Tempesta
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Quel mare di Auschwitz
Il mare è un cielo capovolto, tanto è vero che la sua forza di gravità, chiamata pressione, è verso l’alto, ti riporta a livello zero, sarebbe quello della terra che però resta sempre al livello del mare.
Il mare ha un profondo e un fondo, che come la superficie terrestre è fatto di montagne, pianure e depressioni. I suoi venti sono le correnti.
Molti dicono che le acque, nel caso del mare, ricoprano genericamente un suolo; parlano di terre emerse, riconoscono cinque continenti separati da spazi fluidi, multiformi etnie e diverse religioni. È come se dessero ragione al racconto biblico della Torre di Babele. Da un subcontinente unico, l’uomo ha voluto superare la superficie, toccare e oltrepassare questo cielo liquefatto, emergere e lasciare le sue impronte dove non potessero essere più cancellate, così l'uomo ha fatto: ha iniziato strisciando prima di camminare e parlare la sua lingua.
Io invece vedo due realtà separate e penso si tratti di un’altra dimensione, l’altra dimensione in forma fluida, immensa e sconosciuta perché nascosta. Fondo e profondo come inconscio e preconscio, come Es e Io, poi i relitti e i tesori perduti e adesso anche come discarica delle terre emerse. Una dimensione che è raggiungibile, al di là della metafora, solo attraverso l’immersione, il sogno appunto. Il giorno e la notte non sono frammenti temporali del mare e più vai nel profondo e meno luce filtra dall’alto e i tuoi occhi aperti servono solo per guardare gli anfratti nella profondità delle tue ambiguità.
La tempesta è un eccesso del mare, fa parte del carattere di questo ex-dio iconoclasta perché liquido, che ha perso i suoi attributi mitici da quando l’uomo ha capito che per dominarlo bisognava guardarlo con presunzione dall’alto in basso, coordinate queste che il mare non possiede e che nel suo contesto, come aggettivo, vogliono dire “lontano”, “profondo” e in gergo “secca”.
L’uomo, ci dicono i biologi evoluzionisti, che nella sua forma cellulare, provenga dal mare; grosso pesce che poi ha assunto una forma eretta, culturalmente fallica perché dominante, e che ha imparato a respirare ossigeno presente nell’aria. Peccato che lungo questa metamorfosi anfibia e mammifera non abbia sviluppato le ali, avrebbe fatto invidia ai pinguini come uccelli, ma in compenso come i pesci sa nuotare e superandoli navigare e come essere umano sa raccontare, scrivere e conoscere il male.
C’è stato un uomo, un grande scrittore per me, che ha letto la versione in lingua originale di “Remorques” in un momento tragico del novecento e lo cita in quel resoconto spietato, patrimonio dell’umanità, non nel senso di collettività ma solo come sentimento, che è “Se questo è un uomo”. Aggrappato alla vita con i denti e la unghie in quel campo di concentramento era tanto che non leggeva, la lettura non era certo l’alternativa alla fame, al freddo, alla paura della morte, all’orrore di quella morte ma nonostante tutto ha aperto questo libro, sfogliato le sue pagine e visto e immaginato le sue parole stampate. Durante questo rapporto conflittuale tra gli uomini e Dio, che chiamiamo tragedia per giunta sotto forma di olocausto, un uomo ha avuto il coraggio di leggere di un cielo senza stelle e di un mare senza pietà, nessuna pietà nemmeno per chi lo conosce e forse lo ama, al di là di tutto, come il proprio figlio, come la propria donna o come la propria vita. Forse perché, mi sono risposto, questo mare tremendum con i suoi abissi infiniti è dentro di noi e quando ormai solo con te stesso riesci ad alzare lo sguardo e vedere, per un attimo, il tuo cielo senza nuvole, capisci che il tuo cammino, quindi il tuo destino, è guidato solo da una stella. Ma la stella di Primo non è caduta in mare ad Auschwitz in quel giorno di San Lorenzo che sembrava non avesse mai fine, è rimasta lì, luminosa nel cielo, a guardare quel mondo così celeste da lontano.