Narrativa straniera Classici Bartleby lo scrivano
 

Bartleby lo scrivano Bartleby lo scrivano

Bartleby lo scrivano

Letteratura straniera

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Bartleby è il nome di un grigio, sparuto impiegato di Wall Street che, senza fornire spiegazione alcuna, man mano rinuncia al suo lavoro di copista e rimane immobile in silenzio a fissare un muro, impervio a ogni tentativo di persuasione, mite e rispettoso ma graniticamente risoluto. In questo straordinario racconto (fra i più belli dell'intera letteratura americana) Melville dimostra da grande maestro di saper trattare con sottile humour e felice leggerezza anche temi angosciosi e ossessionanti come la follia, la predestinazione, l'incomunicabilità, l'alienazione.



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Bartleby lo scrivano 2020-04-20 08:43:30 Valerio91
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    20 Aprile, 2020
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Bartleby lo straniero

Seppur ambientato nella Wall Street astro nascente della finanza mondiale, il racconto pare un ibrido di atmosfere Dickensiane e kafkiane, che contribuiscono enormemente al senso di straniamento di cui queste pagine sono pregne.
Nell'edizione Feltrinelli che ho acquistato, un buon terzo delle pagine è occupato dalle interpretazioni che i critici, nel corso degli anni, hanno dato di questo racconto. La sua peculiarità, infatti, sta nell'inafferrabilità di ciò che ci viene raccontato e soprattutto in quella del suo protagonista, Bartleby, il cui assurdo comporta­mento è il motore che spinge il lettore ad andare avanti d'un fiato, ma che ha anche infuocato gli animi degli intellettuali che a quel "avrei preferenza di no" hanno provato a dare tutte le spiegazioni possibili.
Il lettore spera che il dipanarsi degli eventi possa fornirgli una spiegazione, magari celata nel background di Bartleby, ma proprio alla fine del racconto gli verrà esplicitamente detto che lo stesso narratore non ne sa nulla, e forse neanche lo stesso Melville si è mai sognato d'immaginarne qualcosa. L'unica informazione che ci è data sapere riguarda un precedente impiego di Bartleby in un ufficio di lettere smarrite, probabilmente indirizzate a persone decedute che non hanno avuto modo di riceverle; contenenti magari un anello, o una banconota inviata con la più sollecita carità. “Inviate per le occorrenze della vita, queste lettere vengono alla morte”, ci dice Melville: un mestiere dunque distruttivo per uomini propensi "al pallido pensiero dell'irreparabile", alla cui schiera il narratore finisce per collocare l'insondabile Bartleby. A nessuna conclusione certa, tuttavia, si è potuto giungere sulla sua natura.
Qualcosa di quest’opera mi ha fatto venire in mente (e a quanto pare anche a qualche critico) Camus e il suo Straniero: un uomo totalmente indifferente al mondo e a quel che nell'immaginario collettivo è considerato importante. In Bartleby ho notato la stessa passività e inerzia, che tuttavia non è segnata da un’incapacità di invertirne la tendenza come per Meursault, bensì un netto seppur pacato rifiuto, espresso nella ripetizione ossessiva della frase "avrei preferenza di no", applicata praticamente al 99% delle questioni umane all'inizio, al 100% alla fine. Vita compresa. Ma a cosa è dovuto questo rifiuto? Il lettore ci si arrovella, ma per lui come per tutti è impossibile arrivare a una conclusione certa.

“Il vincolo della comune umanità mi trascinava ora irresistibilmente verso una cupa tristezza. Una malinconia fraterna! Giacché sia io che Bartleby eravamo figli d’Adamo. Mi sovvenni delle sete lucide e dei volti smaglianti ch’avevo visto quel dì, in abiti festivi, naviganti come cigni in quel Mississippi che è Broadway; e li confrontai col pallido copista, e dissi a me stesso: Ah, la felicità corteggia la luce, perciò noi crediamo allegro il mondo; ma la miseria si nasconde da lungi, perciò crediamo non esista miseria.”

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Bartleby lo scrivano 2020-02-09 17:35:04 lapis
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lapis Opinione inserita da lapis    09 Febbraio, 2020
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“O Bartleby! O umanità!”

Difficile da gestire emotivamente. Impossibile da afferrare. Siamo al cospetto di una di quelle storie che si possono leggere una volta, un’altra e un’altra ancora e non smettono mai di porci nuovi interrogativi. Una manciata di pagine, dalla trama semplice e dallo stile impeccabile, eppure capaci di spiazzarci e lasciarci un profondo senso di spossatezza e inadeguatezza.

L’enigmatico fascino di questa novella sta tutto nel mistero che avvolge la figura di Bartleby. È la voce del suo datore di lavoro, un anziano e bonario avvocato di Wall Street, a parlarci di questo copista pallido, mite e taciturno. Non esce mai dall’ufficio, non profferisce mai parola. Sta sempre lì, nascosto dietro a un paravento verde, a scrivere e scrivere, instancabile e solitario. Un impiegato modello, fino a quando qualcosa si incrina e alle richieste più banali comincia a offrire sempre la stessa risposta. Effettuare una commissione? Controllare un testo? Spiegare le ragioni del proprio comportamento? “Preferirei di no”.

Non è un rifiuto sprezzante o impertinente. Non c’è traccia di aggressività nel garbato e imperturbabile Bartleby, solo desolazione e miseria. Il paziente avvocato inizialmente lo asseconda, compassionevole e comprensivo. In fondo, non fa male a nessuno, non disturba nessuno. Fino a quando la difficoltà di interagire con la realtà non diventa un vero e proprio rifiuto di vivere. Bartleby alzerà definitivamente gli occhi dai fogli, restando immobile a fissare un muro di mattoni. Impossibile continuare ad assecondarlo, impossibile offrire un vero aiuto, in assenza di comunicazione. “Preferirei di no”.

Il conflitto sembra allora insanabile e risolvibile solo con l’allontanamento, ma in nessun modo il narratore riuscirà a liberarsi da questo enigma inesplicabile. Lo stesso interrogativo che finirà per ossessionare il lettore, ben oltre l’ultima pagina. Bartleby è rimasto soggiogato dal male di vivere o ha volontariamente preferito scegliere un’altra vita, fuori dagli schemi della ragione, difendendola con un ostinato e disarmante silenzio?

Bello leggere e continuare a rincorrere il mistero, pur sapendo che una risposta alle nostre domande non arriverà mai.

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Bartleby lo scrivano 2019-06-17 14:47:19 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    17 Giugno, 2019
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"I would prefer not to"

Terzogenito di Allan e Maria Gansevoort Melville, Herman nacque alle 23.30 del primo agosto del 1819 al numero 6 di Pearl Street in quel di New York. Sin da subito si dimostrò un ottimo oratore e un discreto studente seppur di poi costretto, insieme al fratello, ad interrompere prematuramente gli studi a causa della morte del padre e ad antecedenti problemi finanziari.
Tra i tanti scritti a sua firma Bartleby è definito il racconto perfetto grazie allo stile e alla dovizia con cui è redatto. Melville non ha mai gradito tale lode basata su una perfezione meramente formale, in quanto portavoce dell’idea che la letteratura più che alla forma deve ergersi a portatrice di verità (non autobiografica quanto del dogma «the great Art of Telling the Truth»), una verità che «se raccontata senza compromessi… avrà sempre contorni imperfetti».
Da questi brevi assunti comincia l’avventura con “Bartleby lo scrivano” e le prime domande che sovvengono alla mente sono: ma qual è questa assoluta verità che egli vuol trasmetterci? Qual è il suo messaggio, la sua morale? Cosa fa della sua figura un personaggio così indimenticabile? Perché il suo è un diniego continuo? Sin dove lo condurrà questo leit-motiv del “Preferirei di no”? Qual è quella peculiarità che lo rende un libro fondamentalmente triste seppur così veritiero? Tante possono essere le interpretazioni di quelle che poi saranno le conseguenze inevitabili di questo suo negarsi, tuttavia, forse, la verità di Melville non risiede tanto nella credibilità o meno di questo personaggio che ci viene descritto e narrato dall’avvocato a cui è alle dipendenze, quanto da quella imprescindibile constatazione della sua verità a differenza di quella mancante altrui. Le vicende si snodano infatti su un palcoscenico composto da molteplici personalità: il legale, che ricopre un ruolo secondario seppur voce narrante, Tacchino, un inglese basso e corpulento sulla sessantina dal comportamento postprandiale e dalle mutevoli espressioni facciali, Pince-nez, un giovane di circa venticinque anni, col viso smorto ornato da un paio di favoriti, di aspetto alquanto pittoresco e vittima dell’ambizione e della cattiva digestione («Pince-nez non sapeva ciò che voleva. O, se voleva qualcosa, era di liberarsi una volta per tutte del tavolo di scrivano»), e infine, Zenzero, un dodicenne che più che studiar legge altro non è che il “fattorino scopatore”. In tutto questo Bartleby, un uomo sbiadito nella sua decenza, miserabile nella sua rispettabilità, disperato nella sua solitudine, si erge con il suo mistero e afferma con costanza e dovizia il suo “I would prefer not to” perché a differenza di tutti gli altri che non esitano a dir di sì mentendo, lui dichiara la verità assoluta, non teme di urlare al mondo il suo dissenso («Perché tutti quelli che dicono sì, mentiscono; e tutti quelli che dicono no – beh essi sono nella felice condizione dei giudiziosi viaggiatori in Europa che non si portano dietro impicci; attraversano le frontiere dell’Eternità senza nient’altro che una semplice borsa – vale a dire l’Io. Mentre questi signori del sì, questi viaggiano con mucchi di bagagli e, un accidenti se li pigli, non riusciranno mai a passare la dogana»).
A questo primo racconto si aggiungono “Il paradiso degli scapoli” e “Il tartaro e la fanciulla”. Entrambe i testi, benché meno conosciuti in Italia, sono molto vicini al Bartleby, in particolare per la profonda ironia e per l’atteggiamento critico riservato al sistema capitalistico e all’alienazione che il medesimo produce. Nello specifico ne “Il paradiso degli scapoli” l’io narrante è spettatore privilegiato nel Paradiso di uomini soli, un luogo ove la correlazione è data dalle figure degli avvocati americani (vedi il legale del Bartleby con grande riferimento alla persona di John Jacob Astor) rispetto a quelli oltreoceano. Il linguaggio è leggero e fluido ma anche curato ed erudito. All’interno del “Tartaro delle fanciulle” assistiamo alla correlazione tra processo produttivo e riproduttivo per mezzo della figura di Cupido, personaggio coinvolto nel commercio delle sementi che, una volta concluse le transazioni d’affari, visita la fabbrica le cui acque sono azionate dal Fiume di Sangue. Qui l’osservazione perspicace dello scrittore si sposta sulle condizioni malsane di lavoro delle operaie. Queste ultime appaiono invecchiate prima del tempo già dopo pochissime settimane di impiego e sono quindi destinate a morte precoce e all’impossibilità di, seppur coniugate, riprodursi. Il tutto attraverso uno stile narrativo diametralmente opposto e dunque denso, corposo, cupo.
Tre racconti di grande intensità e riflessione sono “Bartleby lo scrivano”, ““Il paradiso degli scapoli” e “Il tartaro e la fanciulla”, tre opere caratterizzate da una penna ricca e articolata ma anche da contenuti forti e atti a suscitare considerazioni e riflessioni ancora oggi ampiamente attuali che muovono le loro basi da problematiche quali il capitalismo, il lavoro, la condizione femminile. Una piacevolissima scoperta.

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Bartleby lo scrivano 2016-02-08 18:18:09 siti
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siti Opinione inserita da siti    08 Febbraio, 2016
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FILANTROPIA

Tra Broadway e Wall Street passano luci ed ombre, felicità e inganno, apparenza e realtà.

“Ah la felicità corteggia la luce, perciò noi crediamo allegro il mondo, ma la miseria si nasconde da lungi, perciò crediamo non esista miseria.”

E se essa bussasse alla nostra porta e si installasse nel nostro ufficio e prendesse le sembianze di un eccentrico e riservato copista che alle richieste di chi lo accoglie, prima come semplice impiegato poi come possibilità di esercizio filantropico, oppone una lapidaria resistenza espressa con un laconico “Avrei preferenza di no”? Ebbene in quel caso cosa fareste?

Il vero protagonista del racconto di Melville, datato 1853, anziano avvocato, narra la sua reazione e con essa snocciola le infinite possibilità della filantropia.

Come è noto, con il termine ci si riferisce all’atteggiamento di amore, di passione e di inclinazione verso l’uomo. La parola nata nell’antica Grecia originariamente indicava “cortesia”, “affabilità”, in età ellenistica indicò invece l’atteggiamento benevolo da parte dei sovrani nei confronti dei sudditi. Divenne, in epoca romana, con il Circolo degli Scipioni, il corrispondente della cultura filosofica e letteraria e solo con Cicerone assunse il significato di “grande sensibilità, generosità, raffinatezza”.
Proprio un busto di Cicerone campeggia nell’ufficio del nostro avvocato, fa capolino tra un dialogo e l’altro come a rammentare l’accezione semantica del termine in questione e l’atteggiamento messo in atto dall’avvocato di Wall Street. Egli infatti ci racconta le diverse sfumature del suo animo mentre cerca di affrontare una situazione inusuale che diventa -in un crescendo inatteso- stravagante, eccentrica, scomoda, imbarazzante e financo inquietante.
Il copista esordisce con il suo modico rifiuto per attività poco complesse ma che esulano dalla sua mansione, prosegue con la cessazione dell’ attività per la quale è stato assunto, culmina nell’ostinata resistenza che trasforma l’ufficio nella sua residenza. Il “capo” ha nei suoi riguardi, man mano che si manifestano le diverse resistenze, un interesse discontinuo reso tale dall’incalzare dei suoi impegni. La situazione giunge pertanto ad un grado di saturazione che necessita un’azione ferma e risolutiva.
E qui entra in gioco la filantropia.

Leggeremo da quel momento come si esercita nell’animo umano la difficile arte della compassione: secondo Melville lo schema è rigido e ormai consolidato nel tempo: tutti noi di fronte ad una situazione di miseria reagiamo istintivamente con moti e impressioni positivi dell’animo i quali destano in noi compassione appunto, ma quando ci accorgiamo che essa è inutile e non risolutiva optiamo per il suo abbandono, per il suo superamento portando avanti soluzioni di vero e proprio sbarazzamento. Prevale sempre il “buon senso” e con esso la finta filantropia: ciò può insuperbire l’essere umano mentre cerca di placare l’inquietudine nata dal sapere che in fondo non stiamo facendo del bene.
Questa è la mia personale lettura di un breve racconto che è stato variamente interpretato. Letto nell’ottima edizione Feltrinelli, offre il piacere di poter godere dell’esito del lavoro accademico del professor Celati con i suoi studenti nell’anno accademico 1984-’85 ( traduzione del testo) proseguito nell’a.a. 1986-’87 (studio introduttivo). Permette inoltre di leggere l’epistolario di Melville datato 1850-1852 “Da Moby Dick o Bartleby” e di appurare in ultimo la quantità di interpretazioni date al racconto in una sintesi bibliografica degli studi critici intrapresi tra il 1928 e il 1990. Tra l’altro la vena ironica che commenta le singole voci bibliografiche è imperdibile e getta luce sull’inutilità di certa critica, compresa la mia, se posso chiamarla così.

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Bartleby lo scrivano 2015-06-23 10:23:12 Anna_Reads
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    23 Giugno, 2015
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Una storia d'altri tempi, di prima della fotocopia

Bartleby lo Scrivano – Herman Melville, 1953

SPOILER

"Per il momento preferirei non essere un po' ragionevole."

Bartleby lo Scrivano, racconto di Herman Melville, letto subito dopo "Moby Dick".
La genialità di Melville, oltre al resto, sta nella sua capacità di descrivere "tipi". Che sia in ritratti lunghi ed articolati, che in quadretti appena sbozzati poco importa.
L'ho visto in Moby Dick e l'ho ritrovato qui, dove l'estro creativo di Melville si cimenta con una storia apparentemente piccola, ambientata prima dell'avvento della fotocopiatrice.
Pare un'osservazione oziosa – e probabilmente lo è - però l'attività di "copiare" in genere si attribuisce ai monaci negli scriptoria medievali, invece, fino a tempi relativamente recenti una fetta di umanità mediamente colta e numericamente non trascurabile si è guadagnata da vivere "copiando" documenti. Tonnellate di carta, fiumi di inchiostro, chilometri di parole, migliaia di mani, penne e pennini.
Certi romanzi non si comprendono se non si realizza che gli autori non abbiamo mai viaggiato in treno. Bartleby lo Scrivano non ci appartiene se non si fa i conti con un'umanità che copia (che responsabilità – che noia).
Dicevo.
Un avvocato, il suo studio, i suoi due impiegati (Pince-Nez e Tacchino), descritti in modo ironico (l'uno affidabile e preciso solo la mattina, l'altro solo il pomeriggio), un giovanissimo fattorino (Zenzero). Ed infine l'arrivo di un terzo impiegato, pallido, sciapo e scialbo in modo singolare, Bartleby.
"Rivedo ancora quella figura: pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida! Era Bartleby."( I can see that figure now — pallidly neat, pitiably respectable, incurably forlorn! It was Bartleby).
Bartleby si presenta come un impiegato modello: il primo ad arrivare e l'ultimo ad andare via (apparentemente), ligio al dovere, praticamente alieno ad ogni sorta di distrazione: copia gli atti legali. Sembra non fare altro. Sembra non volere fare altro. Sembra non amare fare altro.
Forse non sa fare altro?
Bartleby è "un'eterna sentinella nel suo angolo".
Le cose scorrono lisce e piacevoli, fino a che l'avvocato (e voce narrante) non chiede a Bartleby di fare una cosa solo leggermente diversa. Controllare che gli atti copiati da un altro impiegato siano corretti. Una banale revisione, insomma. Quanto di più routinario e banale possa avvenire in un ufficio. Sembra quasi di vedere l'avvocato che porge il plico all'impiegato, senza neppure alzare la testa per guardarlo.
"Era con me, credo, da tre giorni (…) quando, dovendo completare in gran premura una faccenduola, di punto in bianco chiamai Bartleby. Nella fretta e nella naturale aspettativa di un'immediata obbedienza, me ne stavo seduto con la testa china sull'originale posato sulla mia scrivania, la mano destra di lato, nervosamente tesa nel porgere la copia, in modo che, emergendo dal suo cantuccio, Bartleby potesse afferrarla e procedere all'esame senza il minimo indugio.
In questo atteggiamento sedevo dunque quando lo chiamai, spiegando rapidamente quello che volevo da lui, cioè esaminare insieme a me un breve documento.
Figuratevi la mia sorpresa, anzi la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo angolino, con voce singolarmente soave, ma ferma, Bartleby rispose:
"Preferirei di no." "

“I would prefer not to.”

L'avvocato strabilia. E cerca nel volto del suo impiegato tracce di sfida, di rabbia, di impertinenza.
Ma non le trova.
Bartleby "preferisce di no" e ricomincia il lavoro che stava facendo.
Lo stupore è tutto del suo datore di lavoro. Che a lungo si interroga sul da farsi.
E interroga Bartleby.
E interroga gli altri impiegati.
Infine interroga pure il fattorino.
"Penso, signore, che sia un po' sfasato." È quello che riesce ad ottenere.
Osservando il fattorino, però, l'avvocato vede che è quest'ultimo a provvedere ai pasti di Bartleby.
Ogni giorno gli porta alcune focaccine di zenzero. L'impiegato non sembra mangiare altro. Non sembra uscire mai dall'ufficio, non sembra fare nulla, se non lavorare.
L'avvocato ha la tentazione di licenziarlo, ma si fa molti scrupoli.
E una brava persona e Bartleby, a parte le sue idiosincrasie, è un buon impiegato. Affidabile ed instancabile se non gli si chiede di fare cose diverse dal copiare. Decide quindi di mantenerlo alle sue dipendenze e di continuare ad osservarlo e a cercare di capirlo.
"Era, infatti, oltremodo difficile tenere sempre a mente quelle strane abitudini, quei privilegi, quegli inauditi esoneri, che costituivano il tacito patto in base al quale Bartleby rimaneva nel mio ufficio. Di tanto in tanto, nella fretta di sbrigare un affare urgente, senza pensarci chiamavo Bartleby in tono secco e spiccio a mettere un dito su un pezzo di nastro rosso che ero in procinto di annodare per tenere insieme certi documenti. Superfluo dire, naturalmente, che da dietro il paravento veniva la consueta risposta: Preferirei di no."
La situazione si complica quando, per puro caso, l'avvocato si accorge che Bartleby non è "il primo ad arrivare e l'ultimo ad andare via", ma che, di fatto, VIVE nell'ufficio.
Dapprima commosso dalla completa solitudine ed infelicità dell'uomo, poi ulteriormente perplesso dalla sua stranezza (Bartleby non parla, se non gli si rivolge la parola, non legge, se non le pratiche legali che deve copiare, non mangia se non le focaccine di zenzero etc), l'avvocato non sa che fare.
Ha pietà di Bartleby, ma in qualche modo sa di non comprenderlo e desidera allontanarlo da sé.
Per un essere sensibile la pietà non di rado è sofferenza. E quando alla fine si intuisce che tale pietà non si traduce in un efficace soccorso, il senso comune impone all'animo di sbarazzarsene.
Quanto vidi quella mattina mi convinse che lo scrivano era vittima di un disordine innato ed incurabile. Avrei forse potuto soccorrere il corpo, ma non era il corpo a dolergli; era la sua anima che soffriva, e non potevo raggiungere la sua anima.

Infine, l'avvocato decide di licenziare Bartleby.
Lo fa da brava persona quale è, con un preavviso e una certa "liquidazione".
Ovviamente Bartleby "preferisce di no" ("preferirei non lasciarla", dice, in realtà) e il giorno successivo al suo programmato "sgombero" è come sempre in ufficio. Altri tentativi vanno completamente vuoto.
Preso quasi dal panico, l'avvocato decide di traslocare in un altro ufficio.
Sinceramente addolorato, al momento di lasciare l'ufficio e il suo ex impiegato.
"Addio Bartleby, me ne vado… Addio e dio la protegga in qualche modo. Prenda.", facendogli scivolare qualcosa in mano. Ma fin a terra e allora – strano a dirsi – dovetti fare uno sforzo e strapparmi da lui, e sì che avevo tanto desiderato sbarazzarmene.
La cosa funziona, e finalmente il principale si libera del suo bizzarro ex-dipendente.
Ma non dalla sua ossessione.
Viene a sapere che l'ex-impiegato continua a vivere nel palazzo, e il proprietario si rivolge a lui in un estremo tentativo di far ragionare lo scrivano.
L'avvocato corre al suo ex ufficio e trova subito l'ex dipendente
"Cosa fa qui, Bartleby?"
"Sto seduto sulla ringhiera."

L'avvocato cerca di aiutarlo, si offre persino di ospitarlo a casa proprio, ma Bartleby risponde:
"No, preferirei non fare cambiamenti."
"No, per il momento preferirei non cambiare nulla."

Non tutti si fanno gli scrupoli dell'avvocato e l'epilogo è che il nostro scrivano finisca in prigione per vagabondaggio. Informato della cosa, l'avvocato si precipita a trovarlo e corrompe un secondino affinché il suo ex impiegato abbia un trattamento di riguardo e vitto adeguato.
Ma Bartleby preferisce "non pranzare".
L'uomo che non parla, l'uomo che vive senza mangiare, così lo definiscono i secondini.
Quando l'avvocato lo va nuovamente a trovare lo trova silenziosamente e dolcemente morto nel cortile, del carcere.
«Il faccione rotondo del vivandiere sbucò dietro di me.
"Il suo pranzo è pronto. Neanche oggi vuole mangiare, eh? E che? Vive senza mangiare?"
"Vive senza mangiare." dissi e gli chiusi gli occhi.
"Ehi! Dorme, eh?"
"Con i re e i consiglieri." mormorai.»

Neppure la morte mette a tacere l'ossessione dell'avvocato per il suo scrivano, ma le sue ricerche hanno scarno esito. Tutto quello che riesce a sapere, ma senza certezze, è quale fosse l'impiego precedente di Bartleby.
Bartleby era stato un impiegato subalterno nell'ufficio delle lettere smarrite a Washington.
E come già osservò Alessandro Baricco, nel 1993, a Pickwick, questo non dice molto, ma fa capire tanto.
In realtà si potrebbe osservare che probabilmente Bartleby è uno dei primi casi descritti di Sindrome di Asperger, di cui ha tutti i tratti, ma aggiungerebbe assai poco alla narrazione e niente alla riflessione che invita a fare Melville, nel finale.
(…) a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi pervadono. Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti? Pensate a un uomo, per natura e sventura, incline a una languida disperazione: esiste un lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare continuamente queste lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Ogni anno ne vengono bruciate a carrettate. Qualche volta dal foglio piegato il pallido impiegato estrae un anello – il dito al quale era destinato, forse, imputridisce nella tomba; una banconota inviata in un moto di pronta carità… e colui che ne avrebbe tratto sollievo non mangia più e non soffre più la fame; parole di perdono per coloro che morirono nello sconforto; di speranza per coloro che morirono disperati;buone nuove per coloro che morirono soffocati da sventure inconsolabili. Apportatrici di vita, queste lettere rovinano verso la morte.
O Bartleby! O umanità!

PS. Opera di prima della fotocopiatrice, si diceva, "Bartleby lo Scrivano". In omaggio agli Scrivani, americani, fiorentini e dell'universo mondo, tutte le citazioni di oggi da Melville non son copiincollate, as usual, ma copiate a mano (a tastiera, a dire il vero).
Esercizio salutare, di tanto in tanto (NdAnna).

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Bartleby lo scrivano 2014-10-10 20:08:45 pierpaolo valfrè
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pierpaolo valfrè Opinione inserita da pierpaolo valfrè    10 Ottobre, 2014
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C'è chi dice no

Herman Melville pubblicò il racconto “ Bartleby lo scrivano, una storia di Wall Street” nel 1853, nel periodo più nero della propria parabola di scrittore. Moby Dick, uscito due anni prima, fu stroncato dalla critica, che lo definì incomprensibile, assurdo e pieno di “metafisica tedesca”. Ancora peggio andò con il romanzo “Pierre o delle ambiguità”.
E’ vero che Melville, quasi presagendo il suo insuccesso, durante la stesura di Moby Dick aveva teorizzato che “chi non ha mai fallito in qualche campo, quell’uomo non può essere grande. Il fallimento è la vera prova di grandezza”. Questa profezia non gli portò fortuna: di lì a pochi anni, Melville abbandonò completamente la narrativa, si arrabattò come poté per mantenere la famiglia e sfogò la sua vena artistica e contemplativa nella poesia, nei viaggi e nell’arte.
La trama di Bartleby lo scrivano è presto detta. In uno studio legale di Wall Street viene assunto un nuovo copista, di nome Bartleby. A differenza degli altri dipendenti dello studio, la cui produttività è piuttosto carente (per motivi diversi riescono ad essere lucidi ed efficienti soltanto mezza giornata) Bartleby si afferma subito come esempio di diligenza, decoro e discrezione. Tutt’altro che un indolente o un incapace, o un impostore. Ma entro pochi giorni succede un fatto inspiegabile, il primo di una serie di episodi che passo dopo passo fanno sprofondare la vicenda in un’enigmatica tragedia. E su quell’enigma per oltre un secolo si sono esercitate intere schiere di critici, di eruditi e di accademici a caccia di punteggi.
Succede che Bartleby, a sorpresa e inspiegabilmente, oppone una lunga serie di rifiuti tanto cortesi, quanto fermi, immotivati e irragionevoli a richieste che invece appaiono del tutto ragionevoli e sacrosante, e alla fine persino generose e caritatevoli. Bartleby, educatamente e cortesemente, non arretra, non cede e non accetta compromessi fino ad arrivare all’autodistruzione finale. In tanti hanno provato, ma nessuno è mai stato in grado di spiegare in modo risolutivo e definitivo la sua condotta. Melville ha giocato con il chiaroscuro, quasi volesse beffarsi dei critici che tante delusioni gli avevano procurato.
La scrittrice e filosofa Edith de la Héronnière, nel suo saggio “Ma il mare dice no”, colloca il grigio e insignificante Bartleby tra i personaggi letterari che le sono più cari, accanto ad Antigone, Cyrano, Oblomov, Cosimo di Rondò (il barone rampante) e altri, tutti accomunati da una rara capacità di dire di no.
L’esperienza quotidiana insegna che dire di no è infinitamente meno comodo, più rischioso e meno vantaggioso che dire di sì. Significa spesso opporsi a una lusinga, una promessa, un invito, un ordine, una minaccia, un’appartenenza. Significa escludersi, chiudere una porta, precludersi opportunità. Ancor più, con l’odierna demagogica manipolazione del “pensiero positivo”, chi dice no è automaticamente incluso nella categoria dei conservatori, dei menagramo, del vecchiume da rottamare, dei “gufi” (semplificazioni necessarie per chi ritiene di avere un grande progetto in testa e lo vuole realizzare; c’è solo da augurarsi che sia il progetto giusto).
Proviamo a ricordare le nostre esperienze personali. Ogni volta che abbiamo ricevuto un rifiuto, la nostra prima reazione è stata di trovarlo, in un modo o nell’altro e secondo le giuste proporzioni della specifica situazione, irragionevole (perché non ha accolto le NOSTRE ragioni) o irritante (perché ci ha dato una piccola, o grande, o grandissima delusione) oppure sconfortante (perché ha indebolito la nostra sicurezza sulla nostre capacità di persuasione o sulla nostra capacità tout court). Il no, anche se espresso nel modo più garbato, ci dispiace, è fastidioso e ci disturba. Qualche volta ci spaventa e ci impaurisce (e quando c’è paura, molto spesso c’è anche violenza, o prepotenza, o denigrazione).
Sentite la de la Héronnière: “No è una parola brutale. Non ha la rotondità del sì. Il suo colore, se mai dovessimo dargliene uno, sarebbe il nero, oppure il bianco della morte. Possiede connotazioni, per così dire, negative, ostili e redibitorie. Le immagini alle quali di solito si accompagna non hanno niente di simpatico: un muro, una porta sbattuta sul naso di chi resta fuori, un volto che si nega a chi lo guarda, una mano che afferra il braccio del bambino impedendogli di correre, di fare rumore, di ridere. Il no è la barriera, il rosso cartello segnaletico sbarrato di bianco esposto sulle strade, sulle porte, nei cuori. E’ una parola che ci riporta all’infanzia, ai suoi divieti, al lato oscuro dell’apprendimento che poi la vita si incarica di cancellare. Errore, impasse, senso vietato: parola di melassa e di catrame da cui la luce sembra ritrarsi. A chi di noi piace sentirsela dire?”
Chi dice no ci appare, sempre con la dovuta proporzione alla posta in gioco, una persona poco ragionevole, fondamentalmente ottusa, rigida, o almeno un tantino fredda, scostante, antipatica, poco interessata a noi.
Potremmo forse azzardare che il no pronunciato da una posizione di forza (ad esempio un superiore di grado) può far leva sulle emozioni negative che suscita in chi lo riceve ed essere persino usato come sadica dimostrazione di potere.
Il no pronunciato da posizioni di debolezza (ad esempio un sottoposto, come era Bartleby) corre invece il rischio di restare prigioniero dell’aura eroica che lo circonda e di arenarsi in un’intransigenza tanto sterile quanto masochistica o suicida.
In effetti, tra le numerosissime interpretazioni che furono date al racconto di Melville, ce ne furono alcune che lo leggevano come ribellione contro il pragmatismo utilitaristico e contro l’affannoso attivismo in voga a Wall Street. Altre al contrario vi individuavano il monito contro l’insostenibilità e lo sbocco suicida a cui avrebbero portato le tesi di Thoreau sulla resistenza passiva. (Henry Thoreau, autore di Walden- una vita tra i boschi, proprio in quegli anni aveva pubblicato il suo saggio “Disobbedienza Civile”).
E’ comunque indiscutibile che Bartleby lo scrivano, con la sua trama scarna e i suoi scialbi personaggi (ad iniziare dal protagonista, che paradossalmente rimane più in ombra degli altri) è una magnifica dimostrazione di come quelle due semplici lettere, unite a formare un’apparentemente innocua paroletta, siano in grado di scatenare una ridda di conseguenze imprevedibili ed incontrollabili.
Soprattutto perché cortese, ma ferma e irragionevole, quella frase “I would prefer not to” (che Gianni Celati traduce con: “avrei preferenza di no”) ci pone davanti all’abisso. E adesso? Ci chiediamo ancora increduli. Come giustamente osserva la de la Héronnière: “Il no di Bartleby pone chi lo circonda di fronte a se stesso. Con la sua inazione rivela l’inanità , ossia la stupidità di ogni azione. Con il suo silenzio dimostra l’inutilità di ogni parola. Con il suo rifiuto di lavorare getta una luce assurda sulla laboriosa agitazione dei suoi simili. La cosa più interessante, nel suo caso, sono le reazioni che suscita e che, a ben guardare, coprono l’intero arco dei sentimenti umani: dall’esasperazione alla voglia di uccidere, dal senso di colpa alla tenerezza, dal rimorso alla più profonda compassione. Come tutti i portatori di assoluto, questo piccolo uomo è uno specchio che ci rimanda sia alla nostra estrema umanità, sia alla nostra animalità”.
Nonostante verso la fine del racconto si trovi un indizio, l’unica nota biografica sul passato di Bartleby, che potrebbe orientare una possibile spiegazione, si è propensi a pensare che si tratti di una falsa pista, o di una spiegazione molto parziale. Cito sempre da Il mare dice no: “Qualcosa ci dice che per decifrarne il significato non dobbiamo abbordarla dal lato sociale o psicologico. Con Bartleby si entra nel campo della metafisica e può anche darsi che non esista una vera e propria spiegazione umana per l’atteggiamento di questo eroe. Intuiamo che il suo silenzio è gravido di una protesta rivolta non contro gli uomini o gli dèi ma contro la vita stessa. Se ci sconvolge è proprio perché ci conduce verso uno spazio dove gli argomenti affettivi, psicologici, sociali e religiosi non hanno più corso, ossia verso una sorta di aldilà”.
La capacità di Bartleby di incuriosirci, di commuoverci, di farci pensare e di interessarci nonostante il suo mesto grigiore, e di chiederci alla fine: “dove sta il trucco?” richiama un altro caso di “perdente di successo” della letteratura americana: il più recente e meno problematico Stoner. Anche la vicenda umana di quest’ultimo, guarda caso, è molto segnata da un “no” pesante da lui pronunciato, pur se privo di qualsiasi alone di mistero, ma questa è un’altra storia…
Chiudo segnalando che l’edizione del racconto curata e tradotta da Gianni Celati contiene anche un saggio dello stesso Celati, un elenco ragionato delle varie interpretazioni nel corso del tempo e una selezione delle lettere scritte da Melville nel periodo intercorrente tra la pubblicazione di Moby Dick e la pubblicazione di Bartleby lo scrivano. Tra di esse, anche quelle all’amico Nathaniel Hawthorne, a cui Moby Dick è dedicato.

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Bartleby lo scrivano 2013-01-27 16:24:03 DieLuft
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DieLuft Opinione inserita da DieLuft    27 Gennaio, 2013
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I would prefer not to

Un outsider americano sconcertante. Un racconto breve che si legge velocemente ma non è così semplice come appare. E' una lettura da farsi tutta metaforicamente.
Il titolo del libro "inganna": il protagonista non è lo scrivano Bartleby ma bensì colui che lo ha assunto: un imprecisato avvocato newyorkese.
L'ossessione di cercare di capire questo strano individuo, porta Bartleby a diventarne l'involontario protagonista. Probabilmente lui avrebbe preferito di no.
L'avvocato può essere definito la metafora della società di massa. Egli trascorre il tempo a cercare di capire tramite dati meramente esteriori, perché il suo scrivano ad ogni richiesta risponde con un "preferirei di no". Notare che che il difensore della legge vuole capirlo, non comprenderlo.
L'avvocato può essere interpretato come la persona media: un individuo che sente tranquillo con la coscienza dopo aver dato un aiuto umanitario ad uno sfortunato, che seguendo la norma si sente apposto con se stesso e quindi non sente il bisogno di riflettere interiormente. Non cerca nemmeno di conoscere sé in modo migliore, forse perché non ne sente il bisogno, forse perché crede di conoscersi già. Significativo il fatto che ha la presunzione di conoscere il mondo di coloro che copiano e basta (gli scrivani).
Bartleby è colui che pur avendo un lavoro di mera copiatura, decide di opporsi operando una scelta, preferendo di no. Diventa quindi una specie di anomalia sociale che porta pian piano al disinteressamento del suo datore di lavoro e provoca la rabbia di alcuni inquilini che lo fanno imprigionare. Metaforicamente: l'individuo che non la pensa come la maggioranza deve essere esiliato dalla società dove non può nuocere.

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Bartleby lo scrivano 2012-10-26 19:25:44 mauriziocasamassima
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mauriziocasamassima Opinione inserita da mauriziocasamassima    26 Ottobre, 2012
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Parabola della solitudine

E' solo una storia di solitudine, come diceva Borges di questo grande romanzo. Ma attraverso la solitudine e il dolore si esprime il mistero della vita...
Una parabola sul lavoro, sulla follia, sulla incomunicabilità che resta uno dei capolavori dell'800. Il rimorso del narratore protagonista si procura l'alibi delle lettere smarrite, quando ad essere smarrita è la coscienza di non aver saputo fino in fondo comprendere l'altro...di non aver vissuto fino in fondo il comandamento della carità, quell'impulso a tratti emerso nell'anima di lui, ma poi subito sopito, perché, tuttavia, ha preferito rimanere nel suo torpore. Ma noi no. Ora a tale torpore ciascuno di noi dovrebbe saper dire "I would prefer not to"...

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