Una spina nel cuore
Letteratura italiana
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Caterina, un’occasione compresa tardi
Una spina nel cuore è un godibile romanzo di intrattenimento che perfettamente incarna lo spirito letterario di Piero Chiara. L’ambientazione è quella classica per l’autore di Luino: sponde lombarde del lago Maggiore. La vicenda prende avvio nel 1933 e siamo quindi in piena epoca fascista. Il protagonista è un inconcludente signore di mezza età che ha trascorso la sua esistenza a cercare l’occasione buona ma non l’hai mai realmente trovata. Un’opportunità di salvezza, una vera e propria ancora viene rappresentata da una giovane ragazza di nome Caterina, la quale ha avuto un’infanzia complicata e contraddistinta dalla prematura scomparsa dei suoi genitori. È un’orfana, indifesa, senza vere amiche, che si imbatte in una storia amorosa piuttosto complicata con il ricco Ruggero Dionisotti; da lui viene disorientata e poi lasciata in un deserto, a brancolare tra le insidie di un difficile cammino, esposta agli agguati dei predoni. Proprio nel momento della rottura del rapporto tra Dionisotti e Caterina si inserisce il protagonista, che in qualche modo “accudisce” la ragazza nel momento della perdizione. Ne nasce una relazione, la cui portata viene compresa dal protagonista soltanto quando si affievolisce, fino a scomparire. Da quel momento Caterina diventa una spina nel cuore.
Inquadra bene il protagonista la seguente considerazione iniziale: «Tornavo dopo pochi mesi, convinto di aver sbagliato strada e senza rendermi conto che se nessun posto mi andava bene, era perché non andavo bene per nessun posto». La narrazione, come si può intuire, è in prima persona e da queste semplici parole si nota tutto lo smarrimento del protagonista, inchiodato ai tavoli da gioco del locale Metropole nel centro del paesino nel quale è nato e cresciuto. Caterina è una possibilità, ma mentre si palesa non viene considerata tale. Come detto, soltanto quando si allontana e quando il protagonista viene a sapere che nella vita sentimentale e sessuale di Caterina non c’è stato soltanto il Dionisotti ma molti altri uomini (dallo storpio Tibiletti, che diventerà effettivamente suo marito, fino al dottor Trigona, passando per le passeggiate con l’Orlando e le relative avventure, per lo scambio di mano al numero nove con lo Sberzi, per le serate in casa Vecchioni con gli amici di Teresita), la portata di Caterina viene compresa perché «l’uomo innamorato, e peggio ingelosito, è destinato a dar nei muri con la testa, al pari d’un cieco quando inferocisce». Il protagonista non si accontenta di sapere, vuole i dettagli di tutto quello che Caterina ha fatto e continua a fare con i tanti spasimanti, perciò li ricerca dalle amiche della ragazza (Teresita e Adelaide). E ogni tassello che si inserisce nel suo mosaico infittisce il dolore della spina conficcata nel cuore. Proprio in questa reazione risiede la netta differenza che intercorre tra il protagonista e il Tibiletti, sfortunato motociclista che a causa di innumerevoli incidenti si è sfigurato il volto ed è diventato zoppo. Il Tibiletti vuole un gran bene a Caterina, accetta quello che la ragazza fa con gli altri uomini. Il suo cuore non viene punto ma si allarga perché vuole accogliere il mondo intero, a partire da Caterina. Il destino vorrà che in un incidente stradale morirà insieme alla moglie quattro mesi dopo il matrimonio. Nel frattempo il protagonista aveva già cercato di cambiare pagina nella sua storia personale. Aveva accettato un nuovo incarico nell’Est Italia e apparentemente aveva trovato una nuova strada. La notizia, ricevuta postuma, della scomparsa di Caterina, segna la chiusura del romanzo e tutto finisce «al punto di partenza, d’ogni bene e d’ogni male» che era toccato al protagonista e che ancora poteva toccarlo.
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Il mistero dell’animo femminile
*“Non è che bene. È tutto bene, che rende felici tutti e non fa male ad anima viva.” Da qualche minuto sentivo una punta acuminata che mi penetrava nel petto. “Ma lei” chiesi “non sente una spina nel cuore?” “Una spina? No, non sento nessuna spina. Anzi, il cuore mi si allarga” rispose. Trasse un profondo respiro e spalancò le braccia come se volesse accogliere sul suo cuore il mondo intero.*
Piero Chiara, il cantore dei piccoli mondi, di quei paesi un tempo così caratteristici e ora quasi del tutto spersonalizzati da un progresso che porta solo sogni di ricchezza, è indubbiamente uno dei miei autori preferiti e ho letto quasi tutte le sue opere, per lo più di eccellente livello e qualcuna forse da considerare un capolavoro. Potrei dire che mi mancava solo Una spina nel cuore, tenuta per ultima chissà per quale arcano motivo, ma credo ne sia valsa la pena, perché accomiatarsi da un narratore che si apprezza così tanto è sempre un po’ malinconico, temendo anche che proprio l’ultimo libro sia quello meno riuscito. E invece posso congedarmi da lui con la soddisfazione di aver visto nel giusto, di averlo sempre considerato uno dei più grandi scrittori italiani e questo libro ne è un’ulteriore conferma. C’è sempre la vita di paese, con il lago, con il bar Metropole dove soggiornano i bighelloni giocando a carte o a biliardo, più che altro per ingannare il tempo, e immancabile c’è anche una storia di corna, o meglio una storia d’amore di una delicatezza incredibile, quasi che Chiara, probabilmente a fronte di un’esperienza personale non andata a buon fine, nel cercare di svelare la psicologia femminile volesse invece mettere a nudo, scoprire quella maschile. Caterina, la protagonista, è una ragazza che poco a poco svela la sua vita, come nel caso delle matrioske, perchè sollevato un velo di verità ci si accorge che sotto ce n’è un altro, che nella sua storia è preda e anche predatrice, che in fondo è un essere indifeso e succube, pronta a donarsi senza un’autentica passione. E lui, il protagonista maschile, che rispecchia per certi versi l’autore – e infatti parla sempre in prima persona – è colui che la perde e che solo allora tenta di capire, cerca di conoscere quella donna, per lui divenuta un’abitudine e che ora che se n’è andata ha finito con il lasciare un vuoto di cui continua a struggersi. Arriverà, per vie traverse, a conoscere la verità, scoprirà anche l’ultimo velo nel triste finale che lo vede desolatamente solo. Ci sono tanti personaggi, delineati alla perfezione, come il Dr. Trigona, il medico del paese, l’ostetrica Adelaide Biotti, il mostruoso e sfortunato Tibiletti, il Dionisotti, il signore prepotente, quasi un Don Rodrigo che somiglia tanto a Mussolini, il vissuto oste Sberzi e perfino il parroco, il saggio Don Galimberti. Si muovono tutti con un sincronismo perfetto, non sono semplici comparse, ma rivendicano una partecipazione attiva che impreziosisce il romanzo.
Chiara ha saputo misurare gesti e parole, senza mai ricorrere all’enfasi, con un ritmo blando, quasi stanco, proprio come quello che scandiva la vita di un paese negli anni ’30. È sortito così un capolavoro, uno di quei romanzi che inizia piano piano, poi ti prende senza che ti accorga e s’infila dentro come una serpe, scava nell’animo per rinchiudervisi, si ficca nel cuore come una spina e finisce così che te lo porti sempre appresso, che ogni tanto ti torna in mente, ricordandolo con vero piacere, quel piacere che hai provato nel corso di tutta la sua lettura.
Imperdibile.