Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio
Letteratura italiana
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Un uomo solo
Se la solitudine potesse avere un volto, sarebbe quello di Liborio Bonfiglio.
Il volto di un uomo giunto al termine del lungo e tortuoso sentiero della vita, disseminato di perdite e delusioni, di incomprensioni e vuoti mai colmati.
Liborio è un'anima pura, mossa da pensieri e desideri semplici e genuini, cui la vita ha riservato poca fortuna come lui stesso ci narra in prima persona, regalandoci una cavalcata nel suo passato che coincide con le tappe più significative della storia del nostro paese dal dopoguerra alle soglie del ventunesimo secolo.
Il protagonista di queste pagine è un “vinto” dalla vita, è un bambino che ha subito l'abbandono del padre, è un ragazzo che viene sradicato dal piccolo paese di provincia per servire la propria patria durante la guerra, è un giovane uomo che varca le soglie di una realtà chiamata “fabbrica”, è un adulto quando un groviglio di concause gli apre le tetre porte di un edificio bianco chiamato manicomio.
Un plauso all'autore, Remo Rapino, per aver creato un volto a rappresentazione degli “ultimi”, di coloro che vivono alla periferia di una società sorda e cieca oltre che restia a porgere la mano in loro soccorso.
Un esempio di esclusione e mancata integrazione che brucia forte come sale sulla ferita, un lungo monologo di un vecchio rassegnato ma con fotogrammi lucidi confitti come chiodi nel cuore ferito.
Meritato Premio Campiello 2020 per l'excursus narrativo, per la cura dedicata alla costruzione del protagonista che culmina con la scelta coraggiosa di coniare un linguaggio nuovo alle orecchie del lettore, una miscellanea dialettale e gergale a tratti complessa da masticare ma che è l'arma vincente e innovativa per far esplodere tutto il realismo di questa storia.
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Vedere la storia con la testa del matto, che poi t
Liborio è un cocciamatte, anzi, un quasi cocciamatte, che quando era in manicomio anche il direttore gli ripeteva che tanto matto non era.
Nasce nel 26 in un paesino dove si vede il mare davanti e la montagna dietro. Il padre non lo conosce, sa dalla madre che è fuggito in America e lui ha gli occhi uguali ai suoi, questa cosa lo seguirà per tutta la vita.
Il primo amore, Giordani Teresa, alla quale strappa un bacio alla fine della guerra.
Poi va a fare il soldato. Da lì nelle prime fabbriche a lavorare e nelle piazze a manifestare contro i padroni. Finisce in manicomio per aver picchiato un supervisore.
Torna al paese ma oramai è tutto cambiato e Liborio, nella sua semplicità, non capisce più nulla. Viene deriso ma anche temuto dalla gente perchè matto.
Arriverà il momento dell’addio e nella sua testa si immagina una festa dove sono tutti invitati, gli amici dell’infanzia, i suoi amori, i degenti del manicomio e i colleghi in fabbrica.
Un racconto che dura una vita, scritto come parlerebbe un cocciamatte, dialetto con parole inventate, ma con le considerazioni profonde del filosofo da strada attraverso le quali conosciamo le asprezze della vita, gli orrori della guerra, la vita in fabbrica nei primi anni dell’industrializzazione italiana, la vita in manicomio.
Conosciamo la solitudine di chi nasce sfortunato, abbandonato già prima di venire al mondo e con una testa che gli altri non capiscono.
Alla fine bisogna mettere i sassi in tasca per non farsi portare via dal vento
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Un folle savio
Con questo libro Remo Rapino ha vinto l’edizione 2020 del Premio Campiello: riconoscimento assolutamente meritato perché trattasi di una storia ricca di umanità, narrata direttamente in prima persona dal protagonista stesso, quel Liborio Bonfiglio che si racconta e che racconta la propria vita dalla sua nascita fino agli ultimi momenti prima di morire (“Ho preso allora un quaderno con le righe tutte dritte così non vado storto e sono partito con una bella Bic nera, che scrive bene…..devo finire di scrivere questa storia mia di cocciamatte, ci vuole il tempo che ci vuole che ottanta anni non sono pochi”). Liborio stesso si definisce un “Cocciamatte” con qualche rotella fuori posto (“...c’ho sempre pensato per vedere di capire come mai sta coccia mia da quasi normale s’è fatta na coccia matte, tutta na matassa sgarbugliata fuori di cervello”), seppur allo stesso tempo risulti colmo di un’umanità e di un candore quasi fanciullesco tali da riuscire a esprimere concetti e massime sul senso profondo della vita estremamente saggi e condivisibili (“Adesso lo so le cose e capisco pure i segni di allora, ma ci sono dovuto passare in mezzo alla tormenta per capire quello che significa acqua e vento e che vuol dire quando parlano del destino che sta già scritto, ma per imparare a leggere ci vuole tutta la vita”). Liborio è cosciente della sua differenza, dei suoi tanti “segni neri” come li chiama lui, quei dolori e quelle sofferenze che hanno condizionato negativamente la sua vita, come ad es. il non avere mai conosciuto il padre, figura che nel corso del romanzo ritorna continuamente nei suoi pensieri, come si trattasse di una litania ripetuta e che cerca di trovare disperatamente nel taglio dei suoi occhi (“A me mia madre mi diceva che io avevo gli occhi uguali ai suoi. Questo solo so”). Proprio la ripetizione di concetti, ricordi, personaggi rappresentano un po’ il marchio di fabbrica del romanzo, quasi come si trattasse di una filastrocca in cui le strofe (la storia) si alternano al ritornello, che ogni volta si allunga in funzione delle persone che Liborio incontra nel corso della sua esistenza: il maestro di scuola elementare Cianfarra Romeo, Teresa Giordani l’unico vero amore della sua vita che lo ha tradito per sposare un commerciante, gli amici operai della Ducati a Bologna e il dottor Mattolini direttore del manicomio nel quale il povero Liborio viene internato a seguito di un alterco finito male con un superiore in fabbrica.
“Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” è un romanzo che colpisce ed arriva al cuore del lettore, anche se la scelta delle continue ripetizioni di cose già dette forse a lungo andare stanca un po’, oltre alla non sempre agevole lettura, a causa della scelta di Rapino di fare parlare Liborio con un linguaggio e con espressioni gergali, popolari tipiche della tradizione abruzzese (terra natia dell’autore) in certi casi addirittura onomatopeiche (“ nella testa un’altra volta, più di prima, tutto un bistanclaque…un tata tatan tatatan, un tutum…”). Ulteriore valore aggiunto è inoltre risultata la scelta di ambientare le vicende del protagonista sullo sfondo della storia d’Italia e merito di Rapino è di essere riuscito a fondere sapientemente la Storia con la lettera maiuscola- in particolare gli anni della Resistenza dal 1943 in poi ed il periodo della lotta di classe durante gli anni del boom economico- con le vicende personali di Liborio.