Dieci piccoli indiani
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Genialità di altri tempi
Un giallo firmato da Agatha Christie non può non essere interessante da leggere e godibile per adulti e giovani lettori.
Quando ho voglia di trama e di leggerezza un giallo classico è veramente terapeutico, anche se non vi ricorro spesso.
Per apprezzare l’opera bisogna ricordarsi dell’epoca in cui è vissuta la scrittrice e si rimarrà sbalorditi per la costruzione della storia e la storia stessa che sembrano quasi ideate per un film thriller di alta tensione con tratti macabri ed inquietanti.
La storia si consuma a Nigger Island, in una grande casa di proprietà di un certo signor Owen che invita per motivi diversi, tramite lettera, otto persone, sei uomini e due donne, che tra di loro non si conoscono. Quando queste persone si recano nella casa del signor Owen non trovano né lui, né la moglie, bensì i due governanti, i coniugi Rogers, i quali riferiscono di lavorare da poco per i padroni di casa, ma di non averli mai visti. Otto ospiti più i due domestici: dieci persone, dieci vittime come i dieci poveri negretti della filastrocca presente in ciascuna delle camere degli ospiti che muoiono tutti uno ad uno in circostanze misteriose.
Chi è il signor Owen?si farà vivo?e perché quelle persone sono state invitate e poi uccise?
Niente inizio in medias res, tutto parte dall’inizio, con trama lineare senza salti temporali importanti , tranne i vari flashback nelle vite delle vittime, necessari per la comprensione della storia.
Molto carino, ma non amando particolarmente la lettura dei gialli, non inneggio al capolavoro.
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L'enigna dell'isola chiusa
Durante una lezione di lettere alle scuole medie, vidi un film tratto da "Dieci piccoli indiani"; a posteriori mi rendo conto che non si trattava di un adattamento particolarmente fedele al romanzo, eppure per anni ho evitato questa lettura perché ero convintissima di conoscere già l'identità dell'assassino. Qualche mese fa ho infine deciso di recuperarne comunque una copia, perché mi sembrava inutile continuare ad aspettare, e... sorpresa: senza che io me ne rendessi conto, il mio cervello aveva memorizzato il colpevole sbagliato! Da un lato quindi sono rimasta davvero stupita al momento della risoluzione, dall'altro per tutta la lettura non riuscivo proprio a capire come il personaggio su cui vertevano i miei sospetti (aka, le mie certezze) potesse aver orchestrato il tutto. Semplice, perché era innocente!
La trama di questo romanzo presenta uno dei più famosi casi di enigma della camera chiusa: un gruppo di persone estranee tra loro vengono invitate a recarsi su Soldier Island -località molto chiacchierata perché di recente comprata da un anonimo benestante- con i pretesti più disparati: c'è chi pensa di ritrovare dei vecchi conoscenti, chi di essere stato assunto per un nuovo lavoro. Gli ospiti scoprono ben presto di essere le vittime prescelte di un giustiziere che intende punirli in quanto esecutori diretti o meno di delitti per i quali la legge non può perseguirli; a differenza di altre opere di Christie, non è presente una lunga introduzione che analizza a fondo i diversi personaggi, perché si arriva praticamente subito alle prime "esecuzioni" e solo in un secondo momento vengono approfonditi alcuni dei caratteri.
La gestione della struttura narrativa è a dir poco magistrale: non solo viene portato in scena uno dei migliori intrecci mystery di sempre, ma è anche presente un crescendo nella tensione che si genera grazie alle morti sempre più cruente e alla maggiore introspezione sui pensieri dei personaggi e sulle dinamiche che nascono tra loro. Il testo di focalizza inoltre sul tema della giustizia (non a caso diversi personaggi sono legati al mondo giudiziario), portando il lettore a riflettere su quali ne siano i limiti; sono presenti anche diversi elementi che rimandano al colonialismo che, a differenza di quanto può far pensare il titolo originale, viene condannato.
Assieme alla trama, i personaggi sono l'aspetto più riuscito del romanzo: tutti ben delineati e con dei comportamenti sempre verosimili. Ho apprezzato molto che non fosse presente la classica figura dell'investigatore, permettendo così alle potenziali vittime di prendere in mano l'indagine e organizzare strategie ed alleanze in base ai singoli sospetti. E se è vero che nell'epilogo vengono introdotte le figure di due uomini di legge, questi non contribuiscono comunque all'effettiva risoluzione del mistero.
Lo stile di Christie non ha certo bisogno dei miei elogi, soprattutto dopo averne parlato nelle recensioni di tanti altri suoi libri. Posso soltanto apprezzare la sua bravura nel gestire il ritmo narrativo, che è molto rapido ma permette comunque l'inserimento di intermezzi in cui vengono ampliate le backstories di quelli che potremmo considerare i protagonisti oppure si includono dei dettagli utili a creare un'atmosfera di tensione. L'autrice concede molto spazio anche all'analisi della psicologia dei personaggi, che vediamo deteriorasi sempre più con il proseguire della narrazione; in generale, il finale è un crescendo di sospetti ed azioni cruente così ben strutturato, che si arriva praticamente svuotati all'epilogo.
Infine, una breve nota sull'edizione. In questo caso la CE ha scelto di sostituire il termine "nigger" con "soldier", sia nella celebre filastrocca che nel nome dell'isola, come nell'edizione statunitense; per quanto si possano chiaramente capire i motivi dietro una simile variazione, è impossibile non notare la dissonanza con il titolo riportato sulla copertina. Se omettere "Dieci piccoli indiani" non era neppure un'opzione, si sarebbe potuto per lo meno utilizzare la versione corretta dell'ultima strofa, ossia "Non ne resta più nessuno".
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Chi sarà il prossimo?
Uno dei gialli più famosi di sempre. Quando lo aprii sapevo che stavo per imbarcarmi in una lettura eccezionale, ma per quanto le mie aspettative fossero alte Agatha Christe è riuscita addirittura a superarle.
Una trama intrigante, una serie di omicidi ingegnosamente architettati e un colpevole nascosto in agguato. Un elemento che rende questo racconto così insuperabile è l'atmosfera isolata, inquietante e irreale. Come i protagonisti ci si sente intrappolati e osservati dall'occhio invisibile dell'assassino. La suspence è resa ancor più acuta dall'attesa e dal presagio di morte contenuto in una filastrocca che risuona per tutta la villa.
"C'era qualcosa di magico in un'isola: bastava quella parola a eccitare la fantasia. Si perdeva il contatto col resto del mondo, perché un'isola era un piccolo mondo a sé. Un mondo, forse, dal quale si poteva non tornare indietro."
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Alcatraz
Il banco di prova degli autori di romanzi polizieschi è il classico “enigma della camera chiusa”, il giallo cioè dove tutti i personaggi sono giocoforza costretti in un ambiente ristretto, una camera chiusa appunto, con ingressi, finestre e comunicazioni con l’esterno ben sprangati dall’interno, ad impedire ogni accesso di cose e persone.
Da ciò deriva inevitabilmente che il colpevole è uno dei rinchiusi, si confonde tra i presenti, ma è da annoverarsi senza dubbio tra di loro, non può essere altrimenti.
Niente inganni, niente giochi di prestigio, passaggi segreti o accessi nascosti, luogo sigillato e protagonisti ristretti ai presenti.
Questo rende tutto più difficile per lo scrittore del genere, deve inventarsi soprattutto non come dissimulare prove e indizi che conducano al colpevole bensì come mimetizzarlo, stavolta non basta individuare il “cui prodest” in genere, serve identificare chi è precisamente l’interessato tra una cerchia contenuta di sospetti.
Per questo è una vera prova d’autore, occorre che il colpevole sia davvero un insospettabile, quello che meno di chiunque altro ha il modo ed il motivo di commettere il delitto, e quindi gli autori migliori, negli enigmi più riusciti, esplicano la soluzione con un inaspettato, talora stupefacente, colpo di scena finale, tanto logico ad apparire a cose fatte, quanto sorprendente, che inevitabilmente suscita il plauso entusiasta del lettore appassionato di simili storie enigmatiche.
Agatha Christie non ha bisogno di presentazioni di sorta, la Regina del Mistery si è più volte cimentata alla grande su delitti in ambiente circoscritto, per esempio nel magistrale “Assassinio sull’Orient Express” o su “Poirot sul Nilo”, in cui il suo personaggio principe, il piccolo e comico a vedersi investigatore belga dimostra il suo acume poliziesco, che poco fa ridere i colpevoli, investigando su una stretta cerchia di persone rinchiuse in un luogo circoscritto, inaccessibile ad esterni, un treno bloccato nella neve nel primo testo citato, un battello da crociera nel secondo.
Ma stiamo parlando della Regina di questo genere di storie, come tale per lei ogni romanzo è una sfida ad ingegnarsi a perfezionare oltre la cosa, quindi non può e non vuole esimersi e sottrarsi ad offrirci un nuovo giallo in spazi ristretti.
Solo che, come tutti i talentuosi anche un po' narcisisti, non si ripete, quindi penserà sempre più in grande, allestirà un mistero sempre più difficile, e dopo aver ben costruito l’impianto della nuova storia, passerà senza indugio ad uno step successivo, il meglio di sé lo offrirà, senza tema di confronti, con un luogo chiuso alquanto più ampio, un’isola, una vera isola tagliata fuori dal mondo, giusto a voler significare che treni e battelli fluviali sono oramai poca cosa per il suo talento, meglio ampliare scenari e difficoltà.
Cosicché i lettori sappiano con chi hanno a che fare, vedano come ancora una volta Agatha Christie appronta una storia perfetta, gioca con il suo lettore, non imbroglia o bara platealmente, ma ne distoglie l’attenzione dagli indizi essenziali, così come si fa con i giochi di prestigio, dopotutto è onesta, gli indizi sono tutti lì, basta incastrali nel giusto ordine, una questione di logica, e solo allora si vede che la storia convince, tutte le sue parti si armonizzano alla perfezione…appunto, solo al termine della lettura.
La scrittrice inglese, in sintesi, riesce alla grande anche quando l’enigma della camera chiusa lo ripropone in grande, addirittura su un’isola, niente da eccepire, tanto di cappello.
Un’isola, per quanto piccola comunque un’isola, poco lontano dalle coste inglesi, dove un barcaiolo accompagna otto persone, sconosciute tra di loro, tutte persone diverse per età, sesso, professione, estrazione sociale, tutte e otto come vedremo invitati nell’isola, o meglio ciascuno allettato diversamente a recarsi nell’isola, da un misterioso signor U.N. Owen e gentile consorte, tra l’altro ignoti a chiunque dei suoi invitati: ma evidentemente il misterioso anfitrione deve aver fatto leva sul opportune motivazioni per aver convinto tutti ad accettare l’invito e recarsi senza indugio ospite di qualcuno che non hanno mai conosciuto in vita loro.
Nell’isola sono accolti però solo da una coppia di domestici, che li accompagnano ciascuno nella propria camera in una grande e lussuosa residenza, evidentemente i proprietari, assenti perché trattenuti li raggiungeranno in seguito; sulla piccola isola restano quindi solo dieci persone, anche il marinaio che li ha accompagnati, unico legame con la terraferma, si allontana con la sua barca.
Ciascuno degli ospiti, domestici compresi, che neanche loro hanno conosciuto ancora i nuovi datori di lavoro, prendono confidenza con l’ambiente, e ognuno è incuriosito dal testo di una antica filastrocca, incorniciata sulle pareti delle rispettive camere, che riporta la storia di dieci piccoli indiani, si intende qui i nativi dell’India, ognuno dei quali muore con differenti modalità.
Quando poi tutti e dieci, domestici compresi si ritrovano a sera nel salone principale, dapprima sono sorpresi dal perdurare dell’assenza di chi li ha lì convocati chi per un motivo chi per un altro, poi addirittura stupefatti allorché un registratore nascosto li informa che in realtà sono stati attirati nell’isola a scopo di giustizia da un inesistente quanto fasullo signor U.N. Owen, un nome che è già una dichiarazione di guerra, poiché la pronuncia è identica al termine inglese che sta per “sconosciuto”, in quanto ciascuno di loro è colpevole di un omicidio, senza ombra di dubbio, con tanto di nome delle vittime e delle date in cui sono avvenuti i delitti, anche se la giustizia degli uomini non è riuscita ad inchiodarli alle loro responsabilità.
Segue lo sconcerto generale, l’affannarsi delle voci concitate di tutti gli astanti, il discolparsi dalle accuse, il proclamare ciascuno a suo modo, ognuno a gran voce, con fermezza se non sdegno, la falsità delle calunnie, niente più che basse e false insinuazioni, ognuno propone il racconto di come sono andate effettivamente le cose per rimuovere ogni dubbio in proposito sulla propria innocenza, tant’è che nessuno è stato riconosciuto colpevole da un tribunale, e intanto sul tavolo della sala troneggia come centrotavola una insolita scultura di dieci piccoli negretti con in testa il tipico turbante dei nativi dell’India.
Da quel momento, è una vera e propria discesa agli inferi.
In un clima di tipica tensione inglese, davvero insostenibile, alla Hitchcock per intenderci, una alla volta un ospite viene assassinato, con modalità diverse, che rispecchiano quelle riportate nella filastrocca, tramite veleno, violenti traumi da corpi contundenti, colpi di arma da fuoco, ecc.
Nello stesso tempo, ad ogni omicidio corrisponde la scomparsa di una delle statuette dal tavolo centrale, a scandire un terribile quanto inesorabile conto alla rovescia.
L’isola è davvero deserta, i dieci sono isolati come reclusi sul penitenziario di Alcatraz, successive esplorazioni dell’isola degli stessi protagonisti lo confermano, per di più è anche tagliata fuori da qualsiasi comunicazione con l’esterno, anche per il sopraggiungere di una violenta tempesta.
Sembrerebbe ovvio che l’ultimo dei dieci che rimane in vita sia in realtà il colpevole degli omicidi precedenti, almeno per esclusione, invece non è affatto così.
Letteralmente, non ne rimane in vita nessuno; e successive indagini condotte dalle forze dell’ordine, intervenute a dipanare il mistero dell’insolito eccidio, una volta ristabiliti i collegamenti con la terraferma per l’arrivo dei rifornimenti, portano ad un desolante nulla di fatto.
Un mistero quindi, e uno di quelli grossi, un rompicapo senza esito, poiché le indagini permettono di appurare che nessuno può essere stato assassinato per l’intervento degli altri presenti, quasi a significare per assurdo che i morti si forniscano un alibi a vicenda, e sull’isola davvero non esisteva un undicesimo che potesse giustificare la strage.
Agatha Christie letteralmente in questo giallo, rimasto negli annali come un capolavoro del genere, ha offerto il meglio della sua arte.
Con una prosa brillante, come sua solita semplice ma descrittiva al massimo, che scorre fluida con ritmo progressivamente ingravescente, mette in scena un vero e proprio processo a quello che è il più odioso dei crimini, la privazione della vita: lo fa con brio, con velocità, e però con la massima serietà, quella dovuta alle aule di un tribunale, direi che nel trambusto degli eventi che si svolgono sull’isola senza soluzione di continuità, si sentisse comunque chiaro sullo sfondo lo scorrere della sabbia nella clessidra della giustizia.
Una giustizia completa: i colpevoli non sono solo riconosciuti tali e affidati alla custodia in un’altra isola, una Alcatraz vera e propria, stavolta, dove scontare la pena, ma sono passabili di pena capitale.
Se nei suoi gialli precedenti il ruolo di deus ex machina, inteso nel senso di colui che, un Poirot o una Miss Marple, rimette le cose a posto, riporta ordine e giustizia spiegando minuziosamente come sono andate in effetti le cose, ponendo in sequenza logica i successivi indizi sparsi tra le pagine, qui questo ruolo manca, non esiste investigatore, e nemmeno un superstite a spiegare le cose.
Allora la scrittrice ricorre ad un deus ex machina classico, il manoscritto trovato in una bottiglia, un elemento risolutore che sembra anche uno sberleffo della scrittrice, notoriamente una donna egocentrica e complessa, quasi volesse dire: meglio che fornisca io la soluzione in qualche modo, tanto non ci arriverete mai. E magari aveva ragione lei. Per forza, era una Regina.
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Solo Miss Marple poteva salvarsi su Nigger Island
Il giallo dei gialli della “Signora del giallo”. Agatha Christie si è superata con Dieci piccoli indiani. Una costruzione a tessere iniziale azzeccata e vincente. Nelle prime pagine pennella i suoi personaggi, ce li presenta e soprattutto instilla in ognuno di noi un dubbio. I protagonisti di Dieci piccoli indiani convivono, infatti, con un fardello legato al loro passato. Un peso che riecheggia costantemente nelle loro menti. Dall’arrivo degli otto ospiti, ai quali bisogna sommare i due governanti per raggiungere la cifra tonda di dieci, a Nigger Island il pathos cresce. L’atmosfera diventa tagliente e non ci si riesce più a staccare dal romanzo. Uno dopo l’altro i protagonisti cadono sotto le astute, crude e perverse mosse dell’assassino. Ipotesi, congetture e strategie di difesa si susseguono, ma l’unica certezza è il realizzarsi della filastrocca che ognuno degli ospiti trova appesa nella propria camera. Il gruppo di Nigger Island è eterogeneo, poiché tutti insieme si ritrovano un giudice in pensione, un dottore di successo, un ex generale, un poliziotto, una balia, un avventuriero in paesi esotici, un giovane baldanzoso amante della bella vita… Come sempre, la Christie si dimostra abile conoscitrice dell’animo umano. Va a fondo sulle paure dei protagonisti, ma non soltanto su quelle. Cerca di far emergere il ragionamento, la riflessione, la spiritualità di questo gruppo di persone “selezionate” per il misterioso viaggio a Nigger Island. Accelerazioni improvvise si alternano con momenti di pura frustrazione, quella di chi si sente appeso ad un filo, quella di chi deve temere e diffidare del suo prossimo. Il piano a tavolino dell’assassino riesce alla grande, ma soltanto nelle ultime pagine si conosce l’identità di questo terribile giustiziere di vite umane. Chiudiamo con una provocazione divertita. Leggendo Dieci piccoli indiani, è lecito pensare che da Nigger Island avrebbe potuto salvarsi soltanto la creazione letteraria più straordinaria della Christie, ovvero Miss Marple. Solo l’arguzia dell’anziana zitella, infatti, avrebbe potuto fermare anticipatamente l’assassino di questo straordinario classico della letteratura mondiale.
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In qualunque momento abbiamo la morte alle spalle
Dieci persone vengono invitate per diversi motivi su un’isola da un certo Signor Owen. Gli invitati non si conoscono tra di loro e una volta arrivati scoprono che il signor Owen non c’è; ad attenderli vi sono solamente i due domestici i quali, come ognuno di loro, non hanno ancora conosciuto il proprietario della villa. In ognuna delle camere assegnate agli ospiti è appesa al muro una filastrocca che narra di dieci negretti i quali, uno dopo l’altro, muoiono in modi differenti. Gli ospiti dunque dovranno cercare di guardarsi le spalle per poter sopravvivere sull’isola e non subire la stessa sorte dei dieci negretti.
Uno dei racconti più famosi di Agatha Christie che qui mi ha lasciato, al pari di “Assassinio sull’Orient Express”, con il naso incollato alle pagine fino alla fine. Nei primi capitoli vengono introdotti tutti i protagonisti attraverso i loro motivi per cui sono stati invitati sull’isola. La trama è lineare, nonostante ci siano alcuni salti nel passato da parte dei personaggi che possono aiutare a comprendere meglio la loro forma mentis. Arrivati all’inizio dell’ultimo capitolo vi sono tante domande che possono aleggiare nella mente del lettore, tuttavia trovano risposta nell’ultimo, avvincente capitolo.
Lo stile mi è piaciuto: nonostante sia un libro scritto negli Anni ’30, l’ho trovato attuale per molteplici versi. Le frasi non sono difficili e i dialoghi presenti contribuiscono a far scorrere la lettura in modo lineare. Ho apprezzato che l’ultimo capitolo del libro venga presentato come Epilogo, il che potrebbe indurre il lettore a pensare che il racconto sia ormai terminato, il mistero sia stato risolto e ciò che si andrà a leggere sarà solo un post-racconto. Tuttavia arrivati all’Epilogo ci si accorge che in quel capitolo sono racchiuse tutte le spiegazioni inerenti quanto letto fino a quel momento.
Libro che consiglio assolutamente agli amanti dei gialli e della scrittura di Agatha Christie, poiché qui ho trovato un misto di tensione, spionaggio, mistero e colpi di scena che hanno reso questo libro il capolavoro che è oggi. Ogni capitolo induce il lettore ad iniziare quello successivo fino ad arrivare alle ultime righe del libro in cui vi è un finale inaspettato che mi ha personalmente lasciato a bocca aperta e che mi ha fatto capire perché l’autrice sia stata definita la regina del giallo.
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DIECI PICCOLI OMICIDI
Capolavoro della giallista per eccellenza Agatha Christie.
Dieci persone con dieci modi diversi vengono rintracciate dal misterioso signor Owen che li invita a presentarsi a Nigger Island, un’isola la cui forma ricorda quella di un uomo di origine africana. Un giudice, una donna timorata di Dio, un ex generale, un giovane e avvenente ragazzo, una governante, un maggiordomo e sua moglie, un medico, un ex capitano e un investigatore privato. tutti accusati di essere responsabili in un modo o nell’altro di omicidi.
Nessuno ha mai visto quest’uomo e la sua signora, nemmeno i maggiordomi e tutti i presenti si domandano il perché siano lì tutti insieme, in una casa gigantesca, in un’isola in cui del signor Orwen non c’è traccia.
Sulla parete sopra il caminetto nelle loro stanze c’è una pergamena con scritta una piccola filastrocca con un incipit: “Dieci piccoli negretti…” che narra di piccoli bambini che ad uno ad uno assaporavano la morte, tutti per cause diverse una dell’altra. Tutto incomincia a prendere senso quando piano piano, uno dopo l’altro, tutti gli ospiti di quella casa cominciano a morire esattamente come nella filastrocca, con le stesse modalità.
Era chiaro che qualcuno aveva architettato quella messa in scena per farli fuori tutti per chissà quale ragione ed escluso che fosse il signor Owen di cui iniziavano pure a dubitarne l'esistenza, tutti si convinsero che l’assassino era uno di loro e cominciarono a dubitare, a guardarsi come sospetti, a cercare di scovare da soli il traditore, a incolparsi a vicenda.
La filastrocca finì con l’ultimo piccolo negretto che si suicidò e così successe davvero anche per l’ultimo superstite di questa carneficina. Il finale chiarisce ogni dubbio.
Come per qualsiasi giallo che si rispetti la tensione rimane alta per tutta la durata della storia e come sempre tutto quello che può sembrare non lo è affatto in una crescente voglia di sapere come si sarebbe conclusa la storia che si insinua nell’animo del lettore, che potrebbe finire con il complimentarsi con l’assassino per la grandissima astuzia nel compiere quei dieci piccoli assassini che rientravano tutti nel suo piano malvagio architettato in ogni minimo particolare, senza che nessuno potesse sospettare nulla per tutta la durata del tempo.
Consigliato agli amanti del genere e di sicuro accanto al nome Agatha Christie la parola garanzia è la più giusta.
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Capolavoro moderno
Pur essendo io un profano del giallo, conoscevo già a grandi linee la storia di questo romanzo, in quanto negli anni è stato omaggiato, scimmiottato e anche parodiato. Avevo anche visto uno dei primi adattamenti cinematografici a scuola, in cui rimasi semplicemente affascinato e folgorato dalla trama e la sua originalità di giallo deduttivo.
Recentemente ho avuto occasione di recuperare il romanzo, ed è stato proprio come lo ricordavo; pur non rammentando i personaggi e l'assassino ma solamente l'ambientazione e la trama, ho potuto riscoprire "l'enigma della camera chiusa", e, se permettete, è una ficata pazzesca.
Non sono mai stato un fan dei polizieschi o dei noir, ma il giallo classico ha sempre attirato la mia curiosità, e, con questo mio primo approccio al genere, ora ho intenzione di proseguire verso questo indirizzo letterario. Perché la maestria con cui Agatha Christie ha messo in scena i personaggi e la trama, è semplicemente fantastica; tutti sono sospettabili e allo stesso tempo non si ha un'idea precisa dell'assassino, e tuttavia, cadono tutti uno dopo l'altro come tessere del domino.
Ora, se a livello tecnico è magistrale visto e considerato come tutto è stato messo in scena, il contenuto inserito non è da meno; l'autrice pone al lettore una riflessione sul concetto di giustizia, che, per malafede o per fortuita coincidenza, non è stata amministrata da un tribunale o un ente giuridico. Difatti, i personaggi sono tutti accusati di omicidio o di complicità nel delitto, ma sono stati prosciolti dalle accuse; il concetto di giustizia viene quindi a meno, ma solo per essere sottoposto a una attenta analisi di un contesto di iniziativa personale e illegittima.
Penso inoltre, senza tante cerimonie, che il finale sia uno dei più poetici che abbia mai letto.
Consigliato caldamente.
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UN’ANALISI TRASVERSALE DI LIBRO E ADATTAMENTI
SPOILER
In questo articolo voglio analizzare alcuni aspetti del libro “Dieci Piccoli Indiani” di Agatha Christie, scritto nel 1939, e di due adattamenti dell’opera, rispettivamente per il grande e per il piccolo schermo: il film del regista Renè Claire, realizzato nello stesso anno di uscita del libro, e la recente miniserie televisiva, da tre episodi, realizzata nel Regno Unito nel 2015.
IL ROMANZO - Personalmente ritengo il manoscritto dell’autrice britannica un vero e proprio capolavoro, tecnicamente perfetto a livello di trama e di stile di scrittura.
Inoltre, ritengo che all’interno di qualunque vicenda narrata (in forma di libro, film, ecc.) sia richiesta una buona dose non solo di LINEARITÀ DI TRAMA, ma anche di LOGICA. E, nuovamente, non si può che inchinarsi alla schiacciante logica del finale del libro, dove la soluzione all’intricato enigma viene resa sotto forma di confessione del colpevole, restituita in una pergamena ritrovata in una bottiglia abbandonata al mare.
Gli elogi non si esaurirebbero qui, ma intendo sottolineare la più grande nota di merito del racconto, a parer mio, a partire da una critica.
La critica sta nella seguente domanda: la serie di delitti era davvero inevitabile? O, meglio, uno dei protagonisti della vicenda non sarebbe stato in grado di arrivare alla soluzione, usando un poco di intelligenza? Gli indizi a disposizione dei dieci piccoli indiani - e di noi lettori -, dopotutto, non mancavano… ma la risposta è negativa!
Per un piccolo indiano il cui crimine più grande è stato scoperto, si rende impossibile agire in modo lucido. Il solo personaggio che accarezza la verità è colui che non nega la propria colpa, ma che, però, non collega lo stile da tribunale dell’accusa al grammofono e le fredde e impeccabili ricapitolazioni dei fatti all’identità dell’assassino. Trattandosi di prove impugnabili per pochi istanti, dato il rapido susseguirsi dei tragici eventi, anche il più scaltro dei dieci non può che, infine, arrendersi, pur se dotato di pistola.
E noi lettori? Grazie ad un’attenta lettura avremmo potuto facilmente scoprire il colpevole? La risposta risiede nella prima lettura! Ecco, grosso modo, come è andata per gli amanti del genere e non solo: pagine divorate con avidità, lettura tutta d’un fiato conclusa in meno di due-tre ore, bramosia di arrivare al finale, nessun tempo o spazio per elaborare teorie o congetture, solo il desiderio di svoltare pagina per arrivare alla spiegazione dell’inspiegabile, del fiabesco, del mistico e della menzogna umana. Chi ha ingannato la giustizia è stato, ingiustamente, ingannato dal solo che non lo ha fatto.
IL FILM DI RENE' CLAIR - Il film del 1939 di Renè Claire rende un immediato omaggio al manoscritto della Christie, facendo l’opera fruibile al pubblico cinematografico. Dei diversi adattamenti successivi sul grande schermo, a parer mio, il lungometraggio di Renè Claire resterà il meglio riuscito, nonché il più fedele al romanzo, ad eccezione del finale.
Partiamo proprio da qui, dalla conclusione della vicenda, che se nella sostanza resta una pietra miliare della narrativa gialla, nella forma rappresenta una difficile sfida scenografica. Impossibile, difatti, restituire il finale del libro, col messaggio nella bottiglia. La stessa Christie, per adattamenti teatrali dell’opera, ideò un finale alternativo, in cui due indiani sopravvivono e ai quali il colpevole spiega lo svolgersi degli omicidi. Il finale del film di Claire percorre questa strada, fornendo una spiegazione delle vicende non dettagliata in ogni sfaccettatura come nel libro, ma esauriente e chiara, con i DOVEROSI FLASHBACK DI ALCUNE FASI DEI DELITTI.
Ottima la preparazione dell’alleanza tra i due personaggi chiave della vicenda, l’uno ignaro e l’altro colpevole, innocuamente mostrata prima della soluzione dell’enigma e successivamente approfondita nei flashback di cui sopra.
La filastrocca dei dieci piccoli indiani, di enorme importanza all’interno della storia, viene sufficientemente messa in risalto, grazie al brillante escamotage di intonarla come una sonata al pianoforte da parte di uno dei protagonisti, prima dell’accusa che dà il via alle morti.
Un’altra nota di merito al lungometraggio di Claire va all’aria di macabra comicità presente in alcune scene della pellicola: la faccia sempre ilare del colpevole, quasi paciosa; una sequenza in cui quattro personaggi si rincorrono a vicenda nei corridoi per poi sbattere l’uno contro l’altro, in una gag esilarante; l’agghiacciante - e al tempo stesso buffa - battuta finale di uno dei superstiti, che dice al barcaiolo sopraggiunto di “andare a chiamare gli altri ospiti”… Queste scenette alleggeriscono in modo sinistro l’atmosfera del film, che, d’altro canto, non suscita mai quel senso d’ansia che invece trasmette il libro e l’adattamento televisivo di cui si parlerà più avanti.
Nota negativa del lungometraggio, quindi, sta nella quasi totale assenza di suspense dal punto di vista strettamente stilistico, con la stessa colonna sonora che si ripete forse troppo, sebbene il climax sia presente con l’avanzare della trama. Il poco tempo a disposizione per il regista, inoltre, determina una scarsa introspezione dei singoli personaggi.
Per concludere, non posso che promuovere pienamente il film di Renè Claire, con una votazione di 9/10, con l’unica pecca di un’assenza scenica di tensione, dovuta anche agli stili registici dell’epoca (mai mostrato sangue o scene di violenza, bizzarra ma ininfluente contraddizione).
LA MINISERIE BRITANNICA - La miniserie britannica del 2015 “And then there were none” è un piccolo capolavoro, adattamento impareggiabile in termini di cast, fotografia e colonna sonora. Ma voglio subito iniziare dando il voto a questa versione del romanzo, che, nonostante ciò che è stato detto, non supera il 7/10…E adesso vi spiegherò il perché.
Prima di addentrarci nell’analisi, occorre specificare un aspetto estremamente rilevante. La miniserie è stata resa fruibile ad un vastissimo pubblico di spettatori, quelli televisivi, di cui molti non hanno avuto il privilegio di leggere il libro prima di approcciare allo sceneggiato, mentre altri – crimine grave – lo hanno letto una sola volta e se ne sono dimenticati… Hanno dimenticato la maniacalità dei dettagli, delle descrizioni, dei pensieri… La seguente analisi, perdonatemi, è dedicata solo a chi, come me, conosce ogni più insignificante virgola del manoscritto e che, dopo la scoperta di un’opera da tre ore dedicata al più grande romanzo giallo della storia, dopo un paio di scene, si sono commossi…ma, come dimostrarono i fatti, avevano torto…(cit.)
Come detto, gli aspetti scenici e televisivi sono eccezionali: cast di alto livello, colonna sonora che dà il giusto ritmo alla vicenda, ottima fotografia.
Inoltre, anche a livello di trama, lo sceneggiato è estremamente fedele al plot originale del libro. E l’incipit lo conferma subito: un flashback dell’ultimo piccolo indiano - cosa che si ripeterà -, quello macchiatosi del crimine più grave…ed al quale, giustamente, viene concesso il maggiore spazio in termini di approfondimento psicologico. Date le tre ore complessive di durata del telefilm (si tratta di tre episodi per un’ora ciascuno), non manca una buonissima introspezione anche degli altri personaggi.
Ottima la preparazione alla vicenda vera e propria, si diceva, fin dalle prime scene: l’arrivo dei diversi ospiti sul luogo dei futuri delitti, chi in treno, chi in automobile, e la traversata in battello. La precedente stesura a macchina da scrivere dei finti inviti mette i brividi: chi non conosce la vicenda troverà solo un guazzabuglio senza senso in quelle poche parole estrapolate da ciascuna lettera, chi già conosce anche i nomi dei mittenti si emozionerà (un nuovo invito a proseguire nell’analisi solo ai più accaniti fan). Un uomo, in una sala di registrazione, si domanda dubbioso se il disco che debba registrare sia davvero destinato ad una mess teatrale…e inizia il “J’accuse”.
Approfondendo ulteriormente il viaggio in treno, vengono fedelmente riproposti i primi inconsapevoli incontri tra i protagonisti, con, lasciatemi dire, la prima grande grave pecca di questo adattamento. Nel libro, infatti, a bordo del treno, un vecchio lupo di mare avverte un piccolo indiano sull’imminente tempesta in arrivo e sul fatto che il giorno del giudizio sia alle porte, concludendo con caparbietà il primo capitolo del manoscritto. Il tralasciare una scena del genere in una pellicola tanto lunga (non verrà riproposta nemmeno come flashback prima della morte dell’indiano in questione) è, a parer mio, un delitto mortale.
Parlando della filastrocca, viene data poca enfasi ai versi premonitori di morte, ma la filastrocca stessa, in sé, viene adeguatamente messa in luce, incorniciata non solo nelle stanze di tutti i dieci piccoli indiani ma anche in sala da pranzo, e più volte ripresa dalle telecamere.
Le premonizioni di morte vengono attribuite non tanto ai versi della filastrocca, oggettivamente difficili da memorizzare in un contesto non scritto, ma a frequenti allucinazioni in stile horror, che fanno la loro parte senza stonare.
Gli indizi vengono velatamente fatti trasparire – chiaramente chi conosce il libro è più che avvantaggiato – e la telecamera, negli attimi di tensione, lecitamente e a più riprese indugia sul colpevole.
I delitti vengono enfatizzati più che nell’adattamento di Renè Claire, tuttavia senza mai essere mostrati, né nel plot presente nè nei flashback. Questa singolare scelta, data la lunghezza della pellicola, fa storcere il naso in almeno un paio di circostanze, in quanto la totale mancanza della parte investigativa (il detective lascia spazio alla paranoia) avrebbe permesso un maggiore focus sulla parte macabra della storia. Specialmente nel secondo episodio della serie, invece, le morti si susseguono troppo rapidamente e, quasi, senza essere mostrate nè spiegate.
I rapporti fra i personaggi vengono grosso modo rispettati. Ad altri contesti di dibattito la storia d’amore inscenata tra due personaggi, nel libro sottointesa ma mai esplicitata. Data la conclusione della vicenda amorosa in questione, forse, sarebbe stato opportuno attenersi più rigidamente al libro. Ma si concede una licenza alla regia per questa scelta.
Arriviamo, ora, ad un grandissimo dilemma su una particolare scena inserita nell’ultimo episodio della serie, ancor prima dell’altrettanto discutibile scena finale. Il contenuto di quanto segue vuole essere una critica esclusivamente sulla funzionalità delle due scene precedentemente citate, in quanto l’esistenza della prima (una festa improvvisata tra gli ultimi quattro superstiti, ormai succubi dell’inevitabile), SEQUENZA AZZECCAT MA NON PRESENTE NEL LIBRO, riduce inevitabilmente la completezza della seconda (la grande rivelazione finale). Un buon compromesso sarebbe stato allungare di dieci minuti la pellicola…ma così non è stato. E ora passiamo ad analizzare singolarmente queste due fondamentali sequenze.
La prima, come detto, consiste nell’improvvisazione di una festa per sminuire la pazza tensione presente tra gli ultimi quattro superstiti, consci del fatto che si sarebbero apprestati a vivere la loro ultima notte. Spazio quindi ad alcol, fumo e droga (gentilmente offerta da un piccolo indiano deceduto). E la musica. In un cocktail paranoico lo spettatore assiste incredulo ma compiaciuto – vale anche per i fan accaniti – ad una scena nuova, mai vista né letta, il cui significato morale è azzeccatissimo, mentre non lo è la verosimiglianza della scena stessa. La musica che il telespettatore sente non è colonna sonora, è quella ballata all’ interno della storia da quattro persone che entro dodici ore sarebbero state uccise nei modi più assurdi, mentre in sottofondo riecheggia sinistra l’accusa al grammofono. Se ne vanno così dieci minuti di pellicola che revocano quel tono di macabra ilarità che Renè Claire aveva sapientemente conferito al suo lungometraggio, spalmata in più scene, senza però commettere l’errore che questa brillante miniserie si riserva negli ultimi minuti: una ricapitolazione dei fatti frettolosa nella scena finale, che lascia l’amaro in bocca tanto agli spettatori ignari dell’identità dell’assassino e del reale svolgersi dei fatti (vi avevo detto di andarvene!) sia a chi già sapeva.
Arriviamo così ad analizzare la scena finale dell’ultimo episodio della serie, il dipanamento di una matassa oggettivamente difficile da rappresentare tanto al cinema quanto in televisione, come già detto. La scelta degli autori del telefilm è quella di seguire fedelmente, fino all’ultimo, la storia originale: “…ad un pino si impiccò e nessuno ne restò”. Conclusa la lettura del romanzo, si poteva immaginare il colpevole nascosto nell’ombra, che assisteva da dentro un armadio o da dietro ad una porta all’auto-impiccagione dell’ultimo piccolo indiano, per poi mettere in scena il proprio omicidio dopo aver scritto e consegnato al mare la propria confessione. Come tradurre tutto ciò? Irrompendo nella stanza dopo che il cappio è stato infilato al collo, puntando la pistola all’ultima vittima e spiegando, con calma, il dipanarsi degli eventi, i motivi delle azioni e delle punizioni, gli inganni perpetrati e l’alleanza decisiva con una vittima ignara. Ma qui lo scivolone… accade tutto come previsto per una resa scenica, ma l’ultimo indiano, angosciato dall’improvviso arrivo del colpevole, scivola e resta in bilico col fiato in via di estinzione sulla sedia rovesciata. Scelta che compromette pesantemente, e in peggio, la velocità e la facilità di comprensione della spiegazione finale. Lo spietato serial killer dà una sommaria spiegazione dei fatti e di come lui, il solo innocente, abbia ingannato e ucciso coloro che avevano ucciso e poi avevano ingannato. Infine egli allontana spietatamente la sedia rovesciata da sotto i piedi della vittima, ultimo appiglio di vita del decimo piccolo indiano. Lo spettatore ignaro assiste impotente al suicidio finale del colpevole, scenograficamente accettabile, chiedendosi come mai siano andati i fatti. Chi invece sa tutto resta senza ombra di dubbio grato alla realizzazione di una sì tanto encomiabile adattazione di una leggenda che, come tale, resta inimitabile anche nella sua perfezione di stile e di logica delle vicende narrate.
Indicazioni utili
Il nome della rosa
XY
"E poi non rimase nessuno"
È un giorno di agosto del 1939 e otto sconosciuti si ritrovano sulla costa del Devon per imbarcarsi su un battello e raggiungere Nigger Island, una minuscola isola sperduta in mezzo al mare che deve il nome alla sua forma, curiosamente simile alla testa di un nero. Ciascuno di loro, per una ragione diversa, ha ricevuto un invito a recarsi sull’isola da parte dei misteriosi signori Owen, marito e moglie, che nessuno ha mai visto e di cui non si sa nulla se non che hanno acquistato Nigger Island e l’unica abitazione che vi si trova, una villa elegante e moderna costruita dal precedente proprietario. Giunti sull’isola, gli ospiti non trovano traccia degli Owen e ad accoglierli ci sono soltanto il maggiordomo e sua moglie, per un totale di dieci persone, tutte molto diverse tra loro per età, occupazione, storia personale, e convinte di non avere nulla in comune se non la convocazione improvvisa sull’isola. Ciascuno di essi, invece, nasconde un oscuro, terribile segreto e quando i dieci piccoli ospiti di Nigger Island iniziano a morire misteriosamente uno dopo l’altro, come i dieci piccoli indiani di un’inquietante filastrocca appesa al muro in tutte le stanze della villa, come le dieci piccole statuine di indiani che fanno bella mostra di sé sul tavolo della sala da pranzo e che scompaiono una dopo l’altra, un morto dopo l’altro, diventa chiaro che un folle, un omicida seriale o un macabro giustiziere ha orchestrato un gioco terribile, un lungo, spaventoso incubo ininterrotto dal quale, forse, nessuno può uscire vivo.
Isolata da una tempesta, tagliata fuori dal mondo esterno, immersa in un’atmosfera surreale e allucinata, Nigger Island si rivela una trappola a cielo aperto, priva anche della consueta, rassicurante presenza di un investigatore, garante del principio che prima o poi l’omicida sarà smascherato e punito e l’ordine e la ragione ripristinati. Nell’incubo dei dieci piccoli indiani, intrappolati sull’isola come nelle loro coscienze macchiate dalla colpa, la ragione è sospesa e l’unico ordine esistente è quello stabilito da una misteriosa, inconoscibile coscienza superiore – U.N. Owen, “unknown”, “sconosciuto” – che sovrasta tutte le altre, incarnazione pura e terribile della giustizia, e che le giudicherà una ad una, impassibile, fino all’ultima riga della filastrocca che scandisce il tempo sospeso e irreale di Nigger Island: “e poi non rimase nessuno.”