Frankenstein
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Vita contraddittoria
Infondere la vita a un corpo inanimato, il mistero della creazione, un desiderio folle ed egocentrico di spingersi oltre l’ umano che sconfina nella follia e nella solitudine più vera.
Frankenstein , celeberrimo romanzo gotico di Mary Shelley, nato per giuoco, capostipite di una certa letteratura che può definirsi fantascientifica, è un lungo racconto polifonico che riproduce la vita di Viktor Frankenstein e del demonio da lui generato, un’ idea di eternità presto sprofondata in un abisso di finitezza, tra inquietudine, disperazione, sensi di colpa, silenzio, vendetta, ricatto, amore sottratto e negato.
La duplicità creatore-creatura rispecchia un’ alternanza che restituisce caratteri umani e demoniaci sovrapponendo un giuoco di ruoli che sconfina nell’ inverosimile.
Viktor e il mostro da lui generato, intrecciati indissolubilmente dal potere divino della creazione, separati alla nascita, conservano un legame a distanza, quel cordone ombelicale mai spezzato, eco di ripetuti misfatti, si cercano, si temono, si inseguono, ribaltando continuamente il ruolo di vittima e carnefice, in attesa delle mosse altrui, si servono del reale a fini personali, vivono nell’orrore ricoprendosi di vergogna.
L’uno non potrà svelarsi dopo avere annientato le vite dei propri cari in nome della personale sete di conoscenza, l’ altro respira la terribile condizione di chi ricerca l’ amore già sapendo di non essere amato, vittima di un desiderio di vendetta che possa mettere a tacere i torti subiti.
Opposti che si attraggono, accomunati da un attimo di eternità che sconfina in un egocentrismo folle e perverso, un racconto con un epilogo inevitabilmente tragico agli occhi di chi si ritrova spettatore dell’ incredibile narrazione.
Una creatura dal corpo deforme dotata di sentimenti e passioni rigettata dal proprio creatore, un demonio la cui barbarie ha svuotato il cuore per colmarlo del più amaro e inestinguibile rimorso.
Origine condivisa, lo stesso epilogo, strade opposte ma complementari, l’ amaro calice del rimorso nelle proprie ferite finché la morte non le richiuderà per sempre.
Un romanzo con i tratti di un lungo racconto, resoconto crudo, spietato, oggettivo, che tratta di scienza medica per sconfinare in riflessioni postume su una vita guidata da un divino fallimento, priva di senso in nome della vita medesima, inscenando un inseguimento dai ritmi serrati ai confini del mondo, braccati dalla propria ombra, guardandosi le spalle, accecati dalla disperazione e dalla sete di vendetta.
Riflessioni prolungate accompagnano le voci dei protagonisti, restituendo un’ umanità inquieta e corrotta nella propria ambivalenza, cieca nello sguardo, arida nei sentimenti, sottratta a qualsiasi illusoria romantica tenzone a cui vorrebbe donarsi.
“ Frankenstein “ restituisce una duplice valenza, simbolo della contraddizione umana schiava di un ideale da una parte votato al superamento dei confini naturali, sostituendosi al Sommo Creatore, dall’ altro impaurita dall’ orrore di un futuro retto da una progenie demoniaca.
L’ eterna lotta tra Bene e Male popola sogni e incubi, paure e incertezze, quell’ immaginario che pare confondersi e alternarsi nella constatazione della propria ineludibile finitezza fino all’ autoannientamento, unica via di ripartenza.
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SOFFERENZE
Nella mia testa ho sempre pensato che Frankenstein fosse un romanzo diverso da quello che ho letto, immaginavo un romanzo molto più incentrato sulla creazione di un mostro e la sua vita, un po’ più horror.
Mi sono trovata a leggere invece la sofferta vita del creatore del mostro , il signor Frankenstein appunto.
La vicenda è un raccontata da un uomo che incontra il nostro protagonista in fin di vita, quindi è una storia nella storia: Frankenstein narra la sua vita a l’uomo che a sua volta la scrive come corrispondenza alla sorella e devo dire che come metodo narrativo è stato molto originale.
Il creatore, un uomo di grande genio, assembla un terribile mostro deforme che poi ripudia per l’orrore che gli provoca e da quel momento sarà condannato ad una vita di disgrazie e tormenti.
È doloroso leggere come Frankenstein perda tutto a causa delle sue stesse mani, la colpa il suo orgoglio e la mancanza di pietà verso una creatura sola è invidiosa del genere umano.
Io ho percepito tanto sentimento nell’opera della scrittrice, l’elogio per delle qualità quali la generosità, l’amore fraterno e la fedeltà, mentre mi è mancato quel qualcosa che rendesse l’opera un po’ più incalzante per quanto ben scritta.
Sicuramente è un romanzo da leggere ma non a cuor leggero, lascia un po’ l’amaro in bocca.
Il mostro di carta
«E perché non dovrebbe? Sono arrivato tanto lontano, tracciando una via sicura attraverso mari ignoti; le stelle stesse sono state testimoni e spettatrici del mio trionfo. Perché, allora, non procedere oltre sull’elemento indomito ma obbediente? Che cosa potrà mai fermare il cuore risoluto e la volontà ferma dell’uomo?»
Chi non conosce anche solo per fama la storia del Dottor Frankenstein, celebre personaggio nato dalla penna di Mary Shelley quasi per gioco avendo questo preso forma in occasione di una competizione letteraria tra amici nel 1816 per ingannare il tempo inclemente? Pubblicato prima anonimamente nel 1818 con una prefazione del marito e una dedica al padre e di poi nel 1823 in Francia con firma dell’autrice, l’opera è ben presto diventata uno dei titoli più acclamati a suo nome nonché un classico intramontabile.
Quello costruito dalla narratrice è un romanzo che si incentra sulla superbia umana che senza troppe remore si ribella alle leggi stesse della natura e ai vincoli dalla medesima imposti. Appassionato sin dalla giovane età di scienza e di filosofia naturale, il nostro eroe vuol svelare al mondo i misteri della creazione. Resta affascinato, in particolare, da quello studioso che proprio in età adolescenziale inizia a studiare con maniacale ossessione e di cui nel tempo, poi, scoprirà essere in verità fallaci gli esperimenti e le teorie. A compimento di tutto questo percorso, che si estende pure all’applicazione di macabre cuciture sui cadaveri, vi è la creazione del Mostro. Quest’ultimo imparerà a vivere per riflesso dopo essere stato cacciato per il suo aspetto e per il ribrezzo generato dal suo semplice esistere.
Imparerà osservando una famiglia a parlare, a vivere come un essere umano e sì, anche ad amare. Lui che è il più solo, lui che vive a stretto contatto con quella che è la sofferenza determinata dalla sua condizione di individuo reietto dalla società, proverà la forza di questo sentimento.
A una trama ben articolata si affianca una struttura narrativa che emerge per il suo pregio stilistico. La storia è un crescendo, le vicende partono da una serie di missive che il capitano Robert Walton destina alla sorella e che ci permettono di delineare i primi tratti salienti dell’elaborato e si spostano passo dopo passo verso quello che è il fulcro dello scritto e il conseguente e casuale incontro con Frankenstein.
Tuttavia, nonostante gli intenti e il contenuto con un messaggio sotteso, il componimento – per me rilettura dopo gli anni di studio – pecca di una serie di rallentamenti che tendono a sfiancare il conoscitore e che intaccano la piacevolezza della lettura che risulta essere purtroppo poco avvincente.
“Frankenstein” resta indiscutibilmente un volume necessario alla formazione di ogni lettore e resta indubbiamente un elaborato con una sua riflessione forte, attuale e con tematiche coraggiose per l'epoca in cui fu creato e ancora oggi di grande interesse ma inevitabilmente risente del tempo trascorso e può deludere le aspettative del lettore che vi si avvicina con troppe pretese date dalla immancabile e conclamata fama. Soprattutto se in prima lettura.
«Un uomo come lui vive due vite: soffre nella disgrazia ed è sopraffatto dalle delusioni, eppure, una volta rinchiuso in se stesso, si trasforma in uno spirito celeste, circonfuso di un alone nel cui cerchio né dolore né follia osano entrare.»
"IL MODERNO PROMETEO"
Spesso, leggendo, cerco di immaginare dove un certo personaggio sarebbe stato collocato da Dante all’interno dell’universo letterario della Commedia (soprattutto i personaggi poco graditi, viste le pesanti pene infernali). La storia del dottor Frankenstein penso che l’avremmo incontrata durante l’ascesa del monte Purgatorio, all’uscita della prima cornice, quella dove le anime dei superbi espiano i loro peccati. Nelle pareti di questa sono infatti rappresentati in bassorilievi gli esempi puniti dei maggiori superbi. Quindi, affianco alla caduta di Lucifero e alla distruzione della superba Troia, ci sarebbe stata anche la storia del mitico dottore.
Shelley costruisce un romanzo con al centro la superbia dell’uomo (riassunta perfettamente nel sottotitolo: “Il moderno Prometeo”) capace di ribellarsi alle leggi stesse della natura e ai vincoli da essa imposti. Partendo dagli studi compiuti in giovane età sulla filosofia naturale, smentita nel corso dei secoli dal progresso della scienza, il dottor Frankenstein si dedicherà comunque ad essa “per svelare al mondo i più profondi misteri della creazione”. Il prodotto di questi esperimenti, che lo porteranno a pratiche macabre di cucitura di cadaveri, sarà il Mostro: un Adamo ripudiato dal suo stesso creatore ancora prima di raccogliere il frutto della conoscenza.
La Shelley descrive nel minimo dettaglio la vicenda del Mostro non lasciando nulla al caso: dopo essere stato cacciato dalla società umana per il ribrezzo generato dal suo aspetto, si rifugerà in un bosco dove, osservando quotidianamente una famiglia, imparerà a parlare e a vivere come tutti gli esseri umani. Soprattutto imparerà cosa significa amare ed essere amati e la consapevolezza di questa assenza lo porterà a rendersi conto della sua misera condizione e a cercare vendetta, anelando che il suo creatore patisca la sua stessa solitudine e sofferenza.
L’architettura narrativa dell’opera è ben costruita e l’avvicinamento al punto focale della storia avviene gradualmente: il romanzo inizia con le lettere che il capitano Robert Walton scrive alla sorella durante un viaggio a scopo scientifico verso il polo nord; qui incontra casualmente Frankenstein che gli racconta la sua vicenda, la quale verrà poi trascritta dallo stesso capitano utilizzando la prima persona, compreso nelle parti narrate dal Mostro al dottore, e permettendo così che venga tramandata.
L’opera risente il peso degli anni, essendo ormai abituati a un ritmo calzante e a colpi di scena tipici del genere che invece qua non sono presenti, risultando agli occhi di un lettore moderno sicuramente meno avvincente.
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Mostro di carta
Frankenstein è uno di quei libri che viene molto più citato di quanto sia letto e che soprattutto è entrato prepotentemente nella cultura popolare attraverso trasposizioni, riduzioni e imitazioni di ogni tipo. Il mostro innominato, la “cosa” orribile ha finito persino per usurpare il nome dello scienziato suo creatore per rappresentare nel linguaggio comune l’emblema di ogni artificioso assemblaggio meccanico e contro natura. Ci è persino capitato di sentir parlare di “governi Frankenstein”, o di alleanze politiche, o disposizioni di legge qualificate con lo stesso appellativo.
Stiamo parlando, infatti, di molto più che un libro. L’interesse per la sua lettura va ben oltre il valore letterario delle sue pagine.
Nell’estate del 1816 la diciannovenne Mary Godwin, in compagnia del suo “cavalier Folletto” Percy Shelley e della sorellastra Claire, si recò sul lago di Ginevra, a poca distanza da Villa Diodati, dove soggiornava Lord Byron accompagnato dal suo medico personale. A causa delle frequenti piogge, il gruppo ingannava il tempo leggendo romanzi gotici tedeschi. Fu Lord Byron a lanciare la sfida ad inventare ognuno una storia terrificante. Ma solo la giovane amante di Shelley la portò a termine.
Le conseguenze tragiche a cui può portare un domino violento della scienza sulla natura, il destino nefasto dell’ambizione e della sete di sapere, che diventa sete di potere, la paura del diverso e l’odio che ne può derivare, il diritto di ogni creatura ad essere accettata e amata per ciò che è, il veleno prodotto dall’abbandono, dall’amore negato o non ricambiato: questi sono i temi del romanzo che a distanza di due secoli riescono ancora a scuoterci e a turbarci.
Anche dal punto di vista culturale, l’opera di maggior successo di Mary Godwin Shelley contiene molti vistosi collegamenti. A parte la tradizione del romanzo gotico, che è all’origine dell’ispirazione, troviamo richiami alla mitologia e alla tragedia greca (Prometeo, Edipo) all’eterna lotta tra bene e male (Milton, il Paradiso perduto) e tra cuore e ragione (siamo in pieno Romanticismo). La Shelley poi flirta con il romanzo epistolare (espediente che le consente di rappresentare in soggettiva e in profondità le emozioni dei diversi personaggi), descrive ambienti e paesaggi degni della pittura di Friedrich e di Turner, fa da contrappunto al mito del buon selvaggio e infine crea un archetipo nel genere filosofico-avventuroso che la congiunge idealmente tanto a Meliville e alla sua Balena Bianca quanto a Philip D. Dick e ai suoi androidi.
Per non parlare della biografia dell’autrice. Figlia di William Godwin (utopista anarchico e romanziere) e di Mary Wollstonecraft (protofemminista, autrice di “A Vindication of the Rights of Woman”) non conobbe mai la mamma, che morì alla sua nascita per le conseguenze del parto (la mancanza di una madre e l’abbandono alla nascita sono uno dei tratti più toccanti del mostro descritto nel romanzo). Tutta la sua vita fu costellata da una incredibile serie di lutti, suicidi e sciagure che non risparmiarono nemmeno i suoi figli, uno solo dei quali sopravvisse fino all’età adulta. E poi la prematura morte del poeta, al largo di Lerici. E la vita sentimentale turbolenta e sfortunata, gli scandali, le mortificazioni, le ristrettezze economiche, i pregiudizi, le incomprensioni.
Sembra quasi che il mostro creato sulla carta da Mary Shelley in una notte buia e tempestosa, dopo aver perseguitato lo scienziato Victor Frankenstein (il suo creatore fantastico) abbia riversato la propria incolmabile furia vendicatrice sulla sua creatrice materiale, per poi sopravviverle e vagabondare come un implacabile e inconsolabile demonio nell’immaginario collettivo di ogni tempo.
E’ ancora una lettura interessante nel ventunesimo secolo? Non c’è dubbio che sui temi trattati sono stati scritti fiumi di parole e sono disponibili opere più fresche e moderne. Tuttavia, come Bansky non cancella Michelangelo, possiamo ancora continuare a godere di un capolavoro di duecento anni fa. E possiamo anche riconoscerne laicamente i limiti. A cominciare dallo stile acerbo, a tratti adolescenziale, dal tono eccessivamente didascalico, dal sentimentalismo profuso a piene mani e soprattutto da una ridicola, ingenua e futile esaltazione del valore della cultura (impagabili le pagine in cui il terrificante mostro, reietto e nascosto in un capanno, spia una famiglia all’apparenza contadina, in realtà di nobile lignaggio, e si istruisce niente meno che sulle opere di Milton, Goethe e Plutarco), appena appena riscattata dalla denuncia dei suoi pericoli (la conoscenza genera consapevolezza e quindi infelicità). Infine c’è il vizio di mettere troppa roba nel piatto, che a me risulta particolarmente fastidioso. Ad un certo punto, in ossequio al fascino esercitato in quegli anni dall’Oriente, compaiono persino un mercante turco con una bellissima figlia, per un’improbabile avventura che spazia da Costantinopoli a Parigi, l’Italia e le Alpi svizzere. Anche Jules Verne (penso ad esempio al Giro del mondo in 80 giorni) incorre spesso nel paradossale e nell’inverosimile: la differenza sta tutta nella presenza oppure nella totale assenza di ironia. Mary Shelley scrive il romanzo ancora molto giovane (e comprensibilmente eccitata dall’effervescenza intellettuale che la circonda fin dalla nascita) e si prende terribilmente troppo sul serio.
Per rendere l’idea, i lati deteriori del romanzo mi ricordano moltissimo un successo letterario di qualche anno fa (L’eleganza del riccio), che spiccava soprattutto per artificiosità e oleografia e che non escludo abbia avuto proprio la Shelley tra le principali fonti di ispirazione.
Nonostante i suoi limiti “Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo” è un grande romanzo, patrimonio della nostra cultura. Il messaggio arriva e colpisce il bersaglio ancora oggi: merito del mostro di carta che ha ispirato ogni successiva forma di umanità disumanizzata e soprattutto merito della sua creatrice, mostro di bravura.
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Sulla via della Perdizione
Un libro maestoso che ha la forza di trasportarti in luoghi monumentali, pullulante di ambientazioni tetre e insieme paradisiache, descritte con una cerimonia solenne, attraverso una maestria e un uso del linguaggio impeccabile. Ogni frase è scritta con una perfezione talmente assoluta che meritava sempre di essere riletta. Mi è piaciuto veramente molto, sono rimasta catturata dal turbine inesorabile della storia.
Ma Victor, cosa hai creato?
La tua intelligenza e il tuo spirito erano senza dubbio sopra la norma, ma perché dare vita a un mostro? Una creatura ignobile destinata ad essere disprezzata da tutti e soprattutto da sé stessa. Nemmeno tu sei stato in grado di accettarla ed essa si è trovata da subito imprigionata e isolata dal mondo, sola e senza uno scopo. Non poteva manifestare in alcun modo i suoi sentimenti, che neppure poteva comprendere. Ogni essere umano che incontrava nel suo cammino la rifiutava, alla sola vista di quell’essere si sentivano costretti dalla loro umanità a fuggire e a dimenticare ciò che avevano visto. Così la creatura da te creata, il miracolo orribile che hai generato, si è trovata da subito sulla via per la perdizione, verso la quale ha trascinato anche te e tutto ciò che più era caro al tuo cuore. I tuoi sogni, il tuo passato, le tue ambizioni e la passione per la scienza, tutto è andato distrutto? Il tuo magnifico orgoglio e la tua sete di conoscenza erano smisurati e ne sei diventato tu stesso la prima vittima. La tua anima era inconsolabile, il tuo cuore infranto, la tua speranza perduta. E il mostro chiedeva solo una compagna nella sua eterna desolazione, ma tu gli hai negato l’unica possibile fonte di felicità. Lui non è sempre stato cattivo, ha manifestato sentimenti buoni e cercava amicizia e accettazione, ma gli unici sentimenti che poteva provare erano la morsa dell’invidia, il desiderio di vendetta e annientamento, la ripugnanza verso se stesso e i suoi crimini, l’odio verso di te, Victor Frankenstein, il suo unico creatore. Egli ha calato una maledizione sulla tua vita e rinchiuso l’inferno nel tuo cuore. Non avresti più potuto provare gioia e spensieratezza. Il tuo era diventato un destino disperato. Ora a entrambi attendeva un gelido futuro, fatto di dolore e solitudine.
“Così dicendo, balzò dal finestrino sulla lastra di ghiaccio che galleggiava accanto alla nave. In breve fu spinto lontano dalle onde, e si perdette fra le tenebre”.
Un finale sublime.
Un libro che non può mancare nel proprio bagaglio di lettura.
Una storia che mi sarà difficile dimenticare, sensazioni di un’intensità rara e paesaggi sono stati descritti così meravigliosamente che pare di averli vissuti.
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Il mostro che è in noi
La vicenda è nota a tutti. Sin da piccoli si conoscono le fattezze di questo mostro, creato da altri cadaveri, costretto a vagare per il mondo e dimenticato da tutti.
E' il destino di coloro che per aspetto fisico o anche mentale non vengono accettati dal mondo cosi detto
"civile".
Infatti leggendo l'opera ci si può chiedere chi veramente sia il vero mostro: il Frankstein, venuto al mondo non per sua colpa, oppure gli uomini e suo padre che gli danno una caccia spietata.
Non credo sia difficile nel nostro quotidiano avere esempi di comportamenti intolleranti verso chi è "diverso" dalla comune massa.
In una società dove la bellezza e il denaro sono valori assoluti, dove la pervasività dei social e di selfie condizionano il vivere quotidiano, ecco che esce fuori l'intolleranza verso coloro che invece, magari per un difetto fisico, per un'anomalia nel volto, per un incidente o per un semplice scherzo del destino, si trovano catapultati sin da piccoli in una realtà da incubo poichè le loro fattezze non collimano con il gusto degli altri.
Ora, non voglio giungere agli estremi del personaggio del libro, però basta pensare a quando si andava a scuola e c'era la compagna di banco tormentata dai ragazzini perchè "paffutella", oppure il ragazzino preso di mira perchè basso o con qualche brufolo.....figurarsi se uno si presentasse in una classe con qualche imperfezione fisica.
Chi di noi non ha almeno una volta sentito un sentimento di repulsione o addirittura di odio, verso una persona che non ci piaceva fisicamente o aveva qualche difetto.
E' qualcosa di umano, che non si può giudicare, però ci si dovrebbe sempre chiedere cosa c'è al di la dell'apparenza? cosa si cela dietro un volto? cosa ci fa rendere intolleranti verso un qualcosa che non ci aggrada?
Ecco il vero mostro non è colui che nell'aspetto fisico e fuori dal "normale", il vero mostro è la società che lo isola, lo umilia e lo porta a comportamenti estremi.
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Una pietra miliare della letteratura gotica
Frankenstein di Mary Shelley è a buon diritto una pietra miliare della letteratura gotica.
Castelli oscuri, mostri, esperimenti, sono gli ingredienti di una storia che ha lasciato il segno, e tutt'ora lo lascia nella cultura letteraria occidentale.
Il dott. Victor Frankenstein, dedito allo studio della filosofia naturale, crea dalle sue mani (da qui il sottotitolo del libro "Prometeo moderno) una creatura dalle mostruose sembianze umane.
Ma l'esperimento non va come Frankenstein aveva immaginato e, rifiutando la propria creazione, la lascia libera per il mondo.
Queste le premesse sulle quali si innesta una storia fatta di orrore, tenerezza, romanticismo e drammaticità. L'eterna lotta tra creatura e creatore, quasi una parafrasi dell'uomo e dio, arriva all'atroce culmine della distruzione di entrambi.
La storia è raccontata attraverso le lettere e gli appunti che il comandante Robert Walton, scrive alla sorella Margareth. Ciò crea una assimilazione (molto moderna direi) tra narratore e lettore, al punto che tutti i sentimenti che derivano dalla lettura ne escono ampiamente amplificati e più percepibili.
I personaggi sono tutti vagamente accennati, axd eccezione di Victor che appare con le sue debolezze e le sue paure. La creatura stessa, in fondo, stenta ad avere una propria individualità al punto di non avere nemmeno un nome.
Lo stile del racconto è piacevolmente acerbo, ampolloso in alcuni tratti e denota l'appartenenza al genere gotico imperante al tempo.
Certamente la storia va letta, anche più volte, non fosse altro per rendere giustizia ad un romanzo troppo mortificato dalle riduzioni cinematografiche che non hanno in alcun modo colto l'essenza della drammaticità della storia che la giovane Shelley ha voluto tramandare.
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Sarai oscurità
Romanzo ricchissimo di tematiche tutt’oggi attuali, “Frankenstein” è certamente tra i più noti esempi della letteratura gotica, nonché capostipite del filone legato ai mostri rianimati e agli scienziati pazzi, sebbene negli anni la storia originale sia stata posta in ombra dalle sue versione cinematografiche; questo cambiamento si evidenzia soprattutto nella figura del mostro, che da essere senziente e pieno di passioni, è diventato nell’immaginario collettivo una sorta di zombie incapace perfino di emettere suoni articolati.
Lo schema narrativo della vicenda ricorda quello di “Cime tempestose”, con un narratore di partenza che diviene in seguito spettatore al pari del lettore quando entra in scena un secondo narratore; in questo romanzo si opta però per una forma epistolare, che a tratti diventa quasi un diario personale.
Ci troviamo quindi sulla nave dell’esploratore Walton che, nel mezzo dei ghiacci artici, trova uno stremato Victor Frankenstein all’inseguimento della sua Creatura. Gran parte della vicenda è quindi narrata dal punto di vista del lettore e risulta pertanto distorta dai suoi sentimenti e dai suoi desideri, tant’è che si empatizza pienamente con lui, finché non è la volta di udire la versione della Creatura: da quel momento Victor appare sotto tutt’altra luce, risultando nulla più di un bambino viziato che, dopo aver morbosamente desiderato un giocattolo, se ne stanca in fretta e lo getta via.
Di riflesso, il mostro prima viene descritto come un freddo assassino, mentre con l’apprendere la sua commovente storia si comincia a rivalutarlo in quanto dimostra a più riprese di saper essere ragionevole e comprensivo, ben più del suo stesso creatore; in sostanza lo si può vedere come un Buon Selvaggio, nato puro e semplice per poi essere fuorviato dal contatto con la società umana, che ha letteralmente cancellato dal suo animo ogni traccia della primigenia bontà.
Per quanto riguarda gli altri personaggi, viene dato loro ben poco risalto nella vicenda; da notare è certamente come tutti non possano fare a meno di trattare amorevolmente Victor. L’unico personaggio a far eccezione è uno degli insegnati di Victor a Ingolstadt, Monsier Krempe, che è così diventato il personaggio secondario da me più apprezzato.
Uno dei maggiori pregi del romanzo, si ritrova nelle descrizioni paesaggistiche: le ambientazioni sono rese con maestria sia nei luoghi “civili”, come Ginevra o le altre città visitate da Victor, sia in quelli più remoti, come il mare ghiacciato affrontato da Walton.
Tra i temi maggiormente analizzati troviamo l’influenza delle passioni sulle azioni umane (e non, nel caso della Creatura), al punto da stravolgere completamente l’esistenza di chi si lascia travolgere sa esse.
Molto particolare è invece la percezione che i protagonisti hanno della felicità: se per il dottore si tratta solo di brevi momenti tra tanti dolori, il mostro sembra invece destinato a non provarla mai, ma pare poi ottenerla almeno per poco quando viene inseguito dal suo creatore, ed ha infine qualcuno che vive in funzione di lui. Vorrei infine spendere qualche parola su questa edizione. Benché le note a piè di pagina siano ben scritte e molto utili a comprendere meglio alcuni passaggi, l’introduzione mi è sembrata invece eccessivamente prolissa e ripetitiva, nonché piena di spoiler che hanno compromesso in parte la mia lettura.
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Il Prometeo che è mancato
Nell'immensa produzione mondiale di letteratura sono pochi i libri che hanno lasciato una impronta sul modo stesso di pensare come ha fatto il romanzo di Mary Shelley.
Sin quasi dalla sua prima pubblicazione Frankenstein ed il suo demone hanno segnato l’immaginario collettivo tanto da introdurre uno stereotipo stesso ed innumerevoli modi di dire.
Era da molto tempo che questo libro era in lista d’attesa, ma non trovavo mai il “coraggio” di leggerlo, poiché sentivo troppo opprimente la presenza delle innumerevoli interpretazioni che ne avevano offuscato l’idea originale. Tra parentesi, l’unica che mi sentivo e sento, tutt'ora, di sottoscrivere appieno è la versione ironica datane dalla coppia Gene Wilder/Mel Brooks.
Ho cercato comunque di partire senza preconcetti, sapendo bene che il romanzo della Shelley nulla aveva a che fare con i vari mostri cinematografici o di altra natura, tuttavia, forse anche per questo la delusione è stata ancor più cocente.
L’opera s’è rivelata, purtroppo, una cosina fragile, inconsistente pur con tutte le scusanti che ho cercato di trovarle: scritto da una ragazza di diciannove anni, con limitate esperienze della vita e del Mondo; in un’epoca in cui queste invenzioni, tra la fantascienza e l’horror, muovevano ancora i primi incerti passi (non parliamo delle scoperte scientifiche su cui basarsi); condizionato pesantemente da tutta una serie di pregiudizi morali, sociali e religiosi, tipici del periodo.
Lo stile è appesantito da una ridondante aggettivazione, spesso leziosa e sdolcinata. I personaggi, quasi tutti almeno (perfino, entro certi limiti, il demone stesso), sono pervasi di una eccessiva, irrealistica e stucchevole bontà d’animo e generosità di sentimenti, del tutto distaccata dalla realtà. Insopportabile ed insostenibile la svenevolezza di Frankenstein che, ad ogni contrattempo, si fa venire un mancamento che lo prostra per mesi e mesi. Ma soprattutto sono inaccettabili le ragioni stesse del romanzo: il demone è rifiutato solo perché brutto? E’ vero che l’autrice viveva in un epoca in cui la rettitudine morale era associata anche alla bellezza fisica e, di lì a poco, Lombroso avrebbe codificato certi pregiudizi, ma anche così la cosa appare irrealistica, soprattutto per quanto riguarda Frankenstein che per mesi s’era dedicato alla costruzione di quel mostro.
Sarebbe stato meglio giocare proprio sul concetto della immoralità di creare la vita, in competizione con Dio e con la presunzione di poter far meglio, per giustificare in modo molto più coerente, il generale rifiuto della creatura.
Frankenstein abbandona a sé stante una creatura ignorante e ignara del mondo in cui è stata proiettata per concedersi un deliqui di alcuni mesi? Semplicemente ridicolo oltre che incosciente ed immorale (dei due il vero e unico mostro è proprio lui). Sarebbe come se un moderno biologo producesse un nuovo supervirus e lo abbandonasse dentro ad una fiala sul pavimento di un bar.
A tutto ciò si aggiungano due ulteriori gravissimi difetti che demoliscono definitivamente l’opera. Da un lato l’innumerevole caterva di falsi storici introdotti: la vicenda è ambientata nel 18° secolo, non si sa esattamente in che periodo, e vengono citate opere letterarie e situazioni ancora di là da venire. Dall'altro le situazioni di umorismo involontario che costellano la narrazione: il demone che impara a parlare, leggere, scrivere in perfetto francese osservando da un foro le lezioni impartite all’araba Safie dalla famiglia De Lacey e, poi, parla come un retore e cita Milton e … Shelley e disquisisce di concetti che non dovrebbe neppure conoscere (!!!); il demone che attraversa mari, monti e lande artiche con una facilità che rasenta il miracoloso, soprattutto se si pensa che si nutre solo di sporadiche ghiande e radici strappate al terreno; Frankenstein che si muove e, quel che è peggio, ragiona, in un suo mondo personale totalmente scollegato da logica e realtà. E questi sono solo alcuni degli esempi che si potrebbero portare.
In conclusione sono rimasto totalmente insoddisfatto dalla lettura. Scontento reso più forte dal fatto che, in fondo, speravo in qualcosa di meglio delle elaborazioni cinematografiche e, invece, queste forse hanno migliorato l’idea originale. Ma soprattutto la delusione deriva dal fatto che una idea intelligentissima e originalissima sia stata malamente sprecata, quando, invece, poteva dar vita ad un capolavoro letterario di prima grandezza, solo giocando su altri parametri in modo diverso: l’ambizione dello scienziato, l’amicizia, il senso di colpa, l’amore/odio, la discriminazione del “diverso”, etc.
Mi rendo conto di non essere molto originale con questa mia critica (in passato l’opera di demolizione, portata avanti anche da voci autorevoli, è stata molto più feroce), ma non mi sento di ricercare gli elementi positivi, che peraltro esistono e, nei secoli, hanno consentito una rivalutazione generale del romanzo, proprio perché la cosa che più mi colpisce e l’occasione sprecata dall'autrice.
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