanno pensare e rappresentare.
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Il cerchio della vita
Romanzo tripartito: “La finestra”, “Lo scorrere del tempo”, “Il faro”. Una gita negata, una gita imposta a chiudere un ventaglio di possibilità, un immaginario non compiuto, a sintetizzare ciò che si vorrebbe e ciò che si ha.
Prova magistrale e a livello stilistico e a livello contenutistico.
Siamo dentro una famiglia, un uomo e una donna opposti per vedute, per atteggiamenti, per sensibilità eppure complementari. Otto figli. Siamo in vacanza con loro, a ridosso di uno scoglio con faro: la meta ambita, vagheggiata ma al momento inarrivabile. Siamo con i loro ospiti, ne cogliamo i pensieri anche se è facile confondersi nello scoperchiamento neuronale messo in scena dalla tecnica del flusso di coscienza. Siamo però soprattutto coinvolti da lei, la vera protagonista, il faro della famiglia: la signora Ramsey. Il suo pensiero subitaneo, ratto, ineffabile è lucidamente creato e rappresentato nel suo divenire, il suo turbinio la avvolge , la mente sconvolta. Restituire quei pensieri così intimi, così femminili, così a tratti cupi e malinconici, è pura maestria. Fa paura, perfino. Come è riuscita la Wolf a rappresentare questa velocità, questa ineffabilità, questa verità? Probabilmente attingendo da un serbatoio di viva sensibilità, dal suo humus intellettivo, dal lavorio incessante della sua mente eccelsa.
Di che cosa parla il libro? Dei nostri pensieri, della nostra consistenza, del nostro mistero. Del sogno, dell’ambizione, dello scontro tra ideale e reale e del loro possibile incontrasi. Del tempo e della sua circolarità, dell’attribuzione di significato a eventi e persone e della loro comprensione reale quando tutto è già passato. Ci si ritrova chiunque , in qualità di essere umano. Perfetta fusione di stile e contenuto per un’opera la cui piacevolezza risiede nella sua fine sensibilità.
Adatto a tutti i naviganti, anzi vivamente consigliato.
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Flussi
(E' la prima recensione che scrivo, non credo nemmeno si possa definire tale, ma voglio provarci. Cogliere spoiler qui non è difficile.)
Una storia intrisa di sentimenti e passioni, un invito silenzioso a un viaggio che si consuma nell'attesa di quello più sofferto, della meta finale. Il destino di alcuni prevede, anticipandola, un'altra destinazione, la più ovvia, la più naturale. La vita scivola tra le dita, sia che scrivano o che dipingano, o che semplicemente si muovano, così che continuino a fare di essa l'arte di un poeta, di una pittrice, di una semplice donna che, seduta accanto al figlio, alla finestra, lavora a maglia.
Questa vita si concentra dopo 10 anni alla meta, ormai raggiunta, che è il Faro, dove si mostra per quel che è: una continua resistenza al tempo che scorre così come scorrono le dita su una tela o su un foglio bianco, una sfida ad accettare ogni epilogo, un quadro da finire.
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Il faro della mente
(Attenzione spoiler)
Questo romanzo della Woolf mostra chiaramente come la trama abbia un'importanza secondaria rispetto all'introspezione dei personaggi. Ho notato che ciò viene esaltato anche graficamente dalla Woolf, la quale enuncia in modo del tutto casuale le azioni che fanno progredire il racconto ponendole di sovente fra parentesi, mentre pone in rilievo il significato recondito che queste azioni hanno sui personaggi.La trama proprio per questo appare delineata mentre prevalgono i flussi di coscienza. Un aspetto molto importante sono i personaggi di cui noi percepiamo solo l'interiorità in quanto non sono quasi mai descritti fisicamente e appaiono in una conformazione molto comune cioè come una famiglia in vacanza con amici e colleghi presso le isole Ebridi. Da questo impianto fortemente autobiografico si dipartono le riflessioni dei vari personaggi dal forte impatto psicologico. Due dei personaggi più importanti sono i coniugi Ramsay. La signora Ramsay è il personaggio di maggiore rilievo anche perchè lei si identifica con il Faro che è il tema principale del libro. Una delle sue caratteristiche è la bellezza dinamica: infatti, la sua bellezza a tratti emerge, a tratti s'inabissa, scompare un po' come la luce del Faro che non sempre è visibile. Lei è un personaggio che razionalizza la confusione di tutti gli altri personaggi, la sua visione del mondo non è del tutto positiva, infatti teme per i suoi figli, teme la loro infelicità quando ormai diventeranno adulti. Infatti, la signora Ramsay cerca sempre di addolcire la realtà, di confortare i figli, come ad esempio all'inizio, quando pronostica il bel tempo pur essendo impossibile che tale condizione si realizzi, oppure si nota quando supporta il marito che ha bisogno di sentirsi apprezzato come intellettuale. Inoltre mi ha molto colpito una frase che ricorre nellla prima parte del libro, cioè l'abitudine della signora Ramsay di lasciare le porte chiuse ma le finestre aperte. Le porte infatti, vanno chiuse per impedire che qualcuno a livello metaforico violi la psiche rappresentata dalla casa, mentre dalle finestre entra l'aria, le immagini e i profumi. Le finestre da cui la signora Ramsay osserva il mondo circostante come se fosse lei stessa il Faro, attraverso i suoi occhi mette in luce i vari personaggi ma lei appare quasi sempre in ombra. L'unico momento in cui è illuminata dalla luce è quando il raggio del Faro si posa su di lei, ma se il Faro è un simbolo di sè stessa, ciò vuol dire che brilla di luce propria. Il signor Ramsay rappresenta ciò che è maschile, il padre, duro, tirannico,severo, che educa i suoi figli seguendo il principio della verità, non addolcisce la realtà e per questo non è apprezzato dai figli. Tuttavia egli stesso si presenta con i suoi sogni intellettuali e con le sue illusioni che la signora Ramsay capisce immediatamente arrivando a sentirsi addirittura superiore a lui. Il loro rapporto è complesso, a tratti giudicato perfino antiquato ma sempre basaro sulla dipendenza del marito alla signora Ramsay. Un altro personaggio importante è Lily Briscoe nella quale molti studiosi vedono la figura della scrittrice e rappresenta una spinta innovativa nel modo di rapportarsi al mondo e alla vita, rispetto a quello della signora Ramsay che vorrebbe vedere tutti sposati e tende a organizzare i matrimoni. Lily, invece rimane zitella e viene descritta fisicamente attraverso gli "occhietti cinesi e faccetta avvizzita" che la caratterizzano come un personaggio poco attraente ma di sicuro molto interessante. Cerca di assimilare i gesti della signora Ramsay ma alla fine non riesce a comportarsi come faceva lei nei confronti del vedovo Ramsay e la sua pietà rimane inespressa proprio perché lei non riesce ad accettare la morte di quella che simbolicamente è la madre di Virginia e solo verso la fine riesce attraverso la tensione mentale e quando ormai il Faro non si vede più a completare il suo quadro. Ciò simboleggia la sua accettazione e solo quando il signor Ramsay giunge al faro con i suoi figli, Lily raggiunge questa consapevolezza. Gli altri personaggi sono i figli, in particolare emerge James che si presenta subito come un sognatore, un bambino che ama ritagliare le figure, un artista che si contrappone alla tirannia del padre. Il suo desiderio è quello di andare al Faro ma nell'ultima parte del romanzo ciò gli viene imposto dal padre che invece nella prima parte del romanzo si oppone con tutto se stesso alla gita. La seconda parte del romanzo è quella più breve ma è importante per la trama perchè muore la signora Ramsay e due dei suoi figli, per la precisione gli emblemi della bellezza(Prue) e del genio(Andrew). La loro morte è citata di sfuggita, messa tra parentesi, appare quasi più importante la condizione di desolazione in cui versa la casa, abbandonata e viene messa maggiormente in luce la forza distruttrice della natura, che sembra quasi inghiottire quella casa già decadente che di notte richiama i suoi abitanti e che viene strappata appena in tempo alla forza della natura. Lo stile della Woolf si basa principalmente sul flusso di coscienza che ben si adatta alle tematiche del ricordo, della memoria, del passato. Ogni elemento, oggetto, a partire dalle figurine ritagliate da James, al Faro si carica di un significato psichico, diventano immagini che s'imprimono nella mente, simboli dell'inconscio collettivo e personale. Infatti, lo stile della Woolf è sicuramente influenzato dalle scoperte psicologiche di Freud e Jung e dalla scoperta dell'inconscio. Molto spesso insiste sulle stesse frasi, sui medesimi termini o citazioni per sottolineare la ciclicità,la ripetizione, l'immutabilità di alcuni punti e di alcuni aspetti. Tra l'incipit e il finale ci sono delle strette correlazioni, perché creano una sorta di nucleo in cui il racconto si chiude come se fosse un anello: la gita al Faro si compie anche se qualcosa è cambiato nei personaggi e il quadro di Lily viene completato dopo lunghe fatiche. In conclusione, posso confermare le mie opinioni iniziali sul romanzo e sottolineare la bellezza dello stile che appare ricco e semplice contemporaneamente e pertanto, secondo i miei personalissimi canoni rasenta la perfezione