Ritornano le tigri della Malesia
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Ritornano le Tigri della Malesia
Qualche volta la somma non fa il totale. Il messicano (nato in Spagna) Taibo omaggia a un secolo dalla scomparsa Salgari, una delle passioni della sua infanzia poi mantenutasi inalterata anche nell’età adulta, scrivendo una sorta di ‘Vent’anni dopo’ dedicato al ciclo più famoso dello scrittore, italiano, quello dedicato ai pirati della Malesia. Ne esce un roamnzo di puro intrattenimento, in cui l’avventura si snoda senza soste e con un voluto disinteresse per le incongruenze storiche (con tanto di eventi reali anticipato o posticipati per farli rientrare nell’arco temporale della storia): c’è davvero di tutto e di più in queste pagine, inclusi un sottomarino e un mirabolante duello aereo, e la noia è senza dubbio bandita tra trappole evitate per un soffio e assalti all’arma bianca. D’altra parte, però, non si riesce mai ad appassionarsi davvero: le situazioni scorrono in attesa di un ‘click’ che non arriva, impedendo così al lettore di farsi coinvolgere dalle vicende che gli scorrono davanti agli occhi – come invece accade con Salgari. Il motivo è da ricercarsi nel fatto che, in queste oltre trecento pagine, c’è davvero di tutto e di più e una tale sovrabbondanza costringe l’attenzione a saltabeccare di qua e di là, finendo per disorientare. Si ha l’impressione che la dedizione del fan abbia preso la mano allo scrittore che, dopo essersi attentamente documentato, ha cercato d infilare tutte le citazioni possibili: il risultato è una narrazione molto frammentata, come testimonia anche una struttura fatta di capitoli brevi quando non brevissimi, che esagera con i colpi di scena. Nel genere, la coerenza narrativa soccombe spesso al gusto dell’azione pura e semplice, ma le troppe rivelazioni finiscono per nuocere all’equilibrio complessivo. Meno fondamentale è invece la questione della modernizzazione di personaggi e situazioni: il linguaggio è attuale e perciò ben più agile di quello di Salgari e a guadagnarne sono soprattutto i dialoghi, ma il turpiloquio posticcio risulta fastidioso, specie perché una parolaccia ogni ottanta pagine non ha granchè senso. Come superflui sono la scena nel bordello e la parte che riguarda la Comune di Parigi: va bene che il sottotitolo parla da solo (‘più antimperialiste che mai’) ma la connotazione esplicitamente politica al terzo o quarto accenno fa venir voglia di dire ‘ok, abbiamo capito’. Ciò non toglie che poter tornare a passare alcuni giorni in compagnia di Sandokan, Yanez (impagabile la sequenza di proverbi cinesi snocciolata dal portoghese) e compagnia ribelle sia assai divertente, navigando liberi in un Oceano Indiano un po’ reale e un po’ di fantasia. Si finisce per imbattersi pure in un Arcinemico che esce da una saga ben diversa, ma nel farlo l’autore finisce per contraddirsi: se ‘i miti non muoiono mai’ perché il dottor Moriarty defunge due decenni prima di cominciare a duellare con Sherlock Holmes? (Che si tratti di un parente?)