Narrativa straniera Classici Gente di Dublino
 

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Un capitolo della storia morale d'Irlanda: "Gente di Dublino" è la spietata e nichilistica radiografia di una città, del suo ambiente e dei suoi abitanti. Quindici racconti brevi. Quindici schizzi esistenziali. Storie in equilibrio fra elemento realistico e simbolico che mescolano angoscia e disperazione. Epifanie, rivelazioni di una verità tragica, ma anche comica.



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Gente di Dublino 2020-02-17 14:31:29 Valerio91
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    17 Febbraio, 2020
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Una nazione d'ubriaconi... (?)

Cavolo se è stato traumatico. questo approccio con James Joyce.
Andrò subito al punto: "Gente di Dublino" non mi è piaciuto molto. Sì, perché senza nulla togliere allo stile dell'autore l'ho trovata una lettura pesante; per vari motivi.
Prima di tutto non si fa in tempo a entrare in empatia coi personaggi. Potrà sembrare una sciocchezza, visto e considerato che i racconti non hanno il tempo di tratteggiare bene i personaggi; e può sembrarlo soprattutto in questo caso che i racconti sono tutti brevissimi (a parte gli ultimi due). Tuttavia, vi dò ragione fino a un certo punto. Penso ad esempio a “Cronache Marziane” di Ray Bradbury, in cui c’è un personaggio (Spender) che è rimasto indelebile nella mia memoria, e non è il solo ad avermi lasciato un segno nella testa. Trovo che una raccolta chiamata “Gente di Dublino” abbia come fine principale proprio quello di farci entrare nella testa e nei sentimenti dei dublinesi; che dovrebbero essere loro a dover restare indelebili nella nostra mente a lettura ultimata. Purtroppo non è stato così, almeno per quanto mi riguarda.
E cosa dire della stessa Dublino? Il suo ritratto non è vivido come avrei sperato. Pur non lesinando in descrizioni, Joyce non è riuscito a farmela “vedere”; la città non ha preso vita nella mia mente. Nell’ultimo racconto poi (che probabilmente è anche il più interessante) Joyce diventa quasi irritante: ci descrive per filo e per segno l'atmosfera di una casa privata, delle portate e del proseguimento di una cena mentre abbiamo una Dublino, lì fuori, in gran parte inesplorata.
Ma la cosa che più mi ha infastidito è che, del modo di vivere e d’essere dei “Dubliners”, passa quasi soltanto l'idea che siano ubriaconi. Mio dio; alcool ovunque, in ogni santo racconto. Certo, passano anche cose come l'amore viscerale per la propria terra, la voglia di partire smorzata dalla paura d’abbandonare la terra natia, la rigidezza mentale; ma sono cose soltanto accennate. Se Joyce avesse messo, nel trasmettere queste cose, lo stesso ardore e ripetizione che ci ha messo nel dire che i dublinesi sono una massa di ubriaconi, forse lo avrei apprezzato di più.
Per concludere, "Gente di Dublino" è ben scritto ma spesso prolisso, a volte pesante, ma questa pesantezza non è comunque ripagata da una profondità di contenuti che lasci soddisfatti o folgorati.
Se avevo paura di leggere "Ulisse", ora sono terrorizzato.

“Vi son riusciti. L’hanno abbattuto.
Ma tu Irlanda ascolta:
Potrà ancora il tuo spirto risorger dalle fiamme
Come fenice allo spuntar del giorno
Del giorno che porterà la Libertà
E possa ben l’Irlanda allora
Nella coppa alla gioia alzata mischiare
Un sol dolore: il rimpianto di Parnell.”

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Gente di Dublino 2018-01-29 11:08:13 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    29 Gennaio, 2018
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RITRATTO DI DUBLINO IN NERO

Il leit motiv di “Gente di Dublino” è la paralisi: ipostatizzata nella paralisi fisica di Padre Flynn nel primo episodio, essa attanaglia, nella forma di paralisi spirituale, la volontà di tutti quanti i protagonisti dei quindici racconti, bloccandone le aspirazioni, frustandone le ambizioni, costringendoli a una vita spenta, ripetitiva e vuota di senso, e privandoli perfino della speranza nel futuro. La città di Dublino (opprimente, uggiosa, ostile) è come l’appendice materiale di questa paralisi, anche se Joyce è bravo nel rendere universale questa condizione umana (basta cambiare i nomi delle strade, e le storie potrebbero essere trasportate ovunque nel mondo). Dove Joyce è senza mezze misure geniale è nell’avere abbracciato nei suoi racconti tutte le fasi dell’esistenza, accomunando in un totale, irrevocabile pessimismo, la fanciullezza alla vecchiaia. In “Gente di Dublino” fin dai primi anni di vita non c’è alcuno spiraglio per sfuggire alla paralisi. Gli ambienti familiari sono squallidi e soffocanti (spesso poi le figure di riferimento sono zii e zie), ma quando i piccoli protagonisti escono di casa per azzardare un’evasione non trovano nulla: la gita di “Un incontro” si risolve in una delusione, l’adolescente di “Arabia” dopo aver agognato per tutta la settimana la visita al bazar cittadino dall’esotico nome vi giunge quando si stanno spegnendo le ultime luci, mentre quando non è la deprimente realtà a sconfiggere i personaggi, e una prospettiva di fuga e di una vita diversa e migliore si presenta all’orizzonte, sono i sensi di colpa, la paura dell’ignoto e soprattutto l’assuefazione al pur scoraggiante presente a impedire ogni cambiamento (”Eveline”). Crescendo la situazione si complica se possibile ancora di più, e matrimonio e figli vengono visti (“Pensione di famiglia”, “Una piccola nube”) come fastidiose zavorre che impediscono una peraltro improbabile autorealizzazione, alimentando in tal modo rimpianti, invidie e vittimistici risentimenti contro il destino, o peggio ancora come gli inermi e passivi destinatari su cui sfogare vigliaccamente le proprie frustrazioni (“Rivalsa”).
In “Gente di Dublino” lo stile di Joyce è ben lontano da quello, trasgressivo e rivoluzionario, che impiegherà nell’”Ulisse” e nella “Veglia di Finnegan”. Esso è al contrario ancora saldamente ancorato ai modelli del romanzo ottocentesco, il che può riservare una sorta di delusione in chi si aspettava una qualche anticipazione dei canoni espressivi della narrativa del nuovo secolo. C’è però una novità profonda rispetto ai racconti di un Flaubert o di un Maupassant: in ognuno dei quindici racconti di “Gente di Dublino” interviene ad un certo punto, nella routine quotidiana apparentemente immodificabile, un qualcosa che fa sì che i personaggi da quel momento in poi non siano più come prima: i critici l’hanno definito una “epifania”, ossia una rivelazione, una presa di coscienza in negativo della propria condizione esistenziale (ad esempio, l’amara scoperta della propria irrevocabile solitudine da parte del protagonista di “Un caso pietoso”). Questo procedimento è del tutto evidente in quello che è il più lungo, complesso ed elaborato racconto di tutta la raccolta, “I morti”. In esso, la riunione natalizia in casa delle sorelle Morkan viene narrata in maniera molto tradizionale, attraverso tutti i rituali – conversazione, ballo, pranzo - di una riunione borghese; ma quando, qualche minuto prima del congedo, il protagonista Gabriel Conroy sorprende la moglie Gretta in commosso ascolto di una musica lontana, scatta un qualcosa che sposta il tono del racconto su un piano simbolico e spirituale (nelle pagine precedenti intuito soltanto attraverso sporadici momenti di inquietudine e di imbarazzo di Gabriel). I remoti ricordi della moglie, che aveva avuto in gioventù uno spasimante che era morto per lei, scuotono Gabriel, facendogli improvvisamente capire (ecco l’epifania joyciana) quanta parte della vita della donna con cui ha vissuto tanti anni gli sia preclusa e portandolo a riflettere malinconicamente sul labile (e qualche volta, come nella nevosa notte natalizia del racconto, impalpabile) confine che separa la vita e la morte. L’immagine della morte ritorna così ancora una volta in “Gente di Dublino”, chiudendo così emblematicamente il cerchio aperto, come si diceva all’inizio a proposito della morte di Padre Flynn, con “Le sorelle”.

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Gente di Dublino 2017-10-13 15:16:04 enricocaramuscio
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    13 Ottobre, 2017
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Vivere è come essere già morti

In questa raccolta di racconti Joyce ripercorre le tappe fondamentali dell'esistenza umana, dall'infanzia alla vecchiaia, passando per l'adolescenza e la maturità e concludendo, inevitabilmente, con la morte. Storie di malattia, abuso di alcool, sottomissione, violenza domestica, miseria, lussuria, soprusi. Sullo sfondo una città ambigua ed affascinante, la Dublino a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo, con i suoi vicoli ciottolosi, le sue birrerie ed i suoi singolari abitanti. I protagonisti, tutti riconducibili al ceto medio irlandese di inizio Novecento, rappresentano una carrellata di personaggi chiusi nel recinto di una esistenza monotona, incapaci di andare oltre ciò che concerne i bisogni basilari e le consuetudini di ogni giorno. In altre parole, gente che vive pur essendo già morta. "Meglio, del resto, trapassare baldanzosi nell'altra vita, nel pieno della passione, che appassire e svanire a poco a poco nello squallore degli anni". Qualcuno tenta di riscattarsi da questa squallida condizione, scontrandosi tuttavia contro un muro invalicabile che lo costringe ad arrendersi mestamente. Altri preferiscono non provarci nemmeno e arrendersi in partenza al loro ignobile destino, cercando illusorie ed evanescenti consolazioni in piccoli e futili gesti quotidiani. Lo stile è semplice e scorrevole e, ad una lettura distratta e superficiale, gli episodi narrati possono apparire banali e insignificanti. Tuttavia il loro significato va cercato tra le righe, tra sottintesi, metafore e finali che lasciano spazio all'immaginazione. Le storie sono completamente slegate tra loro, eppure le accomuna il fatto di essere tutte parte di un unico grande atto di denuncia dell'autore nei confronti della società e dei valori sui cui si erge. In particolare Joyce sembra puntare il dito contro la politica e la religione, cause principali della paralisi che affligge l'uomo, fonti di oppressione morale, spirituale e materiale da cui la gente comune non ha alcuna possibilità di liberarsi. Non c'è speranza, non c'è salvezza, non ci sono vie d'uscita. La vita è una gabbia che tiene l'uomo imprigionato in attesa della morte. Ma vivere in balìa di una simile esistenza non equivale ad essere già morti?

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Gente di Dublino 2017-03-28 17:54:21 cesare giardini
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    28 Marzo, 2017
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Storie di varia umanità a Dublino.

Sono quindici racconti, scritti tra il 1904 e il 1907 e pubblicati nel 1914: sembrano elaborati nell’Ottocento, e ricordano Cechov, un autore che del resto Joyce non conosceva, ma più ancora Maupassant e Flaubert. Sono episodi di vita quotidiana, talora banali, schizzi di situazioni che càpitano tutti i giorni e che coinvolgono gente comune, che conduce una vita normale, con i consueti alti e bassi e con episodi che per lo più restano confinati nell’ambito della routine familiare. Protagonisti sono i “Dubliners”, gli abitanti della città, una città che è lo sfondo delle narrazioni e che diventa la vera protagonista dell’opera : una città apparentemente piatta, senza grandi ambizioni, abitata da personaggi che fanno della “meschinità” degli accadimenti di tutti i giorni una sorta di bandiera per sentirsi vivi, per comunicare tra loro e sottolineare la loro appartenenza ad un corpo vivo e multiforme. Ed ecco scorrere le vicende di due sorelle e di un prete morto dopo la rottura di un calice, l’incontro di due ragazzi con un vecchio e ciarliero barbone, la sorte di un originale bazar, l’Arabia, la nostalgia di Eveline che sogna di fuggire a Buenos Ayres ma che resta imprigionata nel suo sogno, “ il volto esangue come quello di un animale scuoiato”, due amici che millantano conquiste femminili …. E poi ancora i tentativi di una madre per sistemare la figlia, i rimpianti di un piccolo uomo dopo una visita a Londra, le vicende di un umile impiegato, la storia di Maria, destinata al convento, il caso penoso di un uomo incapace di comunicare e destinato alla solitudine … Ma è l’ultimo racconto (“ I morti”) che ci fa capire la grandezza di Joyce. E’ una lunga storia, condita da dialoghi frizzanti e battute ironiche, che descrive nei particolari una riunione conviviale, con tanto di intrattenimento musicale, alla quale partecipano personaggi di varia estrazione sociale, ognuno con la sua storia ed i suoi problemi. La festa finisce, una coppia ritorna a casa e l’atmosfera cambia radicalmente: si capisce che Gabriel ama Gretta, ma lei si perde nei suoi ricordi, rievocando un giovane di cui era innamorata e che una morte crudele le ha portato via. Un’aura nostalgica e malinconica sospinge l’uno verso l’altra, ed entrambi, in silenzio, dalla finestra, guardano il cadere fitto della neve, che tutto ricopre e avvolge nell’oblio … Il titolo del racconto contrasta nettamente con l’atmosfera festaiola di quasi tutta la lunga narrazione, e sottolinea, anticipandolo quello che sarà poi lo schema delle opere più mature dell’autore, cioè la vita dell’uomo e dell’intera umanità. Per entrare nel mondo di James Joyce , consiglio di leggere “Gente di Dublino”, prima di affrontare le opere della maturità ( “Ulisse”, “Dedalus” fino al travolgente “Finnegans Wake”).

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Gente di Dublino 2015-10-27 09:03:47 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    27 Ottobre, 2015
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Dubliners, oh Dubliners!

Un rapporto di amore-odio legava Joyce alla sua città natia, scenario ove i racconti contenuti in questa raccolta sono ambientati. Suddiviso nelle sezioni dell’infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica, ciascuna storia ruota intorno a due momenti fondamentali, un primo in cui ogni protagonista – piccolo borghese o di umili origini che sia – è consapevole di vivere un’esistenza meschina dalla quale vorrebbe fuggire e dalla quale è al tempo stesso paralizzato, ed un secondo, quello della “rivelazione” (o epifania) in cui viene indicata agli stessi una via di fuga, un’alternativa alla loro condizione di mediocrità che di fatto non viene intrapresa per fattori sopraggiunti tali da arrestare il proposito liberatorio.
Lo stesso atteggiamento dell’autore si conforma a detta verità; egli infatti si limita a riportare le condotte dei protagonisti senza giudicare, senza mai entrare nel vivo della moralità o immoralità di queste, come un osservatore esterno, come un giornalista che prende nota degli avvenimenti e li riporta per quel che sono. Siffatto dato può indurre il lettore a ritenere il testo freddo, arido, distaccato dalle circostanze, dispatico. In realtà è proprio suddetto corollario a far si che chi legge senta il dovere di immedesimarsi, riflettere ed esternare la propria opinione.
Tra le varie problematiche tema ricorrente in tutti gli elaborati è quello della morte tanto che quest’ultima è percepita quale personaggio principale della raccolta riuscendo altresì a trasmettere riflessioni sulla vita non di poco valore.
“Gente di Dublino” è un testo forse non facile da leggere ma senza dubbio attuale, intriso di tutte quelle speranze e delusioni che quotidianamente l’uomo incontra sul proprio cammino.
Ne consiglio la lettura in lingua inglese, il mio primo approccio con l’opera è infatti avvenuto così e posso dirvi che questa si confà particolarmente tanto alle tematiche trattate che all’apparente disinteresse dai fatti voluto dall’autore. E’ un’esperienza non semplice ma estremamente soddisfacente e capace di far appassionare il lettore ad un testo che in italiano non sempre è apprezzato.


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Gente di Dublino 2015-10-13 14:01:20 Lonely
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Lonely Opinione inserita da Lonely    13 Ottobre, 2015
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Le epifanie di Dublino

Gente di Dublino è una serie di racconti pubblicato nel 1914 ed è un ritratto della vita di quel periodo.
Il tema principale di tutti i racconti è la paralisi, che non è altro che il risultato dell'essere legati, secondo Joyce, ad antiche e limitate tradizioni sociali e culturali.
Questo tratto della gente di Dublino culmina nell'ultimo racconto, il più significativo, "The Dead", che già nel titolo si svela. Il senso di ogni racconto è proprio nella sua epifania, ossia quel momento particolare in cui attraverso una sensazione,visiva, tattile o sonora, percettible o meno, cambia tutto il corso della vita del protagonista e di chi si muove intorno ad esso, ed ineluttabilmente direi.
E proprio qui sta tutta l'impotenza dell'uomo, la paralisi appunto.
Evidenti, specialmente nell'ultimo racconto, "The Dead", i temi della morte e dell'incomnicabilità, rivelati dall'epifania sonora di Gretta, quando ascolta quella canzone che le ricorda il suo primo amore, morto; e di Gabriel quando si rende conto, mentre guarda la mogle dormire, che non la conosce affatto.
Il flusso di coscienza e i simbolismi sono la caratteristica principale di Joyce e sono allo stesso tempo le sue difficoltà. CI si avvicina, e si riesce un poco a comprendere un simile scrittore solo con lo studio, almeno così è stato per me! Che, tanto per intenderci, non sono mai riuscita a finire di leggere il suo Ulisse.

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Gente di Dublino 2015-10-12 13:49:18 sonia fascendini
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    12 Ottobre, 2015
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Gente triste, gente sola

Ho avuto la fortuna di visitare la Dublino degli anni 2000 con il sole e devo dire che leggendo i racconti di Joyce sembra che sia passato ben più di un secolo. La città di cui ci parla lo scrittore è fredda, triste, senza speranze. Questi sono racconti di povertà, non solo nel portafoglio, ma soprattutto nello spirito. Personaggi dediti all'alcool, alle piccole truffe, con comportamenti discutibili in famiglia.
Un pò sconcertante all'inizio la struttura dei racconti. Si inizia a leggere quello successivo aspettandosi che sia una continuazione di quello precedente, che in realtà non ha una vera e propria fine. Si tratta infatti in molti casi di episodi di vita, che sembrano quasi buttati lì. Al lettore resta la voglia di sapere che cosa succede dopo. In realtà se lo scopo è quello di darci in modo realistico e crudo uno spaccato della città di inizio '900, meglio non farsi prendere la mano indulgendo in sentimentalismi o in descrizioni troppo dettagliate.
Lettura non semplice, ma che merita di essere intrapresa, dopotutto trattandosi di racconti, si può sempre decidere do piluccare qua e là.

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Gente di Dublino 2015-09-10 19:06:00 Francj88
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Francj88 Opinione inserita da Francj88    10 Settembre, 2015
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Epifanie

Impotenza, è questa la sensazione che ho provato terminata la lettura dei quindici racconti che costituiscono “Gente di Dublino”. Ognuno di essi è un’istantanea sulla condizione dell’uomo con le sue miserie, le sue sofferenze e contraddizioni. I personaggi si muovono nella Dublino del secolo scorso e sono accomunati da un’apatia, un’incapacità di prendere le redini della propria esistenza, dall’improvvisa consapevolezza della caducità della vita e dell’inevitabilità della morte. La narrazione di Joyce è assolutamente priva di qualsiasi elemento possa costituire un semplice abbellimento, un orpello fine a se stesso. Il linguaggio pulito, essenziale ma ricco di descrizioni, la quasi totale mancanza di azione, l’aderenza alla realtà mi ricorda la poetica verista. L'autore lascia che sia la quotidianità dei personaggi a raccontarne i sentimenti e le frustrazioni. Tutto è lasciato al suo naturale corso, ogni racconto è uno spiraglio, non ha una conclusione ben definita. Questa mancanza di organicità rende “Gente di Dublino” un’opera di non facile comprensione. Non è certo un tipo di lettura leggera, di intrattenimento, piuttosto è uno di quei libri scomodi, ma necessari, che fa riflettere e mette in evidenza, attraverso le vicissitudini del singolo anche la situazione politica, economica e religiosa dell’Irlanda al principio del ‘900. Occorre andare oltre la superficie del testo per ottenere una visione completa. L'affresco di Dublino, in particolare, è mirabile, ci viene presentata come un’uggiosa città del nord dalle tinte spente e tendenzialmente monocrome, ben lontana dalla verde Irlanda dell’immaginario comune, ma perfetto sfondo alle vite dei protagonisti.

Personalmente, non ho apprezzato allo stesso modo tutti i racconti, forse il mio preferito è stato l’ultimo dal titolo “I morti”, perfetto “requiem” che chiude la raccolta e lascia al lettore una sensazione di triste malinconia che, unita all’impotenza sono le sensazioni che mi hanno accompagnata per tutta la lettura. Credo che Joyce sia uno scrittore che “o lo si ama o lo si odia”. Io, per quanto ammetto di aver trovato la lettura un po’ ostica in alcuni punti, mi sento di consigliarlo.

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Gente di Dublino 2014-01-10 07:04:09 catcarlo
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catcarlo Opinione inserita da catcarlo    10 Gennaio, 2014
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Gente di dublino

La Dublino di Joyce è una città priva di ogni attrattiva. Il colore dominante è il marrone, le faccate delle case sono seriosamente rispettabili, il verde sbiadito o marcescente, un fiume mediocre e grigiastro, i pub fumosi punti d’incontro per forti bevitori, solo di tanto in tanto il sole ha un guizzo di vitalità arrossando il tramonto. Malgrado l’aspetto cupo e provinciale che spingerebbe a fuggire a gambe levate, essa esercita un fascino quasi paralizzante sui cittadini che la abitano: schiacciati da una religiosità opprimente e dediti alle convenzioni sociali al solo scopo di apparire rispettabili, sono spiritualmente deboli (o moribondi) e finiscono per girare in tondo come il cavallo citato ne ‘I morti’. Nei quindici racconti - o, sarebbe meglio dire, quattordici più un romanzo breve, ‘I morti’ per l’appunto - i simboli si sprecano, a partire dalla paralisi fisica di Padre Flynn che, sin dall’iniziale ‘Due sorelle’, rappresenta quella morale di tutti i dublinesi: per cogliere tutte le sfaccettature, le storie andrebbero perciò rilette più volte, ma si può goderne anche senza perdersi nelle note grazie alla scrittura prosciugata ma affascinante e alle figure che si delineano col passare delle pagine e finiscono per rimanere nella memoria. Come, ad esempio, il giovane protagonista disilluso di ‘Arabia’, la giovane Eveline del racconto omonimo che rinuncia all’amore per paura della novità, i cinici sfruttatori de ‘I due galanti’ e le speculari cacciatrici di marito in ‘Pensione di famiglia’, il piccolo Chandler e il suo bambino urlante in ‘Una picola nube’, il deprecabile Farrington che scarica sul figlio innocente le frustrazioni della sua vita nel breve noir intitolato ‘Rivalsa’, la concezione della vita di Duffy così rigida da costare la vita alla signora Sinico (‘Un caso pietoso’), la triste vita della brutta lavandaia Maria: Joyce ordina i racconti raggruppandoli per età dei protagonisti - prima l’infanzia, poi la giovinezza, infine l’età matura – indicando che la paralisi resta uguale indipendentemente dall’età dei personaggi. Ci sono poi i tre racconti dedicati alla vita pubblica, con i politici de ‘Il giorno dell’edera’ che si perdono in chiacchiere, la signora Kearney de ‘Una madre’ che sacrifica la propria figlia alla propria ambizione e il disturbante ‘La grazia’ in cui la religione è una patina che serve a coprire i vizi e può giustificare ogni cosa, inclusa l’avidità lodata dal prete simoniaco nella predica finale. Già questo racconto riprende un po’ tutti i temi precedenti e infatti concludeva la raccolta originaria: ora è invece solo una sorta di preparazione a ‘I morti’ che, occupando oltre un quarto del volume, svetta brillante sulle comunque validissime pagine che lo hanno preceduto. Il rito borghese della cena attuale allestita dalle sorelle Morkan è vivace solo in superficie mentre in realtà è solo lo stanco ripetersi di una rappresentazione sociale: altrettanto falsa si rivela la vitalità che pervade il loro nipote Gabriel che, nel momento culminante in cui resta infine solo con la moglie, scopre di essere assai più vicino alla morte (spirituale) e ai morti di quanto potesse pensare. L’immagine spietata del suo vero io che lo specchio gli restituisce cancellando ogni vanitosa fantasia chiude pagine davvero magistrali in un crescendo di emozione che la lingua misurata non riesce a trattenere.

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Gente di Dublino 2013-11-05 13:29:26 maria68
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maria68 Opinione inserita da maria68    05 Novembre, 2013
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Dublino una città così piccola

"inveì contro la rettitudine della sua vita; sentiva di essere stato escluso dal banchetto della vita. Un solo essere umano sembrava lo avesse amato e lui gli aveva negato vita e felicità: l'aveva condannato all'ignominia, a una morte vergognosa".  

Un'aria pesante si respira tra le strade scure di Dublino. Abitata da uomini che con visi stanchi, flaccidi e vecchi non riescono a liberarsi dall'apatia che li tiene prigionieri per sempre. Con una voglia di volare verso emozioni nuove, costantemente sopita...
L'epidemia di frustrazione contagia ogni abitante, non risparmiando alcun bambino, l'unico antidoto al contagio è andare via dalla città, se si vuole avere successo.
Questa è la Dublino raccontataci da Joyce in 'gente di Dublino' una città "dove non succede mai nulla", che non lascia spazio ai sogni, e le speranze di ognuno vengono soffocate dal senso di oppressione che aleggia nell'aria.
Joyce attaverso i quindici racconti, denuncia la paralisi dei suoi abitanti attribuendo, successivamente, la colpa agli inglesi e alla Chiesa Cattolica colpevole di soffocare l'anima dell'Irlanda.
Se l'intendo di Joyce era di trasmettere al lettore una sensazione claustrofobica, allora va fatto un plauso allo scrittore per essere riuscito nell'impresa.
La mancanza di aria è ciò che costantemente trasuda da ogni pagina, lasciando il lettore sopraffatto da una forza ignota il cui unico scopo è spingere nel baratro chiunque.

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A chi ama James Joyce
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